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09 Aprile 2025


Armonizzazione e cooperazione nel diritto penale internazionale

Report del Convegno internazionale "Armonizzazione e cooperazione nel diritto penale internazionale" Università degli Studi di Milano, 13 dicembre 2024



Venerdì 13 dicembre 2024 presso la Sala Napoleonica di Palazzo Greppi, Università degli Studi di Milano, è stato celebrato il convegno dal titolo Armonizzazione e cooperazione nel diritto penale internazionale, che ha concluso la seconda edizione del Progetto di formazione di eccellenza Il diritto penale internazionale e gli attuali strumenti di cooperazione giudiziaria in materia di crimini internazionali, responsabili scientifici il Prof. Stefano Manacorda e la Prof.ssa Chantal Meloni, coordinatrice del progetto. Il Progetto è stato finanziato dal Ministero della Giustizia – Dipartimento per gli Affari di Giustizia e promosso dalla Fondazione Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale-CNPDS/ISPAC, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze Giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano.

In questa occasione, è stato presentato il volume a cura di Stefano Manacorda e Chantal Meloni, Le questioni aperte della giustizia penale internazionale nella prospettiva interna, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2024, che raccoglie i contributi di alcuni dei principali esperti italiani e stranieri sulla domestication della giustizia penale internazionale, presentati durante l’evento conclusivo della prima edizione del Progetto di formazione di eccellenza, dal titolo La giustizia penale internazionale nella prospettiva italiana.

 

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Il Prof. Emilio Dolcini (Emerito di diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano) ha inaugurato il convegno Armonizzazione e cooperazione nel diritto penale internazionale e successivamente il Prof. Francesco Viganò (Ordinario di diritto penale presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi e Giudice della Corte Costituzionale) ha tenuto la relazione introduttiva dei lavori, che si sono articolati in due sessioni.

Il Prof. Stefano Manacorda (Ordinario di diritto penale presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli) ha presieduto la prima sessione (la cui videoregistrazione è disponibile a questo link), suddivisa in due panel. Nel primo, dal titolo Le immunità dalla giurisdizione: una sfida sempre attuale per il diritto penale internazionale, sono intervenuti la Prof.ssa Paola Gaeta (Ordinaria di diritto internazionale presso il Geneva Graduate Institute) in qualità di speaker e il Dott. Matteo Colorio (Dottorando in diritto internazionale presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa) come discussant. Nel secondo, poi, dedicato alle Recenti proposte per l’adeguamento dei crimini di guerra nella legislazione penale italiana, hanno partecipato il Dott. Maurizio Block (Procuratore Generale Militare presso la Corte Suprema di Cassazione) come speaker e la Dott.ssa Maria Crippa (Assegnista di ricerca in diritto penale internazionale presso l’Università degli Studi di Milano) come discussant.

La Prof.ssa Chantal Meloni (Associata di diritto penale presso l’Università degli Studi di Milano), poi, ha presieduto la seconda sessione (la registrazione video è disponibile a questo link), anch’essa articolata in due panel. Il primo – afferente a Gli emendamenti allo Statuto di Roma sul crimine di aggressione – ha visto la relazione della Prof.ssa Chiara Ragni (Ordinaria di diritto internazionale presso l’Università degli Studi di Milano) e il secondo su I lavori per una Convenzione sui crimini contro l’umanità, dove è intervenuto il Prof. Enrico Milano (Ordinario di diritto internazionale presso l’Università degli Studi di Verona ed esperto giuridico della Rappresentanza permanente dell’Italia alle Nazioni Unite, New York). Discussant di entrambi i panel è stato il Prof. David Donat Cattin (Docente di diritto internazionale presso il Center for Global Affairs della New York University).

Il Prof. Francesco Palazzo (Emerito di diritto penale presso l’Università degli Studi di Firenze) ha concluso i lavori del convegno.

 

 

Sessione I

(Per il link al video clicca qui)

 

Il Prof. Emilio Dolcini, inaugurando il convegno, ha ricordato il rapporto di lunga data tra la Fondazione Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale e il Dipartimento di Scienze Giuridiche “Cesare Beccaria” dell’Università degli Studi di Milano, nel cui solco si colloca il Progetto di formazione di eccellenza e il suo evento conclusivo. Nell’evidenziare il rinnovato interesse per i temi oggetto del convegno, pone l’accento sul lavoro della Commissione Palazzo-Pocar, istituita nel 2022 dall’allora Ministro della Giustizia, Prof.ssa Marta Cartabia, sul Progetto di Codice dei crimini internazionali, chiamato ad adeguare il diritto penale interno allo Statuto di Roma. La proposta di articolato prevede(va) sia una compiuta disciplina dei crimini contro l’umanità, dei crimini di guerra, del crimine di genocidio e di quello di aggressione sia – soprattutto – una parte generale del crimine internazionale. Proposta di articolato che, dopo alterne e note vicende, è stata accantonata, senza neanche arrivare alla discussione parlamentare. Pertanto, ad oggi – sottolinea il Prof. Emilio Dolcini – l’adeguamento dell’ordinamento italiano allo Statuto di Roma va poco oltre la materia processuale, limitandosi in sostanza alla cooperazione giudiziaria; l’unico passo in avanti sul versante sostanziale, infatti, è stato compiuto nel 2021 in relazione al crimine di aggressione [N.d.R., legge n. 202 del 10 novembre 2021]. Non di meno, le carenze del diritto interno a fronte dei crimini internazionali dovrebbero essere particolarmente avvertite oggi, in un contesto internazionale segnato da crisi gravissime, che hanno come teatro, tra l’altro, anche zone vicine al nostro Paese: l’aggressione dell’Ucraina da parte della Federazione russa, da un lato, e la recrudescenza del conflitto israelo-palestinese, dall’altro. Entrambi all’attenzione della Corte penale internazionale, che, forse, aprirà anche un procedimento per i fatti avvenuti in Siria. Sono molte e diverse – conclude il Prof. Emilio Dolcini – le ragioni per le quali è auspicabile che dai lavori che si inaugurano giunga un nuovo impulso all’adeguamento dell’ordinamento italiano allo Statuto di Roma.

Il Prof. Francesco Viganò – nella prolusione al convegno – ha tracciato il quadro generale formatosi a seguito degli sviluppi del diritto penale internazionale negli ultimi tre decenni, che segnano un passo fondamentale nella storia dell’umanità, a fronte del quale non può che destare preoccupazione quanto sta accadendo in questi ultimi anni nello scenario internazionale. Si avverte una sensazione di fondo di crisi del modello di diritto penale internazionale come fino ad oggi si è sviluppato, che comporta anche la messa in discussione della stessa legittimazione teorica del diritto penale internazionale. Crisi che si rintraccia nella mancata ratifica dello Statuto di Roma e nella mancata adesione al sistema – che dovrebbe essere universale – del diritto penale internazionale da parte dei principali attori sullo scacchiere geopolitico, come gli Stati Uniti, la Cina e la Russia. A questa crisi si affianca anche una più generale sensazione di radicale inadeguatezza delle istituzioni e delle risorse disponibili per attuare il grande progetto della giustizia penale internazionale, poste in risalto dall’evidente disparità di scala tra i mezzi esistenti e le atrocità che vengono ancora perpetrate, a trent’anni da quanto accaduto in Ruanda e in Jugoslavia e in questi anni, in zone più prossime all’Italia. Critiche, fra le altre, che afferiscono anche al c.d. doppio standard che – a volte – guida il corso della giustizia penale internazionale.

In questo momento di crisi, vale la pena di ripensare alle ragioni profonde della scommessa fatta sul diritto penale internazionale.

Il diritto penale internazionale, infatti, ha un nesso evidente e profondo con il diritto internazionale dei diritti umani ovvero con la tutela dei diritti fondamentali della persona, che rientrano nella core mission della Corte Costituzionale e sono un altro modo di qualificare a livello nazionale gli stessi oggetti di tutela del diritto internazionale dei diritti umani.

La connessione tra diritto penale internazionale e diritto internazionale dei diritti umani si manifesta nel medesimo scopo – ossia tutelare la dignità della persona – che principia dalle origini storiche di queste due branche del diritto internazionale.

Ambedue nascono dalle ceneri della seconda guerra mondiale ed è da queste ceneri che nascono i Tribunali di Norimberga e di Tokyo e – sulla scia delle riflessioni di Raphael Lemkin – l’idea di una convenzione internazionale sul genocidio, che condurrà poi all’emanazione il 12 gennaio 1951 della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, nota come UN Genocide Convention. Negli stessi anni, si elabora la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che verrà approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948 e rappresenta l’atto di nascita del diritto internazionale dei diritti umani così come è concepito oggi. Nel 1950, poi, si stipula la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, progenitrice di tutte le carte regionali dei diritti dell’uomo. Emerge, quindi, un’evidente comunanza di intenti, che nasce da postulati giusnaturalistici, ma che poi si trasforma immediatamente in un’istanza di ricerca di fondamento positivo ai principi che si vogliono ricercare in entrambe le branche del diritto internazionale. Pertanto, attraverso un costante processo di formalizzazione dei principi, si giunge – sul piano del diritto internazionale dei diritti umani – alla stipula di convenzioni internazionali sulla tutela dei diritti umani, come la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo, il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici, la Convenzione Interamericana sui Diritti Umani, la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, mentre – sul piano del diritto penale internazionale – si stipula lo Statuto di Roma. Evoluzione normativa che origina dalle macerie ancora fumanti della seconda guerra mondiale e ha come scopo impedire la ripetizione degli orrori allora perpetrati.

Il secondo profilo di connessione tra queste due branche del diritto internazionale è, dunque, l’idea rivoluzionaria di riconoscere l’esistenza – prima a livello consuetudinario e poi a livello pattizio – di un insieme di norme di diritto internazionale (e di corpora interno al diritto internazionale stesso), che non si occupano di regolare i rapporti tra Stati, ma di proteggere i diritti fondamentali della persona e delle vittime dalle condotte poste in essere – dagli Stati o da singoli agenti statali – in violazione delle norme internazionali di diritto consuetudinario, oggi sempre più positivizzate. Il tratto rivoluzionario dell’idea sta, dunque, nel garantire una tutela giuridica alle persone intese non come cittadini di un singolo Stato, ma come appartenenti al genere umano e nel riconoscere una responsabilità dello Stato per fatti commessi in violazione del diritto internazionale anche contro i propri cittadini (soprattutto nel diritto internazionale dei diritti umani e dinanzi alle specifiche Corti regionali) così come una responsabilità penale dell’agente statale – cioè chi riveste una funzione nell’ambito dell’organizzazione statale – per la violazione dei diritti umani compiute nell’esercizio delle proprie funzioni ufficiali. E ciò dinanzi non all’autorità giurisdizionale dello Stato di appartenenza, ma ad un giudice terzo rispetto a quest’ultimo ed internazionale (la Corte penale internazionale). L’idea di fondo – e che ne segna il tratto appunto rivoluzionario – è dunque quella di un costituzionalismo aperto verso una dimensione sovranazionale: è l’intera comunità internazionale a farsi carico della tutela dei diritti delle persone, che, al netto della loro cittadinanza, vengono considerate come parte del genere umano, portatrici di un’inalienabile dignità di cui la stessa comunità internazionale se ne fa garante.

Il terzo profilo di connessione tra il diritto penale internazionale e diritto internazionale dei diritti umani si rintraccia, quindi, nel ruolo delle Corti internazionali chiamate ad assicurare il rispetto dei diritti fondamentali. I Tribunali di Norimberga e di Tokyo, prima, e i Tribunali ad hoc negli anni ’90, poi, e la Corte penale internazionale, infine, hanno avuto ed hanno una competenza diretta a giudicare gli agenti statali o parastatali per la commissione di crimini internazionali a danno dei loro stessi cittadini. Parallelamente, la Corte EDU, nello spazio giuridico del Consiglio d’Europa, può condannare uno Stato per le violazioni di questi diritti commesse a danno dei propri cittadini anche qui un’autorità giurisdizionale esterna allo Stato, che si ‘intromette’ in quegli ambiti un tempo considerati affari interni dello Stato stesso, scalfendo uno dei principali pilastri su cui per lungo tempo si era retto il diritto internazionale. Presupposto comune è la limitazione della sovranità dello Stato all’interno dei propri confini: la Corte penale internazionale e la Corte EDU, ciascuno nei propri ambiti, entrano nel rapporto più intimo tra lo Stato e i suoi cittadini, inclusa la giurisdizione penale, da sempre emblema della sovranità statale, che viene incrinata dalla possibilità che autorità giurisdizionali esterne alla compagine statuale intervengano per valutare la responsabilità penale di un cittadino di quello Stato.

Questa circostanza che fa emergere un quarto punto di connessione tra questi ambiti del diritto internazionale, che riguarda il ruolo del diritto penale come strumento per la tutela delle vittime e della protezione dei diritti fondamentali. Per quanto concerne il diritto penale internazionale un tale ruolo è coessenziale alla sua stessa ragion d'essere, stante il necessario ricorso allo strumento processuale penale e alla pena, mentre per ciò che concerne il diritto internazionale dei diritti umani tale ruolo inizia ad affermarsi verso la fine degli anni ’80 con il caso Velásquez Rodríguez vs. Honduras, scrutinato dalla Corte Interamericana dei diritti umani. Qui si afferma l’idea che per tutelare i diritti fondamentali delle vittime è indispensabile l’intervento del diritto penale, quantomeno rispetto ad un core, ossia ad un nucleo minimo di diritti della persona. Sulle ceneri delle dittature sanguinarie in Cile, Argentina, Perù, Uruguay, Brasile, si consolida l’idea che dinanzi alle violazioni massive dei diritti umani soltanto il diritto penale e processuale penale può assicurare la scoperta, la ricostruzione dei fatti, l’individuazione dei responsabili e la giustizia per le vittime e i loro familiari. Una tutela effettiva dei diritti fondamentali passa necessariamente attraverso le indagini, il processo e la punizione di coloro che sono stati riconosciuti responsabili di queste violazioni. L’effettività della tutela – per come risulta dal formante giurisprudenziale interamericano ed europeo – passa anche per il diritto alla verità da riconoscersi alle vittime e per l’illegittimità – al metro del diritto internazionale – di prescrizioni, amnistie ed immunità, che paralizzano il corso della giustizia penale. Lo ius puniendi diviene allora un munus puniendi ossia un servizio che lo Stato deve assicurare o che la comunità internazionale è tenuta ad assicurare per difendere i diritti umani, che si invera attraverso gli attori istituzionali chiamati a dare attuazione ai diritti delle vittime.

Il quinto ed ultimo punto di contatto tra diritto penale internazionale e diritto internazionale di diritti umani sta negli attori chiamati ad assicurare l’enforcement di questi diritti: oltre le Corti internazionali e regionali, emerge il ruolo complementare e sussidiario delle giurisdizioni interne. Nel diritto penale internazionale, il principio di complementarietà tra giurisdizione nazionale ed internazionale impone che sia in primo luogo lo Stato ad indagare a perseguire i core crimes e che solo quando questo sia unable o unwilling intervenga la Corte penale internazionale. Ma la medesima logica si rinviene anche nel diritto internazionale dei diritti umani: il principio di sussidiarietà prescrive alla giurisdizione interna di assicurare il rispetto dei diritti fondamentali e, dunque, al legislatore e all’amministrazione di adeguare il diritto interno al diritto internazionale dei diritti umani. I giudici nazionali (comuni, ordinari, amministrativi, costituzionali) hanno il compito di assicurare l’effettività dei diritti umani nell’ordinamento interno e solo in secondo luogo i giudici sovranazionali. E per far ciò, nel rispetto del principio di legalità, il diritto internazionale dei diritti umani assume un rango costituzionale o para-costituzionale nei singoli ordinamenti interni, come avviene attraverso gli artt. 11 e 117, co. 1, della Costituzione italiana. Pertanto, questo genere di norme – oltre che essere direttamente applicabili da parte dei giudici interni in forza delle leggi di ratifica delle convenzioni – è idoneo a fungere da parametro interposto di legittimità costituzionale. Di converso, il principio di legalità in materia penale osta al fatto – o quantomeno rende molto difficile – che un giudice penale interno proceda e condanni per un crimine previsto dallo Statuto di Roma, senza quel previo processo di adeguamento del diritto penale internazionale, indispensabile per assicurarne un enforcement effettivo, che la sola Corte penale internazionale non può garantire.

In definitiva, le due branche del diritto internazionale condividono un’unica grande missione: rendere giustizia alle vittime, lese nella loro dignità di appartenenti al genere umano.

Conclusa la prolusione, il Prof. Stefano Manacorda ha assunto la presidenza della prima sessione dei lavori e sottolineato che un momento potenzialmente di crisi per la giustizia penale internazionale, dovuto sia a tensioni geopolitiche sia a una narrazione approssimativa, può rappresentare anche un’occasione propizia per una piccola, nutrita e qualificatissima comunità di giuristi di ritrovarsi e di tornare a riflettere su alcune tematiche fondamentali del diritto penale internazionale, quali l’armonizzazione e la cooperazione, oggetto del convegno. La prima attiene al ravvicinamento delle legislazioni penali nazionali introno a standard comuni – non identici – animanti dai concetti-chiave di umanità e universalità, la seconda, invece, verte sulla cooperazione tanto verticale tra gli Stati e la Corte penale internazionale quanto orizzontale tra i diversi Stati. Punto focale di queste tematiche è il tema delle immunità dalla giurisdizione, sui cui è intervenuta la Prof.ssa Paola Gaeta.

La relazione si è concentrata su un particolare aspetto della cooperazione degli Stati Parte dello Statuto di Roma con la Corte penale internazionale, ossia l’immunità internazionale di cui possono godere alcune cariche dello Stato (quali Capi di Stato, Capi di Governo, Ministri degli Affari Esteri) e, quindi, i limiti, le possibilità o gli obblighi che vengono in essere quando la Corte penale internazionale accusa di un crimine internazionale una persona fisica mentre riveste una di queste cariche e richiede agli Stati Parte – attraverso una richiesta di cooperazione – di eseguire un mandato di arresto, emesso dalla stessa Corte e fatto circolare tramite Interpol. La Corte penale internazionale, infatti, è un’organizzazione internazionale creata da un trattato, a cui gli Stati possono aderire liberamente: oggi sono 124 gli Stati Parte dello Statuto di Roma e gli obblighi di cooperazione sono dettagliati nella parte IX dello Statuto, dove l’articolo 98 norma i limiti al potere della Corte di procedere alle richieste di cooperazione, rubricato Cooperation with respect to waiver of immunity and consent to surrender. Il paragrafo 1 di detta disposizione, infatti, prevede che «The Court may not proceed with a request for surrender or assistance which would require the requested State to act inconsistently with its obligations under international law with respect to the State or diplomatic immunity of a person or property of a third State, unless the Court can first obtain the cooperation of that third State for the waiver of the immunity». La ratio di questa norma è prevenire un conflitto tra gli obblighi internazionali gravanti sullo Stato Parte, per cui la Corte penale internazionale non può chiedere ad uno Stato Parte di agire in violazione dei vincoli in materia di immunità diplomatica e immunità degli Stati nei confronti di uno Stato terzo. Tuttavia, questa diposizione pare porsi in contrasto con una norma collocata tra i Principi generali dello Statuto della Corte penale internazionale ossia con l’art. 27, par. 2, rubricato Irrelevance of official capacity, che così dispone: «Immunities or special procedural rules which may attach to the official capacity of a person, whether under national or international law, shall not bar the Court from exercising its jurisdiction over such a person». Pertanto, secondo tale norma, la Corte – nell’esercizio delle sue funzioni e, in particolare, della giurisdizione penale – può procedere contro chi gode di un’immunità sia di diritto interno sia di diritto internazionale. Sotto il profilo della immunità di diritto interno, la ratifica di questa disposizione ha implicato la revisione della Costituzione di alcuni Stati Parte per eliminare le immunità del Monarca o del Capo di Stato e, quindi, per ha risolto ad origine il conflitto tra le disposizioni interne e l’art. 27, par. 2, dello Statuto di Roma. Sotto il profilo delle immunità di diritto internazionale, invece, il tema è più complesso: da un canto, la disposizione in commento consente alla Corte penale internazionale di procedere contro le persone a cui è riconosciuta l’immunità diplomatica o di diritto internazionale (Capi di Stato, Capi di Governo e così via), dall’altro, l’art. 98 dispone che la stessa Corte non piò chiederne l’arresto, onde evitare la violazione dell’immunità di cui esse godono. Antinomia emersa plasticamente nel caso Al-Bashir, Presidente deposto del Sudan, Stato non Parte dello Statuto di Roma. Come noto, su mandato del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, la Corte penale internazionale pone sotto indagine Omar Al-Bashir per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra perpetrati in Darfur nel 2003 e nel 2008, raccolte le prove di questi fatti, il Procuratore della Corte spicca un mandato di arresto nei confronti del Presidente – allora in carica – del Sudan. Circostanza che solleva una questione di una certa complessità, visto l’art. 98 dello Statuto di Roma e che il Sudan non è uno Stato Parte. La Corte penale internazionale chiede quindi agli Stati Parti in cui si reca Al-Bashir di eseguire il mandato di arresto, richiesta sistematicamente disattesa, il che comporta una dichiarazione di non cooperazione di questi Stati Parte da parte della Corte, facendo emergere in sede giudiziaria la segnalata antinomia e dando corso ad una giurisprudenza oscillante sugli articoli 27 e 98. Infatti, in un primo momento, la Corte ha dichiarato che l’articolo 27 è una norma consuetudinaria per cui essa può processare chi è titolare di un’immunità internazionale, evitando di pronunciarsi sul contrasto con l’articolo 98. Successivamente, in ragione della natura dell’articolo 27, precisa che essa si applica anche al Sudan, che, pur non essendo Parte dello Statuto di Roma, è membro delle Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza – dalla cui richiesta è originata l’indagine – ha stabilito che vige un obbligo di cooperazione per cui nel caso di specie non rileva l’articolo 98, disciplinando i poteri della Corte verso Stati altri rispetto al Sudan. In altro procedimento riguardante la Bielorussia, la Corte precisa che l’articolo 98 limita le richieste di cooperazione quando incontrano le immunità dello Stato in quanto tale e le immunità diplomatiche (delle persone o delle proprietà), esulando, però, la figura del Capo di Stato. Interpretazione che segnala una distonia: la Corte si trova a dover richiedere la rinuncia all’immunità in caso di mandato di arresto per un agente diplomatico di un Paese, mentre non deve farlo se riguarda il Capo di Stato dello stesso Paese. In diritto internazionale, infatti, tutte le immunità (del Capo di Stato, del Capo del Governo, del Ministero degli Affari Esteri) sono immunità dello Stato, non della persona: di conseguenza, l’ultima lettura della Corte dell’articolo 98 si pone in frizione con la coerenza dell’ordinamento internazionale, che può risolversi seguendo un’altra strada. La Corte svolge un’attività giudiziaria per contro degli Stati Parte e non è dotata di un apparato di polizia che può eseguirne le decisioni, affidandole agli stessi Stati Parte (cooperazione giudiziaria). L’articolo 27, dunque, consente alla Corte di esercitare la funzione giurisdizionale e l’attività giudiziaria verso le persone fisiche titolari di immunità in ragione dell’adesione degli Stati allo Statuto di Roma, al netto della sua corrispondenza al diritto consuetudinario; tuttavia, quando si tratta di richiesta di cooperazione viene attivata la c.d. juristiction to enforce degli Stati Parti e qui la Corte incontra un limite, non un’antinomia fra gli articoli 27 e 98.

Pertanto, la Corte penale internazionale può emanare un mandato di arresto nei confronti di un Capo di Stato e di Governo che gode di immunità internazionale, anche laddove si tratti di Stato non Parte (articolo 27); tuttavia, se si tratta di uno Stato terzo allo Statuto, la Corte non può procedere alla richiesta di esecuzione del mandato di arresto, a meno che non ottenga la rinuncia, da parte degli Stati non Parte, all’immunità (articolo 98). In sintesi, molte leggi di cooperazione degli Stati con la Corte penale internazionale lasciano alla discrezionalità del Governo la scelta di stabilire in che caso procedere all’esecuzione del mandato di arresto nei confronti di un Capo di Stato estero che non costituisce Stato non Parte; discrezionalità, che, invece, mancherebbe quando la richiesta è posta ad uno Stato Parte.

Su questa relazione, è intervenuto, come discussant, il Dott. Matteo Colorio, il quale ha evidenziato le posizioni (dottrinali e giurisprudenziali) alternative a quelle presentate dalla Prof.ssa Paola Gaeta. Una prima si basa sul diritto internazionale consuetudinario, che contempla la possibilità di estendere l’ambito di applicazione dell’articolo 27, par. 2, anche sul piano orizzontale, cioè nel rapporto triangolare che viene a crearsi tra la Corte penale internazionale e uno Stato: in caso di un mandato di arresto emanato dallo Stato, vi sarebbe una norma consuetudinaria volta ad escludere l’immunità ratione personae in relazione a cittadini di Stati terzi. Questa strada trasporta quella che è una regola consuetudinaria dinanzi alle Corti penali internazionali a livello di giurisdizione cognitiva della Corte stessa e anche a livello di giurisdizione esecutiva da parte degli Stati Parte. Si tratta di un approccio al tema che, da un lato, preserva l’unità e l’uniformità dell’applicazione del diritto penale internazionale, ma che, dall’altro, presuppone – in qualche modo – che gli Stati nel dare esecuzione al mandato di arresto e nel consegnare l’imputato alla Corte agiscano come ‘surrogati’ della Corte stessa. Tesi sostenibile, ma minoritaria nel diritto delle organizzazioni internazionali: il mandato di arresto dovrebbe considerarsi atto interno dell’organizzazione internazionale (cioè della Corte penale internazionale) e, pertanto, gli Stati sarebbero dei ‘surrogati’ della stessa. Altra posizione, maggioritaria, ritiene che gli Stati – eseguendo il mandato di arresto – esercitino la propria giurisdizione esecutiva e, di conseguenza, risulta più complesso sostenere che la possibilità di estensione della regola consuetudinaria dal livello verticale (Corte penale internazionale-Stato) al livello orizzontale (Stato-Stato) circa la cooperazione con gli Stati non Parte. L’articolo 98, infatti, limita la giurisdizione della Corte solo verso questi ultimi. L’alternativa fa perno sulla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza, quando c’è: nella decisione di appello sul caso Al-Bashir [N.d.R. The Prosecutor v. Omar Hassan Ahmad Al Bashir, ICC-02/05-01/09-397, on 6 May 2019], la Corte penale internazionale ha percorso la strada del diritto consuetudinario, ma – tra le righe – risalta il ruolo cruciale riconosciuto alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Quest’ultima pare assegnare alla Corte una doppia natura: ora di ‘Corte del Consiglio di Sicurezza’, provvista dei poteri dei Tribunali ad hoc, quando azionata ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, ora di Corte penale internazionale quando estende il regime di cooperazione della parte IX dello Statuto di Roma agli Stati non Parte. La Risoluzione sul caso Al-Bashir [N.d.R. Resolution 1593 (2005) adopted by the Security Council at its 5158th meeting, on 31 March 2005] stabilisce «cooperate fully». L’articolo 98, quindi, riferito agli Stati terzi rispetto allo Statuto di Roma, non troverebbe applicazione per cui la Corte penale internazionale avrebbe il potere di ordinare l’arresto e la consegna verso imputati provenienti da uno Stato oggetto di una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Circa l’immunità per i Capi di Stato, il Procuratore della Corte penale internazionale ha pubblicato la Policy on Complementary and Cooperation, da cui si desume che il criterio di complementarietà della giurisdizione internazionale vada ad intendersi non più soltanto come criterio di ammissibilità del singolo caso dinanzi alla Corte e come strumento di global governance, ma anche come un canone con cui suddividere il carico di lavoro tra giurisdizioni nazionali e giurisdizione internazionale. Quindi indagini parallele sulla stessa situazione, come nel caso ucraino, da parte del Procuratore della Corte penale internazionale e di una molteplicità di giurisdizioni nazionali, anche sulla base del criterio della giurisdizione universale, rimettendo al giudice internazionale soltanto i casi più complessi.

Terminato così il primo panel su Le immunità dalla giurisdizione: una sfida sempre attuale per il diritto penale internazionale, il Prof. Stefano Manacorda ha introdotto i lavori del secondo panel sulle Recenti proposte per l’adeguamento dei crimini di guerra nella legislazione penale italiana, in cui è intervenuto come relatore il Dott. Maurizio Block, il quale – ripercorrendo le vicende della Commissione Palazzo-Pocar e del Gruppo Nordio riguardanti la redazione del Codice dei crimini internazionali – si è soffermato su varie tematiche afferenti alla tutela dei diritti umani e alla codificazione dei crimini internazionali, in particolare sul disegno di legge volto ad introdurre nel codice penale comune il reato di Crimini sessuali perpetrati contro le donne nel corso di un conflitto armato.

Sulla tutela dei diritti umani, un passo in avanti nel contesto internazionale si rintraccia nella recente Convenzione di Lubiana e dell’Aia sulla cooperazione internazionale in materia di indagini e procedimenti giudiziari sul genocidio, sui crimini contro l’umanità, sui crimini di guerra e su altri crimini internazionali (o MLA, acronimo di Mutual Legal Aid) del 26 maggio 2023, aperta alla firma il 1° gennaio 2024 e a cui – allo stato – hanno aderito circa 80 Stati. Essa prevede degli obblighi di assistenza giudiziaria per il perseguimento di detti crimini e mira a superare le situazioni di impunità in cui – come emerso nelle relazioni precedenti – incorrono i crimini internazionali. Sulla stessa scia si pone lo statement della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite, organo sussidiario permanente delle Nazioni stesse, in cui si prevede l’obbligo di incriminazione per crimini contro l’umanità, di imminente approvazione a livello nazionale.

Ad ogni modo, si registra un forte interesse a livello interno per la prosecuzione dei lavori sull’adeguamento dei crimini internazionali. Sul punto, in dottrina si alternano varie opinioni sulle modalità con cui trasporli nella legislazione interna. Secondo alcuni sarebbe sufficiente aggiungere nuove fattispecie incriminatrici ai plessi normativi già esistenti e, in particolare, al Codice penale militare di guerra, il quale, com’è noto, agli artt. 165 ss. contiene una serie di norme che – a seguito della legge n. 6 del 2002 – sono applicabili anche in tempo di pace. Tale indirizzo, tuttavia, manifesta delle criticità visto che l’impianto di questo codice risale al 1941 ed è stato oggetto di alcuni interventi che lo hanno reso in qualche modo disorganico ed inidoneo a regolare la materia. Secondo altri, invece, la strada da percorre è quella di una codificazione dei crimini internazionali, intrapresa dalla Commissione Palazzo-Pocar, che concederebbe alla materia una sua organicità e coerenza sistematica.

Una novità legislativa che si situa nel solco della punibilità dei crimini internazionali da parte della giurisdizione ordinaria concerne l’introduzione nel codice penale comune del reato di violenza sessuale contro le donne, nel corso di un conflitto armato, come strumento di guerra, di cui al DDL n. 1135 del 9 maggio 2024. Fatto che ha da sempre costituito un elemento di grande rilievo nelle guerre e nei conflitti internazionali. Ciò nonostante, rimane aperta una questione di fondamentale importanza sulla necessità di avere un intervento organico, unitario e complessivo su questa materia, visti anche i profili di giurisdizione universale che porta con sé. L’art. 609-bis.1, rubricato “Crimini sessuali perpetrati contro le donne nel corso di un conflitto armato”, così come formulato dal disegno di legge, prevede che «chiunque, nel corso di un conflitto armato, costringe con violenza o minaccia, o mediante abuso di autorità, una donna a subire stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata e ogni altro atto sessuale che costituisca grave offesa alla sua libertà e dignità è punito con la reclusione da otto a dodici anni». Inoltre, all’ultimo comma dispone che «quando il reato è commesso da un cittadino straniero in territorio straniero, la sua punibilità è subordinata alla presenza del soggetto che ha commesso il reato nel territorio dello Stato italiano». Tale disposizione implica il riconoscimento del principio di giurisdizione universale, sulla scia di quanto già previsto dalle Commissioni Pocar-Palazzo e dal Gruppo di studio del ministro Nordio ed enfatizza, altresì, l’orientamento del Procuratore della Corte penale internazionale – come accennato poc’anzi – secondo cui bisognerebbe rafforzare il ruolo delle Corti nazionali riducendo al contempo il carico di lavoro della Corte penale internazionale.

Il precetto dell’art. 609-bis.1, co. 1, c.p. porta ad alcune considerazioni. Innanzitutto, la definizione di conflitto armato: ai sensi del disegno di legge, si dovrebbe far riferimento all’articolo 165 del c.p.m.g., secondo cui conflitto armato è quello in cui almeno una delle parti fa un uso militarmente organizzato e prolungato delle armi nei confronti di un’altra per lo svolgimento di operazioni belliche. Il dubbio che si solleva concerne la limitazione insita nel concetto di conflitto armato (ex art. 165 c.p.m.g.) ovvero all’uso delle armi militarmente organizzato e al carattere prolungato, che solleva una serie di incertezze interpretative. Incertezze che potrebbero essere superate facendo riferimento al bene giuridico tutelato o anche all’oggetto della tutela del conflitto armato. E ancora, un altro aspetto che rileva quale limite della norma, superato dalla giurisprudenza e dalla dottrina, è il fatto che l’art. 609-bis.1 c.p. restringerebbe la tutela solo alla figura della donna, mentre l’art. 609-bis c.p., criminalizzando la violenza sessuale, fa riferimento alla persona in senso ampio. Quanto, infine, alla condotta dello stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanza forzata, si è constatato che, oltre a non essere stata riprodotta l’attenuante prevista dall’art. 609-bis dei fatti di lieve entità, la formulazione di un nuovo reato militare all’art. 609-bis.2 secondo cui «se i reati di cui all’articolo 609-bis.1 sono commessi da appartenenti alle Forze armate italiane, è competente l’autorità giudiziaria militare» costituisce una peculiarità, dal momento che la sua collocazione sarebbe all’interno del codice penale e non nel codice penale militare. Infine, un ultimo aspetto da segnalare è la necessità di formulare un reato di omesso impedimento colposo dei fatti di violenza sessuale, dal momento che sovente si registrano casi in cui nel corso delle guerre i soggetti appartenenti alle Forze armate di grado superiore consentono, in via omissiva, il libero compimento di determinati atti. Su questo punto, oltre che la forma del dolo eventuale che consentirebbe di punire tali fatti ai sensi dell’art. 609-bis, sarebbe opportuno inserire una norma di natura colposa, in cui la negligenza nella persecuzione di questi fatti potrebbe costituire reato.

A seguito di tale relazione, ha preso la parola la Dott.ssa Maria Crippa, discussant del Dott. Maurizio Block, che si è soffermata su alcuni profili controversi sui crimini di guerra. Ha evidenziato, infatti, che l’ordinamento italiano già li disciplina in parte, sebbene non siano rubricati come tali e detta disciplina sia lacunosa, disorganica e rinvii a fonti ormai datate. Ci si riferisce, in particolare, ai già menzionati codici penali militari di pace e di guerra adottati nel 1941, che non sono più in grado di rispondere alle esigenze del diritto penale internazionale, ma neanche di riflettere la conduzione moderna delle ostilità e il diritto internazionale umanitario.

Un primo dato di difficoltà nella ricostruzione delle nozioni dei crimini di guerra attiene proprio allo spazio di intersezione che questi occupano tra il diritto internazionale umanitario e il diritto penale internazionale, quindi all’affermazione delle responsabilità per la violazione delle norme a carattere penale del diritto internazionale umanitario.

In questo sistema assume rilevanza non solo il diritto internazionale pattizio, ossia il diritto dei trattati, ma ha un ruolo fondamentale anche la consuetudine, con ciò complicando l’attività del legislatore nel momento della codificazione. Infatti, in dottrina non è mancato chi ha sostenuto la possibilità di un’efficacia diretta di queste norme – e anche del diritto internazionale consuetudinario – nel nostro ordinamento attraverso il meccanismo di cui all’articolo 10 Cost., che chiaramente contrasta con il principio di legalità in materia penale. In tal senso, le fonti che rilevano nella valutazione della disciplina in vigore sono, da un lato, i codici penali militari di guerra e di pace, e, dall'altro lato, le altre iniziative che il legislatore ha intrapreso, di cui l’ultima è la legge n. 45 del 2009 relativa alla tutela del patrimonio culturale nei conflitti armati e nelle missioni internazionali.

In tale sede, pertanto, si vogliono svolgere alcune osservazioni su dati fondamentali della disciplina in vigore nel raffronto con l’art. 8 dello Statuto di Roma, che rende tipici e sanziona i crimini di guerra. Il primo dato riguarda l’elemento di contesto. Come già stato ricordato, l’unica norma in tal senso nel nostro ordinamento è l'articolo 165 c.p.m.g., la cui formulazione risulta, tuttavia, superata. Il riferimento all’uso organizzato e prolungato della forza male si attaglia all’interpretazione dell’art. 8 e, più in generale, agli elementi costitutivi dei crimini internazionali poiché lo Statuto di Roma qualifica i crimini di guerra in relazione ad una connessione funzionale con un conflitto armato.

Un dato interessante è che, in realtà, la citata norma interna non prevede quella distinzione dei crimini di guerra in funzione della natura del conflitto armato, internazionale o non internazionale, che ha destato numerosi problemi interpretativi (in dottrina e in giurisprudenza) circa la qualificazione dei soggetti coinvolti nei conflitti armati ossia quando si può parlare di Stati e quando, invece, si può parlare di entità organizzate, tematica che già il Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia – nella nota decisione sul caso Tadic, Prosecutor v. Dusko-Tadic aveva in qualche modo cercato di superare.

L’esigenza di superamento di tale distinzione è stata reiterata anche dalla Corte penale internazionale nelle sue decisioni ed è stata anche oggetto di tentativi di emendamento dello Statuto, che, tuttavia, si sono limitati ad alcuni interventi minimi. Pertanto, ad oggi, la disciplina apprestata ai crimini di guerra commessi nei contesti dei conflitti armati internazionali e non internazionali rivela delle incongruenze. In ragione dell’ampia discrezionalità che lo Statuto garantisce al legislatore nazionale nell’implementazione delle norme ivi previste, il Progetto di Codice dei crimini internazionali elaborato dalla Commissione Palazzo-Pocar ha tentato – come fatto dal legislatore tedesco nel Völkerstrafgesetzbuch – di adeguare la normativa a una nuova classificazione dei conflitti armati e dei crimini di guerra sulla base del bene giuridico tutelato ovvero dell’utilizzo di metodi e mezzi bellici proibiti dal diritto internazionale e umanitario. Convenendo, quindi, con la relazione precedente sul fatto che l’art. 165 c.p.m.g. è una norma superata, che non rispetta più il dato internazionale.

È stato sottolineato, poi, il tema della collocazione dei crimini di guerra nell’ordinamento interno, che se previsti nei codici penali militari avrebbero un ristretto ambito di applicazione e sconterebbero tutti i limiti sistemici che deriverebbero da un’innovazione di così grande portata, priva di una visione di sistema. Infatti, per garantire la coerenza del sistema stesso è necessario procedere con interventi organici all’interno della legislazione ordinaria e penale. Sotto questo profilo, la proposta di inserire nel codice penale comune il delitto di “Crimini sessuali perpetrati contro le donne nel corso di un conflitto armato” risulta, da un lato, distonica rispetto al bene giuridico tutelato dagli art. 609-bis e ss. c.p. e, dall’altro, espressione di una dimenticanza del legislatore di apprestare una disciplina organica e completa dei crimini di guerra e, forse, più in generale, dei crimini internazionali. Inoltre, il riferimento esclusivo alla donna come vittima limita di gran lunga il numero dei casi processabili, dimenticando che spesso la violenza sessuale come strumento nei confronti della popolazione civile ricorre indipendentemente dal genere della vittima così come la limitazione della nozione di coercizione sessuale alla sola costrizione (ossia al ricorso a forme di minaccia, violenza e abuso di autorità) anziché all’assenza del consenso della vittima, come invece riconosciuto dalla Corte penale internazionale, mostra un’ulteriore profilo problematico della fattispecie che si vorrebbe inserire. Infine, emerge anche il tema di una possibile ipotesi di estensione della legge penale italiana al caso in cui tale reato sia commesso all’estero da parte di uno straniero. In questo caso sembrerebbe che, da un lato, si voglia perseguire quella tendenza del legislatore relativa alla universalizzazione della giurisdizione italiana, senza tener conto effettivamente della natura delle fattispecie che si vogliono in questo senso disciplinare. Infatti, l’art. 604 c.p. prevede la punibilità di alcuni reati contro la libertà sessuale se commessi all’estero, subordinata ad alcuni requisiti (quali la nazionalità dell’autore del reato ovvero della vittima), che mancano, invece, nella proposta di novazione qui in analisi, sollevandosi il tema se quest’ultima fattispecie risponda ad un’idea di giurisdizione universale, seppur nella forma condizionata che caratterizza i crimini internazionali.

Pertanto, la proposta di inserire questo nuovo reato nel codice penale comune consente di svolgere delle considerazioni più ampie relative alla necessità di incriminare queste stesse condotte di violenza sessuale e, più in generale, dei crimini di guerra anche laddove commesse al di fuori di un conflitto armato e, quindi, costituenti – in presenza dei requisiti dell’elemento di contesto – crimini contro l’umanità. La lacuna è significativa e nota nell'ordinamento italiano, laddove si consideri che i procedimenti italiani instaurati per quanto riguarda le violenze commesse nei confronti dei migranti e dei rifugiati nei centri di detenzione libici, quindi in astratto riconducibili alla nozione di crimini contro l’umanità se non di crimini di guerra, vedono proprio frequentemente l'imputazione per reati a sfondo sessuale.

 

Sessione II

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La Prof.ssa Chantal Meloni ha assunto la presidenza della seconda sessione del convegno, dedicata agli emendamenti allo Statuto di Roma sul crimine di aggressione e ai lavori per una Convenzione sui crimini contro l’umanità, ed ha introdotto l’intervento della Prof.ssa Chiara Ragni, che ha colto l’occasione per sottolineare, con riferimento al primo tema, le criticità sorte con maggiore vigore dopo la guerra di aggressione condotta dalla Federazione russa nei confronti dell’Ucraina.

In via preliminare, si è ricordato che si tratta di un crimine che presenta dei profili di complessità ulteriori rispetto agli altri per due ragioni di fondo: esso assume il profilo tanto di un illecito dello Stato quanto di crimine dell’individuo e, poi, può essere perpetrato soltanto da un’autorità di vertice dello Stato e, quindi, dallo Stato, che – secondo il diritto internazionale – si identifica con il suo governo.

Il fenomeno di aggressione, inoltre, trova disciplina tanto nel diritto internazionale pubblico in senso lato, ove è regolata la responsabilità degli Stati, quanto nel diritto penale internazionale, che dotano la fattispecie di una doppia anima.

Quella di diritto internazionale pubblico nasce all’indomani della Seconda Guerra mondale e si incarna nel capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, che attribuisce al Consiglio di sicurezza, in via del tutto discrezionale, il potere di verificare il compimento di un atto d’aggressione da parte di uno Stato a danno di un altro e, alla constatazione della violazione del divieto dell’uso della forza, di disporre le misure necessarie a farvi fronte.

Quella di diritto penale internazionale, invece, si manifesta a partire dagli esiti giurisdizionali del Tribunale di Norimberga, dove il crimine di aggressione è accomunato a quelli contro la pace ed ha dato adito ad alcune perplessità circa il mancato rispetto del principio di legalità per detti crimini, che – come noto – non erano definiti dal diritto internazionale prima dell’istituzione di detto Tribunale.

La complessità del crimine di aggressione è emersa in tutta la sua significatività con l’emanazione dello Statuto di Roma nel 1998, che solo nel 2010 – a seguito della Conferenza di Kampala – è stata razionalizzata con riferimento sia alla sua definizione sia alla giurisdizione della Corte. Quanto alla prima, viene introdotto nel corpo dello Statuto l’articolo 8-bis, che sostanzialmente riprende la formulazione adottata dall’Assemblea generale nel 1974 e definisce il crimine di aggressione come «pianificazione, preparazione, scatenamento o esecuzione, da parte di una persona che sia nella posizione di esercitare un controllo effettivo o di dirigere l’azione politica e militare dello Stato, di un atto di aggressione che, per carattere, gravità e portata, costituisca una manifesta violazione della Carta delle Nazioni Unite». Questa previsione segnala il carattere di leadership di questo crimine e il necessario coordinamento con la Carta delle Nazioni Unite, che assegna al Consiglio di sicurezza il potere di definire un atto di aggressione come tale.

Proprio tale coordinamento con l’attività del Consiglio di sicurezza ha costituito il nodo delle discussioni svoltesi all’interno della Conferenza di Kampala relativamente alle condizioni per l’esercizio della giurisdizione della Corte sul crimine di aggressione. Lo Statuto, nella versione emendata, distingue a seconda che il procedimento sia avviato da uno Stato parte dello Statuto di Roma o dal procuratore motu proprio ovvero dal Consiglio di sicurezza, sottoponendo le ipotesi di esercizio della giurisdizione della Corte a condizioni più stringenti rispetto a quelle previste per tutti gli altri crimini.

Ai sensi dell’art. 12 dello Statuto, infatti, la Corte esercita la propria giurisdizione sui crimini commessi da cittadini di Stati parte o sul territorio di uno Stato Parte, ricomprendendovi anche quelli perpetrati da un cittadino di uno Stato non Parte, ma sul territorio di uno Stato Parte o anche sul territorio di uno Stato che abbia accettato ad hoc la giurisdizione della Corte. L’articolo 15-bis, invece, introduce condizioni più stringenti. Da un lato, si registra una condizione di carattere temporale per cui la Corte può esercitare la giurisdizione sul crimine di aggressione soltanto un anno dopo il raggiungimento della trentesima ratifica dell’emendamento relativo al crimine aggressione, che è coinciso con quella della Palestina, avvenuta nel 2016. Dall’altro lato, il medesimo articolo stabilisce che la giurisdizione della Corte potrà essere esercitata solo dopo che l’Assemblea degli Stati Parte abbia adottato una Risoluzione raggiungendo la maggioranza dei due terzi dei voti favorevoli degli Stati membri dello Statuto, da adottare dopo il 1° gennaio del 2017. Realizzatesi entrambe le condizioni, l’Assemblea degli Stati Parte ha adottato una Risoluzione che attribuisce il potere giurisdizionale sul crimine di aggressione alla Corte a partire da luglio 2018.

Altre condizioni per l’esercizio della giurisdizione della Corte sul crimine di aggressione attengono al coordinamento con i poteri del Consiglio di sicurezza. A tal riguardo, viene stabilito che il procuratore, qualora abbia ragionevoli argomenti per ritenere che un crimine di aggressione sia stato commesso, deve in primis verificare se il Consiglio di sicurezza, entro il termine di sei mesi, non abbia già svolto una sua determinazione e non si sia pronunciato sulla materia. Se non vi è alcuna pronuncia, il procuratore potrà avviare un’indagine, a condizione che quest’ultima sia autorizzata dalla Camera preliminare, fermo restando la possibilità per il Consiglio di sicurezza di esercitare il potere di sospensione del procedimento, ai sensi dell’articolo 16 dello Statuto, e salva, in ogni caso, la possibilità da parte dello Stato interessato alla commissione del crimine di non accettare la giurisdizione della Corte in relazione ad esso. Un’ulteriore condizione deriva dall’articolo 121, paragrafo 5, secondo cui nel caso in cui gli emendamenti allo Statuto riguardino le norme sui crimini internazionali – tra cui è ricompresa anche la norma sull’aggressione – questi devono essere espressamente ratificati dagli Stati Parte. Tali limitazioni previste per l’esercizio della giurisdizione della Corte non sono invece previste per i procedimenti avviati dal Consiglio di sicurezza, ad eccezione delle limitazioni temporali.

In via ulteriore, qualora il crimine sia stato commesso da cittadini di Stati non Parte o sul territorio di Stati non Parte, la Corte non può esercitare la propria giurisdizione, fermo restando la possibilità per il Consiglio di sicurezza di avviare un procedimento davanti alla Corte, non necessariamente per aggressione, nel rispetto delle regole relative all’esercizio della giurisdizione della Corte.

Di fronte a questo panorama è chiaro che l’esercizio della giurisdizione della Corte sul crimine di aggressione è sottoposto ad un regime più stringente ed estremamente limitato.

A titolo esemplificativo, nel caso concreto dell’aggressione perpetrata dalla Federazione russa contro l’Ucraina, è giocoforza ritenere che la Corte non può esercitare la propria giurisdizione sul crimine di aggressione perpetrato da Vladimir Putin, in quanto trattasi di crimine commesso da cittadino di uno Stato che non è parte dello Statuto e rispetto al quale valgono le limitazioni di cui all’articolo 15-bis, non avendo alcuna rilevanza il fatto che l’Ucraina sia parte dello Statuto di Roma.

Di fronte a tali limitazioni, si sono poste alcune possibili soluzioni alternative alla giurisdizione della Corte penale internazionale. La prima consisterebbe nell’affidare l’esercizio della giurisdizione alle corti domestiche, dal momento che circa 75 Stati hanno previsto all’interno dei propri ordinamenti il crimine di aggressione e alcuni Stati, tra cui la Lituania e forse anche la Polonia, hanno, altresì, attribuito giurisdizione universale sul crimine di aggressione, non prevedendo che ci debba essere un collegamento fra la fattispecie e lo Stato ai fini dell’esercizio della giurisdizione. Anche l’Ucraina ha previsto nel suo ordinamento la giurisdizione sul crimine aggressione, avviando un’indagine su questo crimine. Tuttavia, tale soluzione si rileva fallace, dal momento che tale crimine, potendo essere commesso dai vertici dello Stato, pone un limite alle giurisdizioni interne consistente nell’esistenza dell’immunità dei capi di Stato e di governo, limite che peraltro già opera nei confronti della Corte penale internazionale.

Una seconda opzione, prospettata a partire da qualche anno, consiste nell’istituzione di una Corte speciale per giudicare sui crimini commessi dai vertici della Federazione russa rispetto all’Ucraina, che trova fondamento anzitutto in una Risoluzione del Consiglio d’Europa che ha invitato gli Stati membri dell’organizzazione a promuovere e a collaborare per l’istituzione di questo tribunale e a provvedere al supporto finanziario necessario per la sua creazione, invitando tra l’altro anche l’Unione europea ad essere fra i suoi massimi collaboratori. Si segnala, sul punto, la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 gennaio 2023 sull’istituzione di un tribunale che si occupi del crimine di aggressione contro l'Ucraina (2022/3017(RSP)), in cui si è dato pieno supporto all’istituzione del tribunale, invitando gli Stati membri a fare tutto ciò che è necessario per provvedere alla realizzazione di questo progetto. Tale opzione, però, solleva innanzitutto alcune perplessità, che si rinvengono anzitutto nel dare vita ad una giustizia di carattere selettivo. Inoltre, si muovono alcuni dubbi che riguardano, sotto un primo profilo, la fattibilità del progetto, dal momento che in questo caso – a differenza dei tribunali speciali istituiti in passato – la collaborazione attiva delle Nazioni Unite e del Consiglio di sicurezza per l’istituzione di un tribunale speciale sarebbe paralizzata dal veto della Russia e l’Assemblea generale non ha alcun potere di intervento in questo ambito; sotto un secondo profilo, poi, si rileva che l’istituzione di un tribunale sarebbe più concentrata sulla repressione del crimine piuttosto che sulla riparazione per le vittime, che dovrebbe, invece, essere valorizzata nell’ambito della giustizia penale internazionale. La soluzione, dunque, dovrebbe essere trovata proprio all’interno dell’Assemblea degli Stati Parte dello Statuto di Roma, attraverso un’ulteriore riforma dello Statuto che consenta alla Corte di poter esercitare la propria giurisdizione sul crimine di aggressione senza i limiti che contraddistinguono questo crimine, uniformando la disciplina in materia di aggressione a quella prevista per tutti gli altri crimini.

Successivamente, la Prof.ssa Chantal Meloni ha introdotto il Prof. Enrico Milano, che ha trattato dei lavori per una Convenzione sui crimini contro l’umanità.  Il 4 dicembre 2024, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha, infatti, adottato una Risoluzione che avvia il processo intergovernativo per l’adozione di uno strumento pattizio globale sulla prevenzione e repressione dei crimini contro l’umanità, strumento che sarà elaborato sulla base di un articolato predisposto nel 2019 dalla Commissione di diritto internazionale. La Risoluzione 79/122 (A/RES/79/122), che è stata adottata senza ricorso al voto e con un’unica dichiarazione di dissociazione al momento dell’adozione da parte della Federazione russa, impone a una Conferenza dei plenipotenziari di riunirsi per una sessione negoziale di tre settimane nel 2028, seguita da un’altra sessione di tre settimane nel 2029, al fine di elaborare e concludere un trattato internazionale sulla prevenzione e repressione dei crimini contro l’umanità. Vi sarà un lavoro preparatorio, svolto da una commissione ad hoc, che si riunirà nel corso del 2026 e del 2027 a New York, sull’articolato di partenza della CDI in base alle proposte di emendamento che gli Stati potranno inviare entro il 30 Aprile 2026. 

Sono quattro i punti che qualificano la Risoluzione 79/122 come una tappa importantissima per lo sviluppo progressivo del diritto internazionale e, in particolare, del diritto penale internazionale.

Il primo consiste nel fatto che la Risoluzione, salvo un aspetto un po’ tecnico al quarto paragrafo operativo, mette in moto un processo irreversibile verso la conclusione di uno strumento pattizio in materia. Sul punto, si ricorda che il diritto internazionale ha assistito all’elaborazione, a partire dagli anni ’40, di strumenti pattizi sugli altri c.d. core crimes, in particolare il genocidio e i crimini di guerra, senza però sviluppare uno strumento ad hoc globale sulla prevenzione e repressione dei crimini contro l’umanità che operi orizzontalmente sul piano delle relazioni e della cooperazione tra Stati in materia di prevenzione e repressione di questi crimini.

Il secondo punto che merita di essere segnalato è che la Risoluzione è stata adottata senza ricorso al voto, con la dissociazione di un’unica delegazione, conformandosi in questo modo alla prassi perseguita dalla VI Commissione all’Assemblea generale di rifuggire dagli scenari di voto spesso divisivi, tipici invece di altre Commissioni dell’Assemblea generale, come per esempio la terza commissione che si occupa diritti umani e di aspetti umanitari, che svolgono un ruolo più prettamente politico e non giuridico. L’adozione per consensus è stato un risultato per nulla scontato poiché, seppur sostenuto all’inizio già da un’ottantina di Stati, ha incontrato delle forti resistenze politiche da parte di altri Stati, tra cui Cina e Russia, già a partire dal 2019 e fino all’ultima fase dei negoziati, quando la CDI ha finito il proprio lavoro di codificazione sotto la guida del Relatore speciale Sean Murphy, con il rischio di dover sottoporre il testo alla votazione. Tuttavia, l’adozione per consensus ha comportato, quale risvolto negativo, che il testo originario fosse sottoposto ad una serie di modifiche. Si segnalano, in particolare, tre aspetti: il primo, più importante, è la dilazione dei tempi. Il testo originario stabiliva che la Convenzione dovesse essere conclusa entro il 2027, ma al momento prevede un orizzonte temporale esteso al 2029. Il secondo aspetto è la previsione di una lunga fase pre-negoziale con un articolato mandato in capo alla commissione preparatoria. Infine, il terzo è l’inserimento della clausola “snapback”, che, in linea teorica, potrebbe consentire alla commissione preparatoria di fermare questo processo.

Il terzo punto da segnalare è che dall’inizio degli anni 2000 la Commissione non ha dato seguito alla Raccomandazione della CDI di elaborare una Convenzione sulla base di un articolato prodotto dalla CDI. Al contrario, nel 2024 l’ha fatto per ben due volte, configurando questa come un’annata particolarmente significativa perché l’Assemblea generale ha adottato anche una Risoluzione su una futura Convenzione in materia di protezione delle persone in caso di disastro. È evidente che si è di fronte ad un contesto multilaterale su cui si riverberano le fortissime tensioni geopolitiche degli ultimi tre anni, un contesto molto distante da quello degli anni ’90, che aveva visto lo sviluppo esponenziale del diritto internazionale penale con l’istituzione del Tribunale ad hoc, attraverso lo Statuto di Roma. Pertanto, è di portata storica la decisione dell’Assemblea generale di procedere all’elaborazione e conclusione di una convenzione globale sui crimini contro l’umanità. È, altresì, significativo, da un punto di vista politico-diplomatico, che tra i paesi che maggiormente si sono spesi per il raggiungimento di un punto di caduta consensuale nei negoziati con gli Stati maggiormente ostili al progetto menzionato vi siano due delegazioni arabe, le delegazioni di Egitto e Palestina.

Infine, il quarto punto da sottolineare riguarda l’elaborazione di uno strumento giuridico globale sui crimini contro l’umanità, che consente agli Stati Parte allo Statuto di Roma di consolidare il principio di complementarità, rafforzando i meccanismi di cooperazione interstatale e di assistenza giudiziaria orizzontale in un momento storico in cui la stessa Corte è soggetta a pressioni molto forti. Agli Stati non Parte, che costituiscono ancora oggi più di un terzo della membership onusiana, permette di guardare ad un modello paritario di cooperazione internazionale, che rafforza la competenza primaria dello Stato nell’assicurare la giustizia e i presunti autori di crimini contro l’umanità.

Sebbene la Risoluzione abbia una natura meramente procedurale, la VI Commissione nel corso del 2023 e del 2024, durante due resume sessions dedicate all’articolato, ha discusso anche dei profili sostanziali del progetto della CDI. Tale progetto è stato prodotto all’esito di un lavoro preparatorio piuttosto intenso che è stato condotto dalla CDI dal 2014 al 2019, e si compone di un preambolo, 15 articoli e un annex che dettaglia le procedure di cooperazione giudiziaria tra gli Stati attraverso la designazione della cosiddetta autorità nazionale preposta. Di fatto assume la forma di una vera e propria bozza di trattato, incluso un preambolo e incluse le norme sulla soluzione delle controversie.

In massima sintesi, gli articoli dal 2 al 4 contengono la definizione di crimine contro l’umanità e gli obblighi generali degli Stati. Gli articoli dal 6 al 10 disciplinano le misure nazionali necessarie a prevenire a reprimere i crimini contro l’umanità, ove di grande rilevanza è l’articolo 6, che impone agli Stati l’obbligo di criminalizzare nel proprio ordinamento nazionale le condotte previste all’articolo 2. A seguire, gli articoli 5, 11 e 12 stabiliscono le garanzie processuali a favore degli imputati, delle vittime e dei testimoni e, infine, gli articoli dal 13 al 15 e l’annex contengono le norme relative alla cooperazione interstatale, inclusi i meccanismi di assistenza giudiziaria e il meccanismo di soluzione delle controversie tra i futuri Stati Parte allo strumento pattizio. Sul punto, la discussione in VI Commissione sulla definizione sostanziale di crimine contro l’umanità si è rivelata particolarmente articolata e densa di proposte di emendamento visto che la definizione prevista nello Statuto del 1998 non tiene conto degli sviluppi giurisprudenziali affermatisi in epoca successiva e che solo due terzi della comunità internazionale è parte dello Statuto.

Si sono, poi, arrestate ad uno stato più embrionale le discussioni relative ad altri importanti profili sostanziali, come gli obblighi di prevenzione, i criteri di collegamento per l’esercizio della giurisdizione, l’applicabilità delle immunità funzionali degli agenti dello Stato, l’ammissibilità delle amnistie, le clausole sulla risoluzione di controversie e anche gli stessi meccanismi di cooperazione giudiziaria. Tali temi richiederanno sicuramente un maggiore approfondimento tecnico durante il negoziato della futura Convenzione.

A tal proposito, si solleva la delicata questione del coordinamento e della potenziale sovrapposizione di una futura Convenzione globale sui crimini contro umanità con la Convenzione dell’Aja-Lubiana sull’assistenza giudiziaria internazionale relativa ai crimini internazionali – compresi i crimini contro l’umanità – conclusasi lo scorso anno nell’ambito di una Conferenza intergovernativa alla quale hanno partecipato una settantina di Stati. Il relatore speciale della Commissione diritto internazionale nel suo ultimo rapporto del 2019, aveva condotto un’interessantissima analisi comparata tra i due strumenti, ossia tra l’articolato della CDI e la bozza di Convenzione sulla mutua assistenza giudiziaria, giungendo alla conclusione secondo cui il perseguimento di entrambe le iniziative in parallelo da parte degli Stati rischiava di diventare “inefficiente e confusionario” e le due Convenzioni in materia, se caratterizzate dalla partecipazione di distinti gruppi di Stati, porterebbero con sé, da un lato, il rischio di non avere alcuna disciplina applicabile nelle relazioni tra i membri di ciascun gruppo, e, dall’altro lato, il rischio, in caso di ratifica di entrambi gli strumenti, di imbattersi in un complicato processo di adeguamento delle normative nazionali, non essendovi un pieno allineamento tra le due discipline.

Pertanto, si conclude evidenziando che è di estrema importanza che la futura Convenzione rimanga il più possibile aderente allo Statuto di Roma e alla Convenzione dell’Aja-Lubiana per scongiurare il pericolo di frammentazione normativa.

A seguito di tale relazione, ha preso la parola il Prof. David Donat Cattin, in qualità di discussant di ambedue gli interventi della seconda sessione, e si è soffermato dapprima sul tema dei crimini contro l’umanità, rimarcando la necessità di rispettare le regole dell’Assemblea generale dell’ONU, in caso di mancato raggiungimento dell’unanimità, durante il processo decisionale di fronte alla preparatory commission e poi alla Conferenza diplomatica.

Ricordando quanto accaduto in sede ONU, in relazione alla diversa qualificazione, sostenuta dalla Repubblica popolare cinese, dei due criteri di punibilità – consistenti nell’inquadrare il crimine contro l’umanità in un attacco sistematico o generalizzato contro una popolazione civile – come alternativi o cumulativi, si è ritenuto necessario analizzare le posizioni espresse dai vari Stati nei fori internazionali, limitandosi non solo a quanto viene detto in sede di negoziazione o di relazioni diplomatiche, ma volgendo lo sguardo ad un quadro più ampio che ricomprende gli apparati legislativi interni – che fino ad oggi non si sono allontanati dal criterio di alternatività – e la giurisprudenza dei Tribunali delle Corti competenti e dei Tribunali regionali.

In termini di contenuti prettamente internazionalistici si rinvia l’attenzione all’articolo 15 Settlement of Disputes, particolarmente importante perché permette alla Corte internazionale di giustizia di essere adita per controversie relative all’interpretazione e all’applicazione di un’eventuale Convenzione sui crimini contro l’umanità. Sul punto, la proposta avanzata da alcuni Stati, tra cui il Regno Unito, di modificare il verbo “shall” – che imporrebbe una clausola obbligatoria di accettazione della giurisdizione della Corte in caso di controversie – nel verbo “may”, che renderebbe la clausola facoltativa, con un sistema eventualmente di opt in alla giurisdizione della Corte internazionale di giustizia, indebolirebbe il significato di questo strumento in chiave deflattiva rispetto a quello presente in materia di Convenzione contro il genocidio. Questa, come noto, si caratterizza per aver introdotto l’obbligo, a carico degli Stati Parte, di prevenire, e non solamente di punire, i crimini contro l’umanità, differenziandosi in questo modo da quanto disposto nell’accordo di Lubiana e dell’Aja sulla cooperazione orizzontale tra Stati contro i crimini internazionali, che prevede solo il recepimento nel diritto interno dell’obbligo internazionale di repressione.

Ad ogni modo, l’accoglimento di entrambe le Convenzioni da parte degli Stati potrebbe sollevare alcune criticità dal momento che il trattato di Lubiana e dell’Aja riproduce l’articolo 7 dello Statuto di Roma e si potrebbe avere una sovrapposizione tra i due accordi, con conseguente frammentazione e difficoltà di perseguire determinati crimini, qualora la Convenzione sui crimini contro l’umanità operasse uno sviluppo regressivo del diritto internazionale penale.

Da qui è giocoforza ritenere che il tempo intercorrente fino al 2029, specialmente con la deadline del 30 aprile 2026 per l’elaborazione di una compilazione di proposte volte ad emendare la bozza di articoli di draft articles della Commissione del diritto internazionale, debba essere utilizzato dagli Stati per preparare una serie di formulazioni giuridiche volte allo sviluppo progressivo della definizione, onde poi nel 2029 trovare un compromesso con gli altri Stati.

Andando nel merito della questione, si è fatto un accenno alla campagna relativa al gender apartheid, lanciata da organizzazioni non governative, da esponenti del Parlamento in esilio, del Parlamento legittimo costituzionalmente eletto dell’Afghanistan e dagli attivisti del movimento per i diritti civili dell’Iran, che ha avuto un grande sostegno internazionale e che prevede, da qui al 2026, una proposta in tal senso.

Un altro campo non menzionato di sviluppo progressivo è quello dei crimini contro l’ambiente, da cui si è generato un noto dibattito. L’inserimento dell’ecocidio come quinto core crime nello Statuto di Roma dà vita ad alcune problematiche relative al recepimento cumulativo sia da parte dello Stato di nazionalità che dello Stato di territorialità. Si segnala che in 22 anni di prassi la Corte penale internazionale ha operato in concreto basandosi sempre sul principio di territorialità e mai su quello di nazionalità. Tuttavia, il primo non trova applicazione con riferimento al crimine di aggressione, ai sensi dell’articolo 15-bis, parr. 4 e 5 dello Statuto di Roma.

Da qui, la necessità di allineare il titolo di giurisdizione, di territorialità, anche in relazione a quest’ultimo crimine, per estendere la protezione dei territori degli Stati Parte anche nei confronti di aggressioni ad opera di capi di Stato di governo, di leader di forze armate di Stati terzi, come nel caso attuale dell’Ucraina, che – peraltro – dal 1° gennaio 2025 sarà Stato Parte dello Statuto di Roma.

Tra le proposte di allineamento della giurisdizione in relazione di crimini di aggressione, si segnala la richiesta di eliminazione del paragrafo 5, che esenta i cittadini di Stati non Parte alla giurisdizione della Corte.

Si avrà, in ogni caso, almeno fino al 30 aprile 2026, il tempo per riempire di contenuti questa compilazione e per allinearla con la bozza della CDI, che è un buon punto di mediazione, incluso quello che anche il Professor Cassese sollevò nel 1999, ossia che il crimine di persecuzione è prevalente in tutte le fattispecie e che vi è la necessità di riconoscere la persecuzione – inclusa in quasi tutti i crimini contro l’umanità sollevati di fronte alla Corte per la sua connessione agli attacchi sistematici e generalizzati contro la popolazione civile in situazioni sia esterne che interne al conflitto, – quale fattispecie autonoma, essendo già stata riconosciuta come tale nella giurisprudenza dei tribunali ad hoc. Si segnala, pertanto, l’esigenza di espungere dall’articolato della Commissione di diritto internazionale il nesso giurisdizionale della persecuzione con tutte le altre fattispecie di crimini internazionali tout court.

Il paragrafo 4 dell’art. 15-bis, poi, prevede che siano esenti dalla giurisdizione della Corte le fattispecie di aggressione commesse per il tramite di forze armate di Stati che non hanno ratificato lo Statuto di Roma o gli emendamenti di Kampala. La disposizione risulta essere particolarmente ostica, poiché mette luce su alcuni casi problematici, quale – a titolo esemplificativo – quello di un cittadino italiano che assume la guida dell’esercito algerino, invade la Sicilia e la dichiara annessa all’Algeria. Ebbene, costui non sarebbe imputabile di fronte alla Corte penale internazionale, pur essendo un italiano che commette sul suolo italiano il crimine di aggressione, perché realizzato per il tramite di forze armate di Stati non Parte.

Il vero problema risiede nella possibilità di identificare, come alcuni Stati avevano tentato di fare a Kampala, una procedura sui generis che permetta di evitare l’applicazione dell’articolo 121, paragrafo 5, seconda frase, che rovescia l’alternatività dello Stato territoriale o dello Stato nazionalità facendolo diventare un criterio cumulativo, in base al quale gli emendamenti degli articoli 5, 6, 7, 8 dello Statuto di Roma possono entrare in vigore solo nei casi in cui sia lo Stato del territorio che lo Stato della nazionalità abbiano ratificato sia lo Statuto sia l’emendamento in questione. Ad ogni modo, la riforma dell’articolo 15-bis in tema di crimini di aggressione è volta a prevenire la circostanza, che si è verificata il 24 Febbraio del 2022 con l’invasione piena dell’Ucraina e relativamente alla quale si sono mosse le critiche di un’ineffettività del sistema creato dallo Statuto di Roma, derivante dalla mancata considerazione della fattispecie di crimine di aggressione né di fronte al genocidio in Ruanda, in cui non c’era una guerra di aggressione, né di fronte alla disintegrazione in Jugoslavia, ove si era parlato di un conflitto interno. Ad oggi, al contrario, lo scenario fornito dall’invasione dell’Ucraina con annessione – cosa che non era avvenuta nell’aggressione degli Stati Uniti e del Regno Unito contro l’Iraq nel 2003 non seguita da annessione – è talmente evidente e chiaro che è forte la necessità di riallineare l’aggressione alle altre tre fattispecie di core crimes.

 

Conclusioni

 

Terminata la discussione sugli emendamenti allo Statuto di Roma sul crimine di aggressione e sui lavori per una convenzione sui crimini contro l’umanità, il Prof. Francesco Palazzo ha formulato le conclusioni, partendo dal titolo del convegno “Armonizzazione e cooperazione nel diritto penale internazionale”, che ha messo in rilevo le due grandi vie di sviluppo del diritto penale internazionale. Due vie diverse che, tuttavia, tendono ad incrociarsi, a intersecarsi in un esito sinergico.

La cooperazione, intesa nella sua originaria accezione di mutua assistenza, è ispirata da un interesse nazionale alla repressione di reati che hanno degli elementi di transnazionalità. L’armonizzazione, in questa prospettiva, è una conseguenza necessaria, ma strumentale, in ragione del fatto che non ci può essere cooperazione se non c’è un minimo di omogeneità tra gli ordinamenti, pur dominando una dimensione nazionalistica.

L’altra via di sviluppo, invece, è quella molto diversa dal punto di vista sostanziale, assiologico-valoriale, e muove dalla premessa che si parla di crimini universali o tendenzialmente tali, laddove l’interesse alla repressione non è più nazionale, ma sovranazionale, a vocazione universale. Qui la cooperazione degrada a mero strumento pratico di repressione universale, posto che anche laddove esistono giurisdizioni sovranazionali o addirittura universali, niente si fa se gli Stati non vogliono, niente si concretizza. Quindi un’esigenza di cooperazione in funzione strumentale.

Sono interessanti queste due vie, in quanto il loro incrocio è sinergico. Uno dei temi trattati nel corso dell’incontro è quello dell’immunità, che si connota di una forte politicità piuttosto che di un carattere giuridico. Il giurista fornisce qualche strumento, ma non la soluzione perché le immunità interne hanno almeno una parvenza di logica, perché lo Stato non può punire sé stesso che è rappresentato dai capi di Stato. Al contrario, nelle immunità internazionali il discorso è molto più complesso, come è stato bene illustrato dalla Prof.ssa Paola Gaeta. Nella dimensione internazionale le immunità sono un luogo di conflitto tra due ordini diversi: l’ordine internazionale, che tenderebbe a superare l’immunità e l’ordine nazionale che trova espressione nel fatto che c’è un capo in discussione e un capo che rappresenta fisicamente lo Stato. Nell’ambito di questo conflitto tra norme, nell’articolo 27 dello Statuto prevale l’ordine internazionale che si sovrappone all’immunità; nell’articolo 98, invece, prevale, seppure in forma più attenuata, l’ordine nazionale.

Passando poi al tema dei crimini di guerra, costituenti il nucleo più risalente dei crimini internazionali, sono sostanzialmente due le questioni che si pongono (almeno dal punto di vista interno) in relazione ad una possibile codificazione di un codice di crimini internazionali. La prima ha un carattere prevalentemente, ma non solamente, tecnico e consiste nel fatto che la formulazione delle fattispecie dei crimini di guerra, dovrebbe essere soggetta ad un processo di adattamento e modernizzazione per stare al passo con l’evoluzione tecnologica degli armamenti e con l’evoluzione della scienza bellica. Se è certo che ad oggi esistono sistemi bellici di armamento che cercano di raggiungere una precisione chirurgica nel colpire, salvando i civili, dall’altro lato, però, è indubbio che, almeno da quando esistono i bombardamenti aerei, il sacrificio dei civili è immanente nella stessa idea di guerra, per cui la guerra sarebbe di per sé un crimine di guerra. Sempre dal punto di vista della formulazione di queste fattispecie, è chiaro che queste fattispecie hanno un problema di difficile risoluzione che si rinviene nel fatto di essere state definite in modo da rispecchiare un equilibrio tra i limiti della violenza bellica e le necessità belliche. Tale processo di formulazione, che costituisce il nucleo centrale del problema, è talmente difficile, che sovente si è optato per una formulazione più elastica, che lascia ampi margini di discrezionalità al giudice. L’accertamento della violazione di questo equilibrio apre una problematica davvero complessa e si ricollega al secondo aspetto problematico dei crimini di guerra, che ha riguardato in particolare il tentativo di codificazione italiana, ossia se la giurisdizione dei crimini di guerra debba essere ordinaria o militare, non trovando alcuna risoluzione nell’art. 103 della Costituzione (che prevederebbe una giurisdizione militare).

Il punto focale risiede nella definizione di reato militare. Essendo escluso che si possa configurare un reato come militare in ragione della mera qualità personale del soggetto agente, il problema è quello di valutarne il contenuto offensivo. Se si ritiene che nel contenuto offensivo dei crimini di guerra prevalga la connessione con le esigenze belliche, quindi con le valutazioni di una scienza della guerra, allora la giurisdizione militare è certamente idonea. Se, al contrario, si ritiene che il contenuto offensivo dei crimini di guerra o almeno di una parte dei crimini di guerra si avvicini a quello dei crimini contro l’umanità per la dimensione della portata offensiva, allora non vi è ragione di distinguere giurisdizione ordinaria e giurisdizione militare. L’omogeneità contenutistica con i crimini contro l’umanità fa sì che l’unica giurisdizione debba essere quella ordinaria. I lavori propedeutici a quel progetto di codice dimostrano chiaramente come la questione non sia ancora chiusa e non abbia una soluzione obbligata.

Quanto invece al tema dei crimini contro l’umanità, è possibile cogliere una contraddizione. Tali crimini sono di portata recente, avendo avuto maggiore ritardo, e sono destinati potenzialmente ad un notevole sviluppo. Il carattere originario dei crimini contro l’umanità è dato da quell’elemento di contesto, ossia l’attacco esteso o sistematico alla popolazione, la dimensione massiva dell’offesa, che racchiude al suo interno il significato di perdita del valore dell’identità umana. Il valore finale tutelato dalle norme sui crimini contro l’umanità è, pertanto, la dignità umana ed in questo si rinviene un forte collegamento con il diritto penale dei diritti umani, così evocato dal Prof. Francesco Viganò nella relazione introduttiva. L’entrata in campo del valore della dignità umana, che è per ora retrostante ma che preme sempre di più per conquistare terreno, comporta una sorta di tendenza espansiva della categoria dei crimini contro l’umanità.

Almeno potenzialmente e a livello scientifico, non certo politico, molti altri reati bussano alla porta della categoria dei crimini contro l’umanità: dal terrorismo all’apartheid di genere, dal traffico di stupefacenti ai delitti contro l’ambiente, fino a reati che comportano un’offesa ideale alla dignità, quindi reati di opinione o reati che potrebbero sostanziarsi nella clonazione umana, intesa come una delle più grandi lesioni alla dignità.

In conclusione – richiamando la figura di Ugo Grozio come fondatore del diritto penale internazionale, vissuto durante la formazione degli Stati nazionali – viene evidenziato che nel momento attuale in cui l’evoluzione scientifica, tecnologica ed economica sembrerebbe aver annullato i confini degli Stati nazionali si assiste ad un rigurgito di tendenze nazionalistiche o addirittura sovranistiche, che mettono in crisi il diritto penale internazionale. Proprio in queste settimane, in questi mesi, si colgono segnali inequivoci di una crescente sfiducia nei confronti del diritto internazionale e in particolare del diritto penale internazionale. Dopo momenti di quasi euforia vissuti alla costituzione dello Statuto di Roma e della Corte penale internazionale, sembra assistere in tempi odierni ad un processo di regressione. Il diritto penale internazionale diventa una sorta di sostitutivo di un’azione politica internazionale inesistente, inefficace e incapace di controllare la conflittualità ormai mondiale. Non vi è dubbio che il diritto penale internazionale abbia i suoi limiti e che si mostrano non in tempo di pace, ma in tempo di guerra, ma allo stesso tempo non vi è dubbio che il diritto penale internazionale rappresenti ‘un’illusione’ da coltivare perché rappresenta un messaggio e uno strumento che può dare giustizia alle vittime e che consente di mostrare all’umanità, attraverso i documenti giudiziari, dove l’uomo è, purtroppo, capace di arrivare.