1. Polemiche politico-mediatiche e preoccupazioni allarmistiche, sollevate da scarcerazioni di boss mafiosi per rischio-contagio da Covid-19, sollecitano alcune considerazioni sui rapporti tra informazione giornalistica, opinione pubblica, ruolo/orientamenti della magistratura e decretazione d’urgenza da parte del governo.
Anticipo subito una impressione complessiva: l’impressione cioè che, sul duplice piano della rappresentazione mediatica e della gestione politica della questione-scarcerazioni, abbia finito ancora una volta col prevalere una realtà comunicativamente e strumentalmente costruita rispetto – per dirla con Sciascia – alla realtà effettuale[1]. Si è assistito – direi – a una narrazione tendenziosa in chiave drammatizzante, basata sulla enfatizzazione di un conflitto di culture tra magistrati antimafia e magistrati di sorveglianza: rappresentati rispettivamente, di fronte alla pubblica opinione, nei contrapposti ruoli da un lato di rigorosi garanti della sicurezza dei cittadini e, dall’altro, di giudici deboli e inaffidabili perché incapaci di opporre resistenza a presunte pressioni mafiose (una sorta di magistrati ‘minorati’, da ricondurre dunque sotto la tutela e la guida dei colleghi dell’antimafia!). E a discreditare con effetti delegittimanti i magistrati dell’esecuzione penale hanno, invero, direttamente contribuito noti esponenti dell’antimafia giudiziaria, criticando con frequenti e allarmate esternazioni pubbliche i provvedimenti di scarcerazione emessi per ragioni di emergenza sanitaria.
Questo del conflitto e delle polemiche interne all’ordine giudiziario, in effetti, è un problema che sollecita rilievi appositi che ho svolto in altro luogo. Mi limito qui a ribadire che, se la diversità di ruolo professionale incide certo sulla cultura o ideologia del magistrato, altra (e preoccupante) cosa è che questa diversità alla fine sfoci in contrapposizioni culturali così nette da apparire inconciliabili[2].
2. L’aspetto che più dovrebbe fare riflettere – e, al tempo stesso, destare preoccupazione – riguarda l’andamento non solo tendenzioso, ma per certi versi anche manipolatorio della campagna allarmistica lanciata da importanti testate giornalistiche, non a caso abitualmente fiancheggiatrici dell’impegno antimafia delle procure. Con interventi frequenti e insistenti di cronisti e commentatori, si è puntato all’obiettivo di alimentare paura, sconcerto e indignazione pubblica, suscitando la falsa impressione di una notevole quantità di scarcerazioni di capi mafiosi in regime di 41 bis (sottoposti cioè al carcere duro per la loro rilevante e perdurante pericolosità) per improvvida sopravvalutazione del rischio-contagio da parte dei giudici autori dei relativi provvedimenti[3].
Questa enfasi drammatizzante, non a caso, tace (o, comunque, non esplicita) un dato tutt’altro che secondario: cioè che di capimafia di grosso calibro al 41 bis ne sono stati scarcerati soltanto tre (al massimo quattro)[4]. A ulteriore conferma dell’orientamento partigiano di questo stile informativo, va considerato lo spazio ripetutamente concesso non solo alle critiche dei procuratori, ma anche alle preoccupazioni manifestate sia da alcuni ex mafiosi “pentiti” divenuti collaboratori di giustizia, sia da parenti di giudici martiri della lotta alla mafia appositamente intervistati[5].
Sollecitare i “pentiti” a pronunciarsi contro le scarcerazioni serve – è chiaro – a ribadire l’ammonimento che la lotta alla mafia, per risultare efficace e credibile, deve mettere sempre e comunque al primo posto la segregazione dei boss, senza buonismi o cedimenti neppure per ragioni di emergenza sanitaria. Mentre lo sfruttamento mediatico del paradigma vittimario, nel far leva sulle perduranti ferite psicologiche delle vittime dei reati di mafia, avalla implicitamente l’idea sbagliata che la risposta punitiva dello Stato serva soprattutto ad assecondare bisogni di tipo emotivo-retributivo.
3. Ad ingarbugliare e a rendere ancora più conflittuale la vicenda delle scarcerazioni ha, non poco, contribuito il sopravvenuto conflitto tra il ministro Bonafede e il magistrato-simbolo dell’antimafia Nino Di Matteo[6]. Nel senso che la velata accusa rivolta dal secondo al primo, di avere nel 2018 ceduto alle proteste dei mafiosi al 41 bis che avversavano la preannunciata nomina del magistrato palermitano a capo del Dap, ha finito col ridestare sospetti (non sempre, peraltro, disinteressati!) di una possibile riemersione dello schema “trattavista”: vale a dire, di quella tendenza dello Stato italiano a venire a patti con le organizzazioni mafiose, di cui l’indagine storiografica ha fornito puntuali riscontri soprattutto rispetto alla storia meno recente, e che la differente ottica ricostruttiva privilegiata da non pochi magistrati antimafia tende invece (a nostro avviso, con pregiudiziale convinzione) a elevare a vera e propria costante fino ad anni a noi più vicini[7].
Ecco che, interpretata alla stregua del (presunto) paradigma della trattativa, la stessa recente scarcerazione di boss per motivi di salute si caricherebbe di valenze inquietanti in chiave di collusiva resa alla minacce mafiose. Interpretazione realistica, opportunisticamente strumentale o frutto di fobie nevrotiche? In realtà, è difficile dissentire da chi ha rilevato che accostare il fantasma trattativista a un politico grillino come Bonafede “sembra, più che azzardato, ingannevole”[8].
Altre sono, piuttosto, le ragioni che – specie agli occhi di uno studioso di orientamento liberaldemocratico – fanno apparire assai discutibili le idee e l’operato dell’attuale guardasigilli: esse – com’è intuibile – hanno a che fare con l’esasperato populismo punitivista che connota la sua azione riformistica e il suo stile operativo.
4. All’enfatizzazione mediatica del tema-scarcerazioni si è, per converso, accompagnata una tendenziale sottovalutazione del grave rischio di diffusione delle infezioni nelle carceri. Sia importanti quotidiani, sia trasmissioni televisive hanno ripetutamente dato voce a noti esponenti delle procure propensi a sostenere che il carcere, in quanto ambiente chiuso e controllato, consente una protezione dal contagio comparativamente maggiore rispetto a una collocazione dei detenuti in sedi domiciliari o in luoghi di cura esterni[9]. Dal canto suo, il procuratore nazionale antimafia ha per di più affermato che permettere che un’epidemia pur gravissima possa interrompere lo stato detentivo di mafiosi equivarrebbe a un segnale di debolezza, dal momento che “sarebbe come ammettere di non saper gestire le carceri (… ). Ci sono tutte le strutture, le professionalità, per assicurare ai detenuti al 41 bis tutta la sicurezza necessaria”[10]. Con tutto il rispetto per la competenza del procuratore nazionale, non sarei altrettanto sicuro. Piuttosto, la mia esperienza di garante regionale dei diritti dei detenuti mi induce a dubitare della idoneità delle strutture penitenziarie italiane, qualitativamente molto disomogenee e in non pochi casi degradate e mal funzionanti, a consentire una sufficiente prevenzione dell’infezione virale. Se finora il numero dei reclusi risultati “positivi” è rimasto tutto sommato contenuto[11], ciò è verosimilmente dovuto anche a fattori fortuiti che hanno giocato in senso favorevole.
Comunque sia, l’allarmata attenzione concentrata sulle scarcerazioni ha avuto come effetto il silenzio-stampa sulla morte per Covid-19 di un detenuto anziano, ex tossicodipendente e affetto da patologie pregresse, contagiatosi nel carcere di Bologna; così come sono passati pressoché inosservati i decessi di altri quattro detenuti, di due agenti e di due medici penitenziari: “Amnesie selettive, perché elidere dall’informazione pezzi di realtà è forse l’unico modo per potere continuare a spacciare, al posto della realtà, la fiction del carcere come luogo più sicuro al mondo”[12].
5. La grande preoccupazione indotta dalle polemiche politico-mediatiche, com’è noto, ha spinto il ministro Bonafede a preparare con concitata urgenza – si può dire “ad horas” – ben due decreti-legge, entrambi miranti all’obiettivo politico di confermare, con effetto di rassicurazione dei fronti più allarmati, che la tutela della sicurezza collettiva rimane ai primi posti nell’agenda di governo.
Il primo decreto in data 30 aprile 2020 (precedente l’esplosione del conflitto col magistrato Di Matteo) ha inteso diffondere il messaggio che i magistrati di sorveglianza vanno sottoposti alla vigilanza delle procure: è per questo che si è prevista l’obbligatorietà di un parere (beninteso da interpretare come non vincolante, pena l’incostituzionalità dell’innovazione normativa) – a seconda dei casi – della procura nazionale e delle procure distrettuali antimafia ai fini della concessione di misure extradetentive ad autori di reati di criminalità organizzata[13].
Il secondo decreto 10 maggio 2020, concepito in maniera ancora più affrettata in seguito allo scontro col magistrato-simbolo, mostra con inoccultabile evidenza il volto di un provvedimento ad efficacia soprattutto simbolico-comunicativa. Mentre è chiaro l’obiettivo di autosalvataggio politico perseguito dal ministro Bonafede, scarsissimo è invece il contributo normativo che questo decreto reca in termini di vera e sostanziale innovazione: a ragione, un commentatore esperto di temi giudiziari ha ironicamente escogitato l’etichetta “decreto-Lapalisse”[14]. Infatti, si tratta di un provvedimento che non va molto al di là del ribadire forme di controllo giudiziario sui soggetti sottoposti a misure extracarcerarie che l’ordinamento già in precedenza consentiva: aggiungendo però la previsione di una nuova tempistica irrealistica, in quanto poco compatibile con i carichi di lavoro degli uffici giudiziari che dovrebbero osservarla (v. infra in questo stesso paragrafo).
Esulando dal taglio di questo intervento analisi di tipo esegetico di tale duplice ‘ipermotorizzata’ decretazione, mi limito a qualche rilievo sommario.
Rispetto innanzitutto alla previsione del parere obbligatorio delle procure, si tratta di una scelta normativa che – come è stato condivisibilmente rilevato – “non ha contribuito a realizzare un più ragionevole equilibrio tra le istanze contrapposte della prevenzione e della tutela dei diritti fondamentali della persona, ma che rivela il suo vero significato, tutto politico, di mostrare all’opinione pubblica la capacità dell’esecutivo di frenare giudici, sul cui operato – questo il messaggio – è bene sorvegliare”[15] (e – si può aggiungere – se ne può altresì desumere l’implicita sollecitazione, rivolta sempre ai giudici, a far prevalere la bilancia più sul lato della sicurezza). Ma c’è un ulteriore aspetto, tutt’altro che secondario, da porre nel dovuto rilievo, che riguarda precisamente le fonti conoscitive sulla cui base i magistrati delle procure formulano i pareri: essi dispongono di dati costantemente aggiornati, frutto di indagini empiriche rinnovate e affidabili sulla persistente pericolosità dei mafiosi reclusi, verificata anche in rapporto al perdurare di collegamenti con le associazioni criminali e i relativi contesti territoriali di riferimento? Personalmente mi permetterei di avanzare qualche dubbio in proposito, suffragato dall’esperienza concreta dei magistrati dell’esecuzione penale che hanno da tempo sperimentato forme di interlocuzione con i pm ai fini della valutazione di persistente pericolosità di mafiosi in stato detentivo.
Come ha infatti dichiarato nell’ambito di una recente intervista Antonietta Fiorillo, giudice preposta alla guida del Coordinamento nazionale dei magistrati di sorveglianza, il cosiddetto parere veniva di fatto richiesto anche prima che ne venisse di recente stabilita l’obbligatorietà: ma le procure – ecco il punctum dolens –, in luogo di fornire elementi fattuali di giudizio, sono solite inviare per lo più dati cartacei, vale a dire l’elenco delle sentenze di condanna o dei procedimenti in corso, per cui – obietta Fiorillo – “non ce ne facciamo niente: quegli atti li conosciamo già, sono il punto di partenza del nostro lavoro. A noi servono informazioni sull’attualità dei collegamenti con l’associazione mafiosa, i nuovi contesti criminali”[16].
Saranno in grado le procure, in futuro, di trasmettere utili conoscenze empiriche in luogo di dati cartacei? Lascio volutamente aperto l’interrogativo.
Quanto al secondo e più recente decreto governativo, non mi addentro nell’analisi di profili strettamente procedurali che esulano oltretutto dalle mie dirette competenze. Ribadendo che si tratta di un giustamente etichettato “decreto-Lapalisse”, a causa – come poc’anzi anticipato – della mancanza di vere innovazioni di sostanza, ciò che di nuovo viene introdotto è costituito dalla previsione che i giudici dovranno rivalutare la permanenza dei motivi di salute connessi all’emergenza sanitaria in tempi molto ravvicinati (cioè una prima volta nei quindici giorni successivi alla pubblicazione ufficiale del decreto, e successivamente con cadenza mensile). Nel contempo, si esplicita che, prima di emettere nuovi provvedimenti, la magistratura dovrà chiedere alle autorità competenti se vi siano posti disponibili nelle strutture sanitarie penitenziarie o nei reparti protetti degli ospedali dove il condannato possa proseguire lo stato detentivo senza pregiudizio per le sue condizioni di salute.
Orbene, il messaggio politico è evidente, ancorché implicito: la magistratura viene invitata a far rientrare il più presto possibile in cella i detenuti mafiosi già scarcerati. Ma, a parte la quantomeno dubbia legittimità di tale sollecitazione (e la non meno dubbia sua idoneità a condizionare effettivamente la valutazione giudiziaria), un effetto certo delle verifiche ripetute entro scadenze temporali brevi sarà quello di ingolfare ulteriormente gli uffici interessati, che avranno pertanto bisogno di un ampliamento delle risorse di personale peraltro insufficienti da anni[17]. Ma vi è di più. C’è altresì da prevedere che le verifiche periodiche sulle condizioni di salute individuale dei soggetti scarcerati, e nel contempo sull’andamento generale del rischio-contagio, nonché sulla possibilità di collocazione in strutture sanitarie intramurarie o esterne protette, siano destinate a incrementare informazioni trasmesse per via prevalentemente “cartacea” e a rendere ancora più complicate le interlocuzioni tra uffici di differente natura e competenza. Insomma, c’è da temere che questi appesantimenti burocratici possano alla fine risultare di ulteriore ostacolo – al di là della buona volontà dei magistrati tenuti a compiere le verifiche – a giudizi di bilanciamento basati su di una effettiva conoscenza dell’insieme dei dati fattuali rilevanti nei diversi casi concreti.
6. Provando, a questo punto, a ricavare dai rilievi che precedono motivi o spunti di ulteriore riflessione, evidenzierei (o ribadirei) i punti seguenti.
6.1. Sembra ricevere emblematica conferma l’influsso enorme che la comunicazione mediatica – tanto più se tendenziosa o distorsiva – esercita sia sulle reazioni del pubblico in tema di criminalità e carcere, sia sulle dinamiche politiche che condizionano i processi genetici e deliberativi di nuove norme in materia di giustizia penale. Questo influsso costituisce, d’altra parte, altresì un riflesso della tendenza delle forze politiche – accentuatasi nel corso degli anni – a orientare la politica penale alla stregua degli atteggiamenti e delle reazioni della pubblica opinione (o di suoi settori assunti, di volta in volta, a punto di riferimento di ascolto privilegiato), così come a loro volta in variabile misura plasmati o manipolati dagli organi di informazione, peraltro divenuti sempre meno neutrali[18].
L’ammonimento che, come studiosi, ormai da molti anni non ci stanchiamo di ribadire – e cioè che una politica criminale razionale e ponderata, lungi dal rispecchiare e assecondare con acritica prontezza le reazioni del pubblico, dovrebbe sottoporre a un preventivo filtro critico gli orientamenti punitivi dei cittadini – sempre meno, evidentemente, è riuscito a farsi prendere sul serio nei circuiti della deliberazione politica. Certo, non è da escludere una corresponsabilità da addebitare a noi studiosi, per non essere stati capaci di farci ascoltare convincendo della bontà delle nostre ragioni; ma questo è un discorso da eventualmente approfondire in altra sede.
6.2. Una ulteriore indicazione che può ricavarsi, forse, è superfluo esplicitarla: alludo alla nota propensione della politica contemporanea – una sorta, ormai, di incoercibile coazione a ripetere – a (tentare di) occultare la propria sostanziale incapacità di affrontare alla radice o nelle loro reali cause i problemi sul tappeto, trasferendone illusoriamente la soluzione sul piano di un riformismo normativo a getto continuo, sempre più accelerato, approssimativo, confuso e, da ultimo, divenuto (con la complicità dell’attuale emergenza sanitaria) ancora più affannoso e concitato pressoché nei termini di una legiferazione “ad horas”.
Sappiamo bene che l’eccessiva mutevolezza delle disposizioni normative produce, purtroppo, effetti molto negativi in particolare nella materia dei delitti e delle pene: la quale richiederebbe i tempi necessari a far maturare l’interiorizzazione e il consolidamento di principi, valori e regole di condotta nella coscienza dei cittadini (vale ancora o è divenuta obsoleta, una tale esigenza, in questa epoca di riformismo nevrotico?); ed esigerebbe, altresì, bilanciamenti quanto più possibile ragionevoli ed equilibrati tra valori ed esigenze di tutela in concorrenza o in conflitto. Secondo quel modello di legislazione per davvero costituzionalmente orientata, che ormai da molti anni dottrina e giurisprudenza costituzionale additano e sviluppano, ma che la prassi legislativa corrente tradisce in maniera sempre più manifesta: con la conseguenza inevitabile di un accentuarsi della divaricazione – per riproporre una distinzione categoriale e assiologica sulla quale va insistendo, tra i penalisti, Massimo Donini – tra lex e ius[19]: cioè tra la legge penale quale mero prodotto di una politica che non esita a utilizzare lo strumento punitivo quasi per qualsivoglia scopo contingente di governo o di comunicazione simbolico-propagandistica (in base al calcolo opportunistico di poterne lucrare un tornaconto in termini di autoaccreditamento, consenso, voti, prevalenza nella competizione tra partiti o fazioni ecc.); e il diritto penale quale costruzione basata su pilastri costituzionali e su un più solido e stabile impianto valoriale, alla cui edificazione e al cui sviluppo partecipano la scienza penalistica, le Corti ai vari livelli e gli apporti provenienti dai saperi e dalle forme di cultura che maturano nei contesti storico-sociali di riferimento.
6.3. Valenza lato sensu politica hanno, indubbiamente, avuto le ripetute esternazioni mediatiche, di intonazione allarmata e allarmante, dei magistrati di procura contrari alle scarcerazioni, così come – in aggiunta – ha avuto ripercussioni politiche l’accusa televisiva adombrata dal magistrato Di Matteo a carico del ministro Bonafede. Anche se non è questa l’occasione per discutere il ricorrente e dibattuto problema dei limiti che la funzione di magistrato impone alla libertà di manifestazione del pensiero, rileverei – con sintesi forse brutale – che una cosa è la libertà di esprimere il proprio pensiero che deve essere certo riconosciuta anche ai giudici, altra cosa è una sorta di libertinaggio comunicativo cui più di un magistrato mostra di lasciarsi andare, come anche in quest’ultimo periodo è purtroppo accaduto. Libertinaggio, a sua volta, o improntato a uno stile di pensiero dogmatico e assolutistico, asserente verità preconcette prive di supporti empirici[20] e, perciò, refrattario a quella regola del “dubbio cognitivo” che dovrebbe conformare anche la specifica etica della funzione magistratuale[21]; o proclive – come nel recente caso di Di Matteo – a diffondere nel circuito mediatico, in maniera assai incauta, sospetti infamanti addirittura sull’operato di esponenti istituzionali di primo piano. Formulare accuse maliziosamente velate, e impossibili da provare, equivale a immettere nella comunicazione pubblica virus inquinanti insuscettibili di essere combattuti: gli azzardati sospetti di riemergenti collusioni trattativiste tra lo Stato e la mafia sono, infatti, destinati a rimanere sospesi nell’aria con perniciosi effetti sui cittadini più sospettosi, perché – a differenza dei “fatti” – non possono essere né smentiti né confermati. Che un così grave inquinamento del dibattito pubblico possa avere la sua origine in una sconsiderata dichiarazione televisiva di un magistrato, è un fatto preoccupante che merita senz’altro rigorose censure[22].
6.4. Che nell’ambito delle polemiche di questo periodo abbia prevalso un approccio rozzo e semplificato, e quindi poco critico, al tema della pena e del carcere, emerge da una pressoché esclusiva concentrazione dell’attenzione sulle (peraltro, più presunte che dimostrate) esigenze securitarie e sulle istanze retributive delle vittime di mafia (rappresentate sulla stampa come persistenti a mezzo di interviste di intonazione vittimaria[23]): la concezione della pena implicita nella narrazione mediatica sembra, dunque, darne per scontata, e al tempo stesso avvalorarne, una prevalente funzione per un verso neutralizzatrice di una pericolosità criminale altrimenti incontrollabile e, per altro verso, appunto retributiva in chiave emotiva[24]. In questa unilaterale e ristretta ottica visuale, oltre a perdersi di vista la complessità teleologica della punizione, nessuna rilevanza viene attribuita – come è stato ben messo in evidenza – alla dimensione temporale, sotto il duplice profilo del tempo trascorso dal commesso reato e della quantità di pena già di fatto scontata dai boss fatti uscire dal carcere per ragioni di emergenza sanitaria: che alcuni fossero ormai vicini al fine-pena, o comunque avessero scontato tanti anni di galera, è un dato che la discussione pubblica ha mostrato del tutto di trascurare[25].
Ma vi è di più. L’ossessione securitaria incentrata sulla pericolosità comunque persistente del mafioso (salvo che egli rompa il vincolo associativo nell’unico modo che l’antimafia ‘purista’ considera credibile, cioè con la collaborazione giudiziaria), a ben vedere, concepisce la mafiosità come qualcosa di simile a una categoria antropologica, tale per cui il mafioso assurgerebbe ad un tipo astratto di autore destinato, per le sue (presunte) caratteristiche intrinseche, a incarnarsi senza eccezione (come per effetto di una infallibile legge di natura!) in tutti i mafiosi in carne e ossa: stante questo approccio astrattamente categorizzante, sfugge del tutto che il senso e gli scopi della pena vanno rapportati – piaccia o non piaccia, anche nel caso degli autori di reati di mafia – ai tratti peculiari di esseri umani concreti che variano da caso a caso[26].
6.5. Non è facile stabilire fino a che punto sia vero che “punire” sia diventata una “passione contemporanea”, per richiamare il titolo di un saggio ormai noto[27]. Ma sappiamo bene che le tendenze populiste, che da qualche tempo orientano e inaspriscono la politica penale (peraltro, non solo nel nostro paese), sfruttano e canalizzano politicamente pulsioni punitive connesse a sentimenti di paura, frustrazione, rabbia e risentimento diffusi a maggior ragione in periodi di crisi economica soprattutto nei ceti più svantaggiati od emarginati[28]: da qui un uso politico dello strumento penale come arma puntata contro nemici sociali di turno (criminali organizzati, corrotti ecc.) elevati a capri espiatori. Si instaura di conseguenza un circolo vizioso, nel senso che il populismo penale rilancia e rafforza istanze punitive preesistenti in seno alla società.
A rafforzare questo circolo vizioso può contribuire l’orientamento iper-repressivo dell’antimafia politica e giudiziaria, nella misura in cui – com’è facile intuire – l’adozione di una prospettiva rigidamente ed enfaticamente carcerocentrica rischia di produrre l’effetto (anche preterintenzionale!) di continuare ad accreditare, agli occhi del pubblico, la pena detentiva come il più efficace rimedio a tutt’oggi disponibile contro non solo la delinquenza mafiosa, ma anche le altre forme di criminalità.
Ma è pur vero che non tutta l’antimafia giudiziaria mostra, oggi, di essere incondizionatamente a favore di un uso massiccio della pena carceraria. Al suo interno è dato registrare qualche voce più pensosa e critica, come ad esempio quella di Roberto Scarpinato – magistrato antimafia tra i più conosciuti – il quale ha, di recente, scritto: “La questione-carcere resta la cattiva coscienza di questo Paese e la cartina di tornasole delle storture di un sistema di giustizia che, per un verso, declama nobili principi di uguaglianza dinanzi alla legge e di trattamento rieducativo dei condannati, e, per altro verso, continua a ospitare nelle carceri la stessa popolazione carceraria degli inizi del Novecento (…) oggi, come ieri come l’altro ieri, in carcere a espiare la pena finisce quasi esclusivamente chi occupa i piani più bassi della piramide sociale”[29].
7. A questo punto, in chiusura di queste rapsodiche considerazioni intorno a tematiche di attualità a carattere peraltro non sempre omogeneo, rinnoverei un auspicio che ho avuto anche di recente occasione di formulare[30].
Mi piacerebbe cioè confidare nel fatto che possano, in un futuro non lontano, venire a esistenza le condizioni anche di contesto che consentano al Csm e alla Scuola di formazione professionale della magistratura – in interazione dialettica con il mondo universitario e l’avvocatura quali co-pratagonisti dei processi formativi, e non quali presenze secondarie e di contorno – di svolgere una funzione di reale (ri-)orientamento: ciò in vista – soprattutto – di un progressivo superamento (o ridimensionamento) di quelle forti contrapposizioni tra ideologie e culture magistratuali che, come l’esperienza ha più volte dimostrato, da un lato poco giovano alla complessiva credibilità dell’ordine giudiziario e, dall’altro, stimolano ricorrenti tentazioni strumentalizzatrici in sede politica, con ricadute dannose sul funzionamento dell’intero sistema democratico.
È un auspicio troppo ottimistico?
[1] La letteratura sui complessi rapporti tra giustizia penale e comunicazione mediatica è vastissima: può essere sufficiente, nell’ottica circoscritta di questo mio intervento, richiamare i contributi raccolti sotto il titolo Verità e distorsioni nel racconto mediatico della giustizia, e pubblicati nella parte terza del volume collettivo Giustizia e letteratura, I, a cura di G. Forti e altri, Milano, 2012, 592 ss.
[2] Più diffusamente, G. Fiandaca, Estremismo dell’antimafia e funzione di magistrato, in Diritto di difesa, 6 maggio 2020.
[3] Emblematici alcuni articoli di intonazione manifestamente allarmistica apparsi su un quotidiano autorevole e di grande diffusione come la Repubblica: ad esempio, nella edizione dell’8 maggio 2020, il giornale esibisce l’impressionante intitolazione 376 boss scarcerati. Ecco la lista riservata che allarma le procure (intitolazione anche ingannevole, perché occulta che dentro il dato numerico complessivo sono ricompresi numerosi mafiosi sia di medio/piccolo calibro e in regime di alta sicurezza (che è cosa ben diversa dal carcere duro), sia ancora in attesa di giudizio. Nel successivo articolo del 9 maggio 2020, i giornalisti L. Milella e S. Palazzolo riferivano ancora, in forma molto generica, di 376 esponenti delle cosche liberati fino al 30 aprile, cui avrebbero rischiato di aggiungersi altri 456, di cui 225 già condannati e 231 in attesa di giudizio: e, proprio allo scopo di correre ai ripari, sarebbe stato quasi in dirittura di arrivo il decreto-legge “riacchiappamafiosi” (sic!) urgentemente e opportunamente predisposto dal guardasigilli Bonafede.
[4] Sul versante giornalistico, di questa precisazione si fanno meritoriamente carico L. Ferrarella, Quelle scarcerazioni e la demagogia dei pm per attaccare i giudici, nel Corriere della sera, 8 maggio 2020; e G. Ferrara, Togliere la coca dall’informazione italiana, ne Il Foglio, 9 maggio 2020.
[5] Ad esempio, intervistata da la Repubblica, 6 maggio 2020, Maria Falcone (sorella di Giovanni Falcone) ha obiettato
che “la certezza della pena, in un paese democratico, non dovrebbe mai essere messa in discussione”.
[6] Rinvio, in proposito, alle considerazioni svolte nel mio intervento Estremismo dell’antimafia e funzione di magistrato, cit.
[7] Sia consentito rinviare a G. Fiandaca e S. Lupo, La mafia non ha vinto. Il labirinto della trattativa, Roma-Bari, 2014; v. altresì S. Lupo, La mafia. Centosessant’anni di storia, Roma, 2018.
[8] A. Bolzoni, La gestione approssimativa dell’emergenza, ne la Repubblica, 6 maggio 2020.
[9] Tra i più convinti e insistenti sostenitori di questo punto di vista, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri: si legga, ad esempio, l’intervista intitolata Quelle scarcerazioni scoraggiano i cittadini, a cura di G. Barbacetto, apparsa nel Fatto quotidiano, 13 maggio 2020.
[10] Per riferimenti al riguardo rinvio al mio precedente articolo La trovata di Bonafede. I giudici sottoposti all’accusa, pubblicato ne Il Riformista, 28 aprile 2020.
[11] Alla data del 15 maggio, i dati numerici riferiti da un osservatore solitamente scrupoloso indicano 211 detenuti contagiati, più 320 tra agenti e sanitari: cfr. L. Ferrarella, Il virus in carcere e i conti del ministro che non tornano, articolo apparso nel Corriere della sera, 15 maggio 2020. Ma il conteggio può risultare complicato per un insieme di fattori intuibili, derivanti anche dalla difficoltà oggettiva di raccogliere informazioni nell’ambito di una realtà poco trasparente come il carcere. Mantenendo dunque ferma la consapevolezza che esistono margini più o meno ampi di errore e incertezza, aggiungiamo che, secondo dati da noi informalmente ottenuti dall’ Ufficio del Garante nazionale dei diritti dei detenuti, tenderebbe a calare – assumendo sempre a punto di riferimento la metà di maggio – la presenza di soggetti positivi al Covid-19 in carcere, anche per effetto di scarcerazioni conseguenti all’accertata positività: per cui, in atto (cioè alla data sopra indicata), sarebbero 119 i positivi tra le persone detenute di cui 2 in ospedale, e 162 tra il personale. Ma – ripetiamo ancora una volta – si tratta di dati numerici da confermare e, in ogni caso, oggetto di continuo aggiornamento.
[12] L. Ferrarella, Le carceri dove ci si ammala di Covid e il decreto-Lapalisse del Guardasigilli, Corriere della Sera, 10 maggio 2020.
[13] Per un commento “a caldo” cfr. A. Della Bella, Emergenza Covid e 41 bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in questa Rivista, 1 maggio 2020.
[14] L. Ferrarella, articolo citato supra, nota 12.
[15] A. Della Bella, Emergenza covid e 41 bis, cit. Sostanzialmente nel medesimo senso mi ero pronunciato nel mio articolo La trovata Bonafede, cit.
[16] Intervista ad A. Fiorillo, a cura di G. Bianconi, dal titolo Giudici di sorveglianza delegittimati da politici. Non liberiamo soltanto, applichiamo le leggi, pubblicata nel Corriere della sera, 9 maggio 2020.
[17] Questo effetto di sovraccarico lavorativo, ingestibile con lo scarso personale attualmente in servizio, è segnalato anche da A. Fiorillo nell’intervista citata alla nota precedente.
[18] Stando alle cronache, l’impatto delle scarcerazioni dei boss sull’opinione pubblica avrebbe preoccupato anche il Presidente della Repubblica, inducendolo a vigilare dai suoi uffici sull’elaborazione da parte del governo di nuove norme penitenziarie che, nel puntare a rendere più difficile l’uscita dal carcere di detenuti mafiosi, fossero però idonee a superare lo scoglio del divieto di retroattività: cfr. l’articolo di cronaca di A. Cuzzocrea, ne la Repubblica, 8 maggio 2020.
[19] Basti qui citare M. Donini, Iura et leges. Perché la legge non esiste senza il diritto, in Il pensiero. Rivista di filosofia, n. 2/2019, 45 ss., anticipato in questa Rivista, 20 dicembre 2019.
[20] Non può da questo punto di vista tranquillizzare, ad esempio, che uno dei più noti procuratori antimafia continui a ripetere, con incrollabile convinzione, che “è più facile essere contagiati in piazza Duomo a Milano che non nelle carceri”: cfr. l’intervista citata supra, nota 9.
[21] Cfr. L. Ferrajoli, Nove massime di deontologia professionale, in Questione giustizia, n. 6/2012, 77ss.; e, più di recente, M. Guglielmi, I danni alle istituzioni generati dal metodo Di Matteo, ne Il Foglio, 12 maggio 2020.
[22] Non solo condivisibili, ma anche assai opportune appaiono le critiche in proposito avanzate da M. Guglielmi (attuale Segretaria di Magistratura democratica) nell’intervento I danni alle istituzioni, cit. Si aggiunga che la Presidente del senato Elisabetta Casellati, nel contesto di una intervista a cura di L. Rivara pubblicata su la Repubblica del 17 maggio 2020, ha affermato: “Sono preoccupata. Per la prima volta nella storia della Repubblica registro un conflitto grave tra un membro del Csm e il Ministro della Giustizia (…). Certo è che un conflitto di questo genere non può restare senza risposta. Anche il Csm deve fare la sua parte”. (Chissà se si svilupperà davvero una discussione istituzionale come questa sollecitata anche dalla senatrice Casellati!).
[23] Si veda, ad esempio, l’intervista giornalistica a Maria Falcone (sorella di Giovanni Falcone) richiamata supra, nota 5.
[24] Testimonia in modo paradigmatico questo tipo di approccio alla pena carceraria un ulteriore articolo su la Repubblica del 14 maggio 2020, intitolato Boss ai domiciliari, 498 usciti fuori. Zagaria tra i primi a tornare in carcere, col quale i giornalisti L. Milella e S. Palazzolo salutano implicitamente con molto favore i primi rientri in cella di mafiosi scarcerati per motivi di salute.
[25] Cfr. le lucide e puntuali considerazioni in proposito di D. Pulitanò, Pena e carcere alla prova dell’emergenza, in Diritto di difesa, 13 maggio 2020.
[26] Sul versante degli opinionisti più noti e accreditati, critica la tendenza diffusa nei media a parlare genericamente di boss, come categoria indifferenziata che appiattisce e finisce con l’ignorare la diversità umana dei singoli individui, M. Serra, La nebulosa dei boss, ne la Repubblica, 8 maggio 2020.
[27] D. Fassin, Punire. Una passione contemporanea, trad.it., Milano, 2018.
[28] Per rilievi sul nesso tra istanze punitive e sentimenti sociali di rabbia, frustrazione ecc. cfr. G. Forti, La cura delle norme, Milano, 2018, 113 ss.
[29] R. Scarpinato, Boss scarcerati: gli errori del Dap e quelli dei giudici, ne il Fatto quotidiano,14 maggio 2020.
[30] Mi riferisco al mio intervento Estremismo dell’antimafia e funzione di magistrato, cit.