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  Scheda  
27 Luglio 2022


Qualche breve riflessione sulla proposta di riforma del diritto penale fallimentare


1. La lettura delle proposte di revisione ai reati fallimentari elaborate dalla cd. Commissione Bricchetti sollecita tre ordini di considerazioni, di svariata natura e contenuto[1].

In relazione ad alcuni aspetti, il giudizio sulla proposta di riforma è senz’altro positivo. Con riferimento ad altri ambiti, invece, le scelte della Commissione sollevano perplessità: come vedremo, non convince aver lasciato residuare alcune ipotesi delittuose che la prassi ha dimostrato di essere pressoché prive di un (significativo) ambito applicativo così come non pare condivisibile la mancata (anche parziale) riscrittura di fattispecie incriminatrici da sempre oggetto di interpretazioni divergenti, sicché sarebbe stata opportuno cogliere l’occasione per  una loro riscrittura e chiarire quale sia l’effettiva portata del divieto normativo. Infine, proprio con riferimento a quello che è il profilo centrale della normativa in tema di delitti fallimentari – e cioè la disciplina in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione, con specifico riferimento alle procedure di liquidazione giudiziale e di concordato preventivo -, la proposta di riforma si presenta come una “scommessa” per il futuro, posto che l’apprezzamento circa il contenuto dei suggerimenti avanzati in proposito dalla Commissione ministeriale dipenderà, come vedremo, dall’atteggiamento della giurisprudenza e dall’efficace ed effettivo funzionamento dei cd. sistema di allerta previsti dal Codice della crisi di cui al d.lgs. n. 14 del 2019 e succ. mod.

 

2. Andando con ordine, merita deciso apprezzamento la scelta di spostare finalmente “il fuoco dell’incriminazione … sull’impresa esercitata in forma collettiva, effettiva protagonista della realtà economica contemporanea”, impostazione che poi trova coerente sviluppo nella previsione di un trattamento sanzionatorio di minore rigore per l’imprenditore individuale che debba rispondere dei medesimi fatti di bancarotta.

Sempre nell’ottica di adeguare la normativa penal-fallimentare alle attuali caratteristiche dell’attività imprenditoriale svolta in forma collettiva si pone la sostanziale riscrittura della normativa in tema di bancarotta semplice, figura che dopo la riforma ricomprenderà le sole ipotesi di compimento di operazioni di grave imprudenza per ritardare l’apertura della liquidazione giudiziale, di aggravamento del dissesto in conseguenza della mancata istanza di apertura della procedura concorsuale o per altra grave colpa e di cagionamento od aggravamento del dissesto con inosservanza degli obblighi imposti dalla legge. Va detto, tuttavia, che la riforma proposta in tema di bancarotta semplice presenta anche profili problematici e scelte non apprezzabili, ma di ciò si dirà in seguito.

Opportuna pare anche la scelta di richiamare in modo espresso, fra i responsabili dei delitti fallimentari, quanti svolgano le funzioni di direzione e gestione aziendale in via di mero fatto. Si tratta, come è noto, di una conclusione da tempo acquisita in giurisprudenza[2] ma che lasciava perplessa la dottrina in ragione della circostanza che nel R.D. n. 216 del 1942 non compariva una norma analoga all’art. 2639 cod. civ. che, come è noto, equipara l’esercizio di fatto dei poteri dirigenziali nelle imprese commerciali alla titolarità formale della relativa qualifica[3]. La nuova formulazione delle previsioni in discorso consentirà di superare ogni perplessità sul punto.

Scompaiono i reati del curatore, le cui condotte delittuose rientrano nell’alveo dei delitti del pubblico ufficiale previsti dagli artt. 314 ss. c.p., conformemente alla natura pubblicistica di questo soggetto, quale esercente un’attività di natura giurisdizionale[4].

Assai più rilevanti infine sono due previsioni di carattere generale destinate ad essere ricomprese negli (eventuali) artt. 324 bis e 324 ter del Codice della crisi e con cui, aderendo a richieste provenienti in special modo dal “mondo della prassi” ovvero da chi concretamente opera nelle aule di giustizia, il legislatore ha riconosciuto la rilevanza, ai fini della non punibilità di condotte di bancarotta[5] – di qualsivoglia tipologia, fraudolenta e semplice, documentale, patrimoniale e preferenziale –, da un lato delle cd. condotte riparatorie poste in essere prima dell’apertura della procedura concorsuale e dall’altro della “esiguità penale del fatto” tale da ritenere non necessaria l’adozione di una reazione sanzionatorio, secondo un’impostazione già presente nell’art. 131 bis c.p.. Come detto, si tratta di innovazioni decisamente apprezzabili e la cui introduzione era da tempo auspicata; al contempo, però, non ci si può nascondere le numerose criticità presenti nelle disposizioni anzidette, che presumibilmente richiederanno significativi interventi di chiarificazione da parte della giurisprudenza.

 

2.1. Ed infatti. Quanto alla disciplina in tema “condotte riparatorie esimenti” - in base alla quale “non è punibile chi ha commesso i fatti previsti dagli articoli 322, 323 e 324 quando abbia volontariamente e integralmente riparato il danno o rimosso il pericolo cagionato, attraverso la ricostituzione dell’attivo corrispondente, oggetto delle condotte di depauperamento patrimoniale e la ricostruzione delle scritture contabili prima della sentenza di liquidazione giudiziale” -, quando la previsione viene riferita alla bancarotta fraudolenta patrimoniale occorre domandarsi se la causa di non punibilità in discorso opererà anche nel caso in cui il responsabile della distrazione, pur senza procedere ad una ricostruzione della consistenza del patrimonio quale sarebbe risultata in mancanza della depredazione, abbia comunque integrato il valore della massa fallimentare in termini tali da consentire una soddisfazione dei creditori (con l’ulteriore quesito circa chi debba rientrare in tale ambito, se ciò rilevi la sola posizione dei creditori insinuatisi nella massa fallimentare o tutti i creditori insoddisfatti[6]), nonché se una riparazione parziale del danno cagionato possa determinare l’esiguità dello stesso con conseguente operatività della successiva previsione di cui all’art. 324 ter c.p.[7].

Con riferimento, invece, alla bancarotta fraudolenta documentale, nonostante la norma parli di ricostruzione delle scritture contabili è da ritenere che la condotta riparatoria possa consistere più genericamente nella scelta dell’imprenditore di fornire una (significativa) agevolazione a vantaggio del curatore nell’accertamento circa l’entità e la sorte del patrimonio e del movimento degli affari dell’impresa.

Infine, si è detto della portata omnicomprensiva della disposizione in commento, che per l’appunto è destinata ad operare in relazione a tutte le figure di bancarotta fraudolenta e semplice. Tuttavia, pare arduo ipotizzare una condotta riparatoria con riferimento alla causazione dolosa del dissesto della società – specie, come si verifica con sconfortante frequenza, quando questo comportamento sia consistito nell’omissione reiterata e costante degli adempimenti fiscali e previdenziale con conseguente maturare di un imponente debito verso l’erario – o nelle ipotesi di bancarotta semplice che residuano dopo la riscrittura della fattispecie operata dalla riforma. In queste circostanze, in effetti, dovrebbe ipotizzarsi che l’imprenditore, più che assumere una condotta di riparazione del danno, si adoperi per un risarcimento dello stesso, attività il cui contenuto (ovvero il cui importo) dovrebbe essere presumibilmente determinato (con estrema difficoltà) individuando quali conseguenze patrimoniali negative sono derivate in capo alla massa fallimentare per l’effetto delle censurabili scelte dell’imprenditore.

In ogni caso, le condotte riparatorie devono intervenire prima della apertura della procedura concorsuale. Precisazione apprezzabile perché – conformemente a quanto si legge nella Relazione di accompagnamento, secondo cui “la declaratoria di insolvenza (ed i provvedimenti ad essa equiparati) [va intesa] come condizione obiettiva di punibilità di fatti pregressi” – così si riconosce il “rilievo essenziale [che] assume il ruolo della sentenza dichiarativa nelle fattispecie di bancarotta: la quale, ove saldamente ancorata al ceppo delle condizioni di punibilità (estrinseche) alcuna incidenza sostanziale riflette su un reato già perfetto, non potendo le modificazioni della dimensione lesiva del fatto sopraggiunte retroagire sulla tipicità di una condotta che ha ormai dispiegato i propri effetti in modo compiuto, assurgendo a rilevanza penale. Vale la pena ribadirlo: la subordinazione della punizione dell’intervenuta espunzione dell'impresa dal mercato non trova la propria ragion d’essere in un rapporto di evoluzione lesiva, ovvero di ratifica in termini di danno dell’offesa (in chiave di pericolo) costitutiva delle condotte di bancarotta”[8].

Quanto alla previsione in tema di tenuità del fatto – giusta la quale “è esclusa la punibilità dei reati previsti dagli articoli 322, 323 e 324, quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale” -, per valutare la sussistenza di tale circostanza (fermo rimanendo l’ineliminabile discrezionalità da riconoscere al singolo giudice in ragione delle singole circostanze di ogni concreta vicenda) non sarà sufficiente richiamare, come prevede l’art. 324 ter c.p., il contenuto dell’art. 131-bis c.p. ma occorrerà rifarsi anche alla giurisprudenza in tema di riconoscimento dell'attenuante della particolare tenuità del danno patrimoniale, di cui all’attuale art. 219, comma 3, R.D. n. 267 del 1942, richiamo che potrà condurre anche ad esiti assai diversi da quelli cui l’interprete potrebbe approdare considerando il solo disposto del codice penale. Mentre infatti l’art. 131 bis considera la vicenda nella sua portata criminosa in maniera isolata, prescindendo dal contesto in cui la stessa si è verificata, l’interpretazione che la Corte di legittimità da sempre fornisce del citato comma 3 dell’art. 219 impone di considerare l’importo del danno patrimoniale in relazione alla diminuzione globale che il comportamento del fallito ha provocato alla massa attiva che sarebbe stata disponibile per il riparto ove non si fossero verificati gli illeciti[9], sicché una medesima distrazione di valore potrebbe assumere o meno un carattere di tenuità a seconda dell’incidenza che la stessa ha, in termini percentuali, sul passivo fallimentare.

In proposito, non è inutile rammentare come – oltre ai dubbi che circondano la ricostruzione della nozione di danno nei reati di bancarotta[10] – la giurisprudenza con scarsa frequenza riconosce l’operatività dell’attenuante di cui all’art. 219, comma 3, R.D. n. 267 del 1942[11] tant’è vero che, al fine di assicurare agli istituti premiali originariamente previsti nell’art. 25 del CDII un’applicazione la più diffusa possibile si era proposta – tesi attuale anche qualora la riforma entrasse in vigore - “un’interpretazione estensiva del concetto di “danno”, concepito dal legislatore quale “limite” alla procedimentalizzazione della crisi tanto nella non punibilità, quanto nell’attenuante, [abbandonando] il rinvio all’art. 219, comma 3, R.D. n. 267 del 1942 e, quindi, ad una concezione economico-patrimonialistica del danno, per allargare il giudizio (alla ricerca dei segni della speciale tenuità) a tutte le conseguenze del fatto, dando così valore – ad esempio – alle componenti soggettivistiche o agli aspetti personali del ravvedimento”[12].

Da ultimo, pare indiscutibile che alla luce del combinato disposto dei citati artt. 324 bis e 324 ter c.p. debba essere decisamente abbandonata quella giurisprudenza[13] secondo cui la ritenuta necessità di un evento di diminuzione patrimoniale dell’attivo fallimentare non significherebbe subordinare la punibilità dei fatti di bancarotta all’esistenza di un danno effettivo per i creditori del fallimento o per la stessa procedura concorsuale. Ci si vuol riferire a quelle tesi secondo cui, posto che l’evento delle condotte di bancarotta patrimoniale va rinvenuto nella procurata diminuzione del patrimonio del debitore, il delitto sarebbe sussistente anche nel caso in cui il fallimento, nonostante tale depauperamento economico, si chiuda in attivo, con piena soddisfazione dei creditori, ovvero senza che alcuno di questi si sia insinuato[14]: impregiudicata la ricostruzione del delitto di bancarotta come reato di pericolo concreto – profilo su cui, presumibilmente, la riforma avrebbe potuto insistere di più, ma su punto si veda infra –, la lettura delle due disposizioni in commento in effetti pare precludere l’adozione di questa conclusione, dovendosi escludere ogni ipotesi di sanzione allorquando, quale che sia stata la gravità e la rilevanza economica della condotta, la procedura concorsuale si sia conclusa senza creditori non tacitati

 

3. Si è detto che la riforma non ha colto l’occasione per intervenire su alcune disposizioni preesistenti da sempre oggetto di interpretazioni divergenti in dottrina e giurisprudenza né ha ritenuto di eliminare fattispecie incriminatrici prive di effettivo significato e di pressoché nulla applicazione.

È il caso, con riferimento alla seconda ipotesi, del delitto di falso in attestazione, della cui sostanziale inoperatività in concreto, integrando di regola le infedeltà dell’attestatore una modalità di concorso nella bancarotta fraudolenta dell’imprenditore, si è già detto in altra sede, cui si rimanda non potendosi soffermare oltre su tale argomento in questo lavoro[15]. Del pari, riteniamo si potesse procedere all’abrogazione dell’odierno art. 217-bis R.D. n. 267 del 1942, il cui contenuto è destinato a transitare nei commi 8 e 9 dell’art. 324: la non rilevanza penale, sub specie del delitto di bancarotta preferenziale dei “pagamenti e alle operazioni computi in coerenza con l’andamento delle procedure … volte al risanamento dell’impresa attraverso la modifica della composizione, dello stato o della struttura delle sue attività e passività o del capitale, nonché ai pagamenti e alle operazioni in esecuzione di un concordato preventivo, o di accordi di ristrutturazione dei debiti omologati o di convenzioni di moratoria o degli accordi in esecuzione del piano attestato, nonché ai pagamenti e alle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice …” è conclusione cui si giunge mediante una corretta (ed agevole ricostruzione) dell’elemento soggettivo richiesto per la sussistenza della bancarotta preferenziale, senza che siano necessarie precisazioni da parte del legislatore.

Fra le norme incriminatrici che avrebbero necessitato di un intervento chiarificatore vi è poi quella di cui all’attuale art. 217, comma 1, n. 4, l. fall. (in futuro, se la riforma andrà in porto, art. 324, comma 3 lett. b) del Codice della crisi), che punisce l'imprenditore che ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa. Si è persa infatti l’occasione da un lato per dare maggiore concretezza di significato alla generica espressione “altra grave colpa” e dall’altro non si è precisato se il requisito della colpa grave richiamato dalla disposizione si riferisca solo alle altre condotte identificate oggettivamente dalla loro causalità orientata all'aggravamento del dissesto ovvero se esso connoti in realtà l'intero complesso dei fatti riconducibili alla previsione incriminatrice in esame, investendo pertanto anche la condotta di omessa o ritardata richiesta di fallimento.

La questione è evidentemente innescata dalla presenza nella norma dell'attributo “altra”, che qualifica il grado della colpa (grave) immediatamente dopo la descrizione della condotta appena indicata. Ciò può astrattamente significare, come si è sostenuto, che il legislatore abbia considerato come intrinsecamente ed inderogabilmente grave la colpa di chi ometta di richiedere tempestivamente il proprio fallimento, ponendo tale comportamento quale parametro del livello di colpa da ricercarsi invece di volta in volta nelle diverse condotte contestate alla stregua della stessa incriminazione; ma può significare altresì, come pure è stato prospettato, che, in quanto coefficiente psicologico comune a tutte le condotte riconducibili alla norma in esame, la colpa grave debba essere accertata anche nell'ipotesi della ritardata istanza di fallimento. Il punto in discussione non è quindi, a ben guardare, se la colpa grave sia elemento psicologico che caratterizza l'intera fattispecie incriminatrice, conclusione sulla quale le opinioni riportate finiscono per concordare; il quesito è se la gravità della colpa debba o meno ritenersi presunta laddove il fallimento non sia tempestivamente richiesto dall'imprenditore in stato di insolvenza.

Secondo la Cassazione, la soluzione affermativa di una siffatta presunzione pare, per un verso, priva di ragionevolezza, e per altro non è l’unica autorizzata dal testo normativo. Per il primo aspetto, non è difficile comprendere come il ritardo nell'adozione della, senza dubbio grave, decisione dell'imprenditore di richiedere il proprio fallimento possa essere ricollegato a una vasta gamma di dinamiche gestionali, che svaria dall'estremo dell'assoluta noncuranza per gli effetti del possibile aggravamento del dissesto a quello dell'opinabile valutazione sull'efficacia di mezzi ritenuti idonei a procurare nuove risorse. L’eterogeneità di queste situazioni rende improponibile una loro automatica sussunzione nella più intensa dimensione della colpa. Il dato oggettivo del ritardo nella dichiarazione di fallimento, in altre parole, è ancora troppo generico perché dallo stesso possa farsi derivare una presunzione assoluta di colpa grave, dipendendo tale carattere dalle scelte che lo hanno determinato. Per il secondo profilo, il fatto che la norma qualifichi nel segno della “altra grave colpa” le condotte diverse da quella di ritardato fallimento non implica necessariamente che quest'ultima sia intesa da legislatore come manifestazione tipica di colpa grave: è infatti possibile una lettura che sottintende tale condotta come punibile in quanto in concreto connotata da colpa grave, al pari di altri comportamenti non tipizzati altrimenti che per la loro efficienza causale rispetto all'aggravamento del dissesto; sicché, in altri termini, la tardiva richiesta di fallimento assume la consistenza di un’omissione penalmente rilevante ove oggetto di una scelta caratterizzata da colpa di livello grave.

Questa opzione interpretativa, non incorrendo nei difetti di ragionevolezza rilevabili nella tesi per la quale la gravità della colpa sarebbe assolutamente presunta nell'ipotesi in esame, deve pertanto essere privilegiata laddove, per quanto appena detto, non incompatibile con il dato letterale. In ogni caso, un intervento chiarificatore del legislatore sul punto sarebbe quanto mai opportuno, anche considerando che oggi, nel caso in cui la procedura interessi un ente collettivo, l’applicazione della disposizione in parola non interessa più solo i vertici dell’azienda, titolari dei poteri gestori, ma anche i sindaci. Infatti, mentre in precedenza il rimprovero conseguente alla mancata presentazione dell’istanza di fallimento poteva riguardare solo l’amministratore ed il liquidatore – unici soggetti, fra quelli indicati dall’art. 224 R.D. n. 267 del 1942, a poter avanzare tale richiesta -, dopo l’entrata in vigore del Codice della crisi nel novero dei soggetti attivi rientrano anche i sindaci, sui quali graverà l’obbligo di attivarsi per arrestare, anche a mezzo dell’apertura della procedura di liquidazione giudiziale, l’esercizio antieconomico di un’attività imprenditoriale in forma collettiva.

Scaturigine di significative criticità in sede applicativa, infine, pare essere la significativa riscrittura della bancarotta documentale, che ha dato luogo all’abrogazione della fattispecie di bancarotta semplice, inerente alla mancata istituzione delle scritture contabili, ricomprendendo tale ipotesi all’interno della ben più grave bancarotta documentale fraudolenta. Si tratta della “consacrazione” di un consolidato orientamento giurisprudenziale che già in precedenza, con un’operazione di chiara analogia in malam partem[16], sosteneva che anche l'omessa tenuta della contabilità integrava gli estremi del reato di bancarotta documentale fraudolenta – e non quello di bancarotta semplice – qualora si fosse accertato che scopo dell'omissione era quello di recare pregiudizio ai creditori[17]. La riforma pone rimedio ad un tale vulnus del principio di tassatività e legalità nella descrizione della condotta vietata ma al contempo viene di fatto a qualificare come bancarotta documentale fraudolenta qualsiasi omissione dell’imprenditore agli obblighi di tenuta della contabilità: nonostante, infatti, la Relazione di accompagnamento insista nell’evidenziare che la punibilità della mancata tenuta dei libri in parola sia giustificata (e si caratterizzi) quale “inequivocabile sintomo della volontà di aggirare il controllo sulla gestione dell’impresa”, davvero non si riesce a comprendere come possa sostenersi che un comportamento privo di ogni caratterizzazione esteriore (quale appunto la mancata istituzione dei libri contabili) sia inteso ad arrecare un pregiudizio ai creditori. Posto che in ogni caso e quale che sia l’atteggiamento psicologico e l’intenzione dell’imprenditore, l’omessa tenuta della contabilità sicuramente rende in ogni caso impossibile la ricostruzione degli affari e del patrimonio dell’impresa, è facile pronosticare che ogni qualvolta l’imprenditore non avrà ottemperato ai suoi obblighi si concluderà nel senso che tale sua omissione sia stata determinata dall'intenzione di occultare dati informativi essenziali alla curatela e quindi tale omissione sarà senz’altro penalmente rilevante.

 

4.1. Un intento chiarificatore è rinvenibile anche nelle modifiche proposte con riferimento all’ipotesi di causazione del dissesto (fino ad oggi disciplinata dall’art. 223, comma 2 nn. 1 e 2) e di bancarotta preferenziale.

Con riferimento al primo profilo, viene ribadita la validità dell’impostazione giurisprudenziale consolidata[18] (ma assai criticata in dottrina[19]) secondo cui nell’ambito della bancarotta da dissesto quest’ultimo va considerato come l’evento hic et nunc verificatosi e che si cristallizza al momento della dichiarazione di insolvenza dell’impresa ovvero quel dissesto in relazione al quale viene dichiarato il fallimento, indipendentemente dalla circostanza che anche senza le condotte delittuose in contestazione una qualche forma di insolvenza della società si sarebbe registrata comunque e ne sarebbe derivato il fallimento dell’impresa interessata. Di conseguenza, con la riforma viene espressamente asserito - superando le perplessità (invero assai poco fondate) cui può dar luogo l’attuale versione della fattispecie - che il reato in questione sussiste anche nell'ipotesi in cui la condotta abbia soltanto aggravato una situazione di dissesto già esistente posto che a) “il fenomeno del dissesto non si esprime istantaneamente, ma con progressione e durata nel tempo, tanto da essere suscettibile di misurazione” e b) “la situazione rilevante è il dissesto come effettivamente concretizzatosi al momento della formale apertura della procedura concorsuale, rimanendo, dunque, irrilevante che, al momento della consumazione della condotta e della produzione dei suoi effetti, già fosse in atto una situazione di dissesto sulla quale la medesima condotta incide solo aggravandola”[20].

Posto ciò, pare apprezzabile – stante la definizione di dissesto indicata in sede di riforma e sopra descritta[21] - la scelta della Commissione di prevedere che, in caso di aggravamento del dissesto, tale circostanza sia penalmente irrilevante in caso di “minimi scostamenti dello scompenso già in atto fra attivo e passivo”. A tale impostazione risponde la disposizione secondo cui l’aggravamento deve riscontrarsi in “misura rilevante”, laddove “l’intrinseca indeterminatezza [di tale] locuzione trova la sua giustificazione nella necessità di valutare l’offensività del fatto in concreto, non ancorando la fattispecie ad arbitrarie soglie predeterminate”. Memori delle clownesche conseguenze derivanti dalla previsione di soglie di punibilità con riferimento al delitto di falso in bilancio si è scelto dunque di rimettere la valutazione circa l’effettiva offensività del fatto alla decisione del singolo giudice.

Appare invece sfumata la posizione del legislatore rispetto al profilo soggettivo del reato. L’espressione utilizzata (“con dolo”) pare ritenere sufficiente il solo dolo generico, ma – come si legge nella Relazione – sono state avanzate proposte alternative dettate dalla preoccupazione di contenere l’attitudine espansiva della fattispecie, richiedendo a tale scopo la sussistenza di un dolo intenzionale. Il profilo è decisamente rilevante posto che laddove si abbandonasse la prospettiva del dolo generico per richiedere una volontà specificatamente diretta alla causazione del dissesto (scelta che però renderebbe davvero residuale l’operatività della disposizione) verrebbe meno la possibilità di contestare la fattispecie nell’ipotesi che, ad oggi, ne rappresenta l’espressione più paradigmatica, ovvero il reiterato e continuo mancato pagamento delle imposte o comunque la costante inottemperanza ad obblighi di legge[22].

Da ultimo, va sottolineato come la Commissione auspichi che, “al pari della crisi e dell’insolvenza, anche al dissesto sia dedicata una disposizione che lo definisca”. Il desiderio sembra però ingiustificato posto che ci pare di poter sostenere che la parola “dissesto” indichi lo stato di insolvenza della società, che si manifesta nel mondo esterno attraverso inadempimenti o altri fattori esteriori che dimostrano che il debitore non è più in grado di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni[23], con il che si deve ritenere, nell’ottica del d.lgs. n. 14 del 2019, che l’espressione in parola richiama l’”insolvenza” dell’impresa ovvero ex art. 2 lett b) d.lgs. n. 14 del 2019 “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”[24].

 

4.2. Nell’ambito della bancarotta preferenziale - che, con riferimento alla posizione del debitore non presenta novità rispetto all’attuale versione della norma (la clausola di illiceità espressa “fuori dei casi consentiti” è irrilevante e tipica manifestazione di una sfiducia da parte del legislatore circa la capacità della giurisprudenza di riconoscere la giusta attenzione all’elemento soggettivo dell’imprenditore di favorire, per ragioni ritenute legittime dall’ordinamento, alcuni creditori a danni di altri) -, va registrata l’espressa previsione di una possibile responsabilità del creditore favorito, sanzionabile penalmente se riceve il pagamento o altra prestazione dopo aver “indo[tto] indebitamente il debitore ad effettuare il pagamento o la prestazione”.

In questo modo, pare si voglia aderire alla posizione (ad oggi minoritaria) che riconosce con maggiore cautela la possibilità di un concorso del creditore nel delitto de quo. A fronte della posizione della giurisprudenza e della dottrina maggioritaria, secondo cui il creditore può ben rispondere del reato in parola qualora abbia determinato, anche senza coartarne la volontà, il debitore al pagamento preferenziale, condividendone il dolo specifico[25], diversi autori sottolineano come la bancarotta preferenziale rientri nella categoria dei cosiddetti reati plurisoggettivi impropri, o altrimenti detti naturalmente plurisoggettivi, ma normativamente monosoggettivi[26], caratterizzati dal fatto che soltanto uno o taluni dei soggetti che partecipano alla vicenda criminale sono considerati punibili dal legislatore, in quanto soltanto su di essi incombe l’obbligo giuridico di non tenere il comportamento. Alla luce di questa considerazione, si ritiene punibile il solo debitore, giacché solo su di lui grava il divieto penalmente sanzionato di pagamenti preferenziali; il creditore, invece, può giovarsi di una norma permissiva, l’art. 1186 cod. civ., che lo facoltizza a richiedere immediatamente la corresponsione del dovuto, laddove venga a conoscenza dello stato d’insolvenza del debitore e quindi del rischio di non vedersi in futuro soddisfatto[27]. In tale quadro teorico, che, come detto, sembra essere fatto proprio dalla riforma, il creditore viene ritenuto punibile solo se pone in essere comportamenti che vadano al di là della mera accettazione dell’adempimento – come, ad esempio, si presti ad un pagamento dissimulato -, ovvero richieda con particolare insistenza, con violenza o minacce, il pagamento[28].

A prescindere da questi profili, comunque, il presupposto perché possa sostenersi una qualche responsabilità del creditore favorito è che questi sia consapevole dello stato di crisi dell’azienda da cui proviene l’adempimento dell’obbligazione e quindi, conseguentemente, sia conscio della portata potenzialmente lesiva dell’adempimento che richiede al debitore. Non rileva, dunque, la circostanza che la Commissione non abbia recepito nella predisposizione dell’articolato la proposta di restringere l’area del penalmente rilevante mediante l’inserimento di un inciso che preveda la illiceità del pagamento preferenziale solo se lo stesso si sia verificato “in presenza di una situazione di rilevante squilibrio patrimoniale o economico-finanziario” ovvero “in presenza di una situazione di crisi o di insolvenza”: da un lato, quando il pagamento si presenti al di fuori di tali circostanze manca il necessario carattere di offensività e dall’altro al di fuori di uno stato di crisi dell’impresa di cui siano consapevoli entrambi i soggetti non si può in alcun modo configurare ex parte debitoris l’intento di favorire uno dei creditori ed ex parte creditoris non vi è ragione di ritenere che la sua insistenza circa l’effettuazione del pagamento a suo favore sia dettata dal timore di vedere in futuro insoddisfatte le sue pretese in ragione della crisi in cui versa il debitore.

 

5. Le novità più attese della riforma riguardavano, tuttavia, la fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale, delitto senz’altro più rilevante e di frequente contestazione nell’ambito del diritto penale fallimentare. Due in particolare erano gli aspetti su cui si attendeva un’opera di chiarificazione da parte del legislatore: in primo luogo, ci si domandava se si sarebbero state precisazioni circa la natura del reato in parola quale delitto di pericolo concreto, con le conseguenze che ne derivano in tema di qualificazione di condotte di distrazione patrimoniali che non attentano alla consistenza della massa patrimoniale dell’azienda ovvero che si collocano temporalmente molto distanti dalla dichiarazione di insolenza; in secondo luogo, ci si chiedeva se, sulla scorta di alcuni suggerimenti provenienti dalla dottrina, sarebbero state introdotte distinzioni fra fatti di bancarotta patrimoniali commesse nell’ambito di aziende poi sottoposte a liquidazione giudiziale (ovvero, con il linguaggio del 1942, dichiarate fallite) e le medesime vicende connesse però all’apertura di diverse procedure concorsuali, come ad esempio il concordato preventivo.

 

5.1. La prima delle due problematiche sopra accennate si pone in ragione della circostanza che, stante la ormai (e finalmente) riconosciuta natura della pronuncia giudiziale di apertura della procedura concorsuale quale condizione di punibilità del delitto di bancarotta – natura ribadita anche in occasione della riforma in commento –, e quindi quale evento esterno alla condotta illecita, svincolato causalmente dall’azione del soggetto agente e completamente al di fuori dal suo spettro di consapevolezza e volontarietà, si rischia di qualificare come penalmente rilevante ogni ipotesi in cui si riscontri che l’imprenditore abbia utilizzato il patrimonio societario in modo non funzionale all’esigenze dell’impresa ed all’adempimento delle relative obbligazioni, “schiaccia[ndo] in termini assertivi la prospettiva della ricerca della prova sul punto genetico del distacco, a prescindere dalla ricerca e dall’approfondimento della qualità del distacco stesso e dalla valutazione dell’ulteriore requisito che per legge gli compete, ossia quello della concreta idoneità a porre in pericolo la garanzia che la massa dei creditori, al momento del fallimento, sarà in grado di escutere”[29]. Ne deriverebbe un eccessivo (ed in alcuni casi incongruo) ampliamento della sfera di operatività della norma con il riconoscimento di una rilevanza penale anche con riferimento a scelte dell’imprenditore che non hanno rivestito alcuna valenza causale rispetto allo stato di dissesto o che, pur censurabili, sono state poste in essere in tempi assai lontani rispetto al momento in cui è emerso il finale stato di insolvenza dell’impresa o che hanno avuto un esito infausto per ragioni indipendenti dalla volontà e capacità dell’imprenditore, ecc..

La dottrina ha da tempo cercato di proporre letture della fattispecie incriminatrice idonee a pervenire ad esiti diversi da quelli ora indicati, in particolare ricostruendo la bancarotta fraudolenta patrimoniale quale reato di “pericolo concreto” e sostenendo “il disvalore penale dei fatti di bancarotta non è un riflesso retrospettivo del fallimento, ma si radica in una carica offensiva ad essi immanente, nella violazione di regole gestionali poste a protezione delle ragioni creditorie; l’imperativo violato dal bancarottiere non vieta di fallire, vieta di porre in essere condotte, sul piano patrimoniale e documentale, atte a pregiudicare il pieno soddisfacimento dei creditori … [e] la dichiarazione di fallimento entra nella fattispecie non perché fondi o incrementi il disvalore intrinseco nei fatti di bancarotta, ma per mere ragioni di opportunità (… senza aggiungere) nulla all’offesa alle ragioni creditorie già insita nei fatti di bancarotta”[30]. Del pari, più di recente si è sostenuto che “i comportamenti tipizzati nelle fattispecie di bancarotta esprimono compiutamente – nel momento stesso della loro realizzazione – il disvalore penale, inteso propriamente come l’offesa recata al bene giuridico tutelato (la garanzia dei creditori)”, autonoma e indipendente rispetto all'offesa propria dei diritti previsti nel R.D. n. 267 del 1942 ed il ben più severo trattamento sanzionatorio che si determina con la sentenza di fallimento si spiega in ragione del fatto che tale pronuncia cristallizza ed  attesta uno stato di insolvenza irreversibile, senza però che ciò significhi che tale decisione giudiziale aggiunga alcunché all’offesa delle ragioni creditorie già insita nei fatti di bancarotta[31].

Di recente, anche la giurisprudenza si sta orientando in tale senso, specie nella individuazione del contenuto del dolo che deve assistere la condotta dell’imprenditore. In alcune decisioni, infatti, si legge che il pericolo contemplato dalla previsione incriminatrice in discorso, e che ne costituisce l’evento “giuridico”[32], “non può che essere correlato alla idoneità dell’atto di depauperamento a creare un vulnus alla integrità della garanzia dei creditori in caso di apertura di procedura concorsuale … con una analisi che deve riguardare in primo luogo l’elemento oggettivo” e tale profilo deve “investire poi in modo omogeneo [anche] l’elemento soggettivo, che certamente deve poggiare su criteri ex ante, in relazione alle caratteristiche complessive dell’atto stesso e della situazione della società, laddove l’anteriorità di regola è tale relativamente al momento della azione tipica”[33]. Come è stato detto, ai fini della sussistenza del necessario elemento soggettivo “non [si può] ritenere bastevole che ad essere proiettati sullo schermo mentale dell’agente siano esclusivamente i comportamenti elencati nelle singole incriminazioni, richiedendosi piuttosto che la coscienza e volontà investano anche un quid pluris rispetto alla materialità del fatto di bancarotta”[34] e cioè la sopravvenuta incapienza - a seguito delle condotte dissipative poste in essere – del patrimonio aziendale rispetto all’ammontare dei debiti su di esso gravanti: è il superamento di siffatto limite a costituire l’oggetto della rappresentazione (o la sua prevedibilità per le fattispecie colpose) dell’imprenditore fallito[35], giacché “termini come distrazione o dissipazione sono impregnati da una connotazione negativa che solo una tangibile incidenza sul bene tutelato può riempire di contenuto; intese come modelli astratti di condotta, la distrazione e la dissipazione si sottrarrebbero ad una soddisfacente determinazione”[36].

Riassumendo, il reato di bancarotta sussiste solo se il comportamento tenuto dall’imprenditore risulti fornito di un grado di concreta offensività verso il bene giuridico protetto dalla norma e tale offesa non può ritenersi espressa da un semplice atto di distrazione o di sottrazione di un bene, occorrendo qualcosa in più, cioè il fatto che a seguito di quella diminuzione patrimoniale venga a determinarsi “uno squilibrio fra attività e passività”, squilibrio idoneo a determinare un pericolo per le ragioni creditorie[37]. Dunque, nella ricostruzione di un possibile episodio di bancarotta fraudolenta, dopo aver verificato che dalla condotta posta in essere è derivata una diminuzione patrimoniale occorre comunque procedere ad una seconda valutazione, non più attinente la sorte di singoli beni, bensì misurabile sul complesso del patrimonio: se la sottrazione di attività non è idonea a destabilizzare la situazione patrimoniale dell’imprenditore non si sarà in presenza di un reato di bancarotta, perché “fino a quando residua un tranquillante margine di attivo non può contestarsi all’imprenditore il diritto di disporre a piacimento delle proprie sostanze … gli atti astrattamente idonei a qualificarsi – in ragione della loro incidenza sulla consistenza patrimoniale - come distrazione, occultamento ecc. dovranno venir rapportati alla contingente situazione patrimoniale in cui si sono inseriti, perché se ne possa verificare la concreta pericolosità”[38].

In sede di redazione dell’articolato di riforma, la Commissione non ha ritenuto di esplicitare un tale impostazione – magari inserendo, come proposto da alcuni componenti allo scopo di selezionare maggiormente l’area di rilevanza penale delle condotte, l’inciso “qualora una o più delle predette condotte siano tenute in presenza di una situazione di rilevante squilibrio patrimoniale o economico-finanziario ovvero ne cagionino o concorrano a cagionare l’insorgenza” – ritenendo presumibilmente le suddette conclusioni ormai consolidate in giurisprudenza, così da non rendere necessaria una riscrittura della disposizione[39]. Vedremo se tale pronostico risulterà fondato[40], anche se è presumibile che l’affermarsi di una tale lettura delle norme incriminatrici in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale potrà essere favorita dall’innovazione rappresentata dalla previsione di un determinato obbligo organizzativo in capo all’amministratore per la percezione immediata dell’avvicinarsi della crisi secondo quanto previsto dall’art. 2086 cod. civ. e dagli artt. 3 e 14 d.lgs. n. 14 del 2019: tali innovazioni, infatti, permettono di definire le condizioni in presenza delle quali un atto di disposizione del patrimonio sociale, specie se posto in essere in tempi lontani rispetto alla dichiarazione di fallimento della società, può essere qualificato (anziché quale espressione di una scelta dell’imprenditore, da rimettere alla sua valutazione discrezionale) come atto di bancarotta, nella misura in cui l’imprenditore, alla luce dell’assetto aziendale all’uopo adottato, è in grado di conoscere la rilevanza e la porta pregiudizievole per i creditori sociali delle scelte di gestione che ritiene di dover adottare[41].

5.2. Molto più problematico, invece, appare prevedere le possibili conseguenze derivanti dalla proposta riforma del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale quando la società sia sottoposta ad una procedura diversa dalla liquidazione giudiziale. Secondo il coma 3 del nuovo art. 341, “nel caso di procedure diverse dalla liquidazione giudiziale nelle quali sia previsto un provvedimento dell’autorità giudiziaria di ammissione o di omologa [si può procedere alla contestazione dei delitti di bancarotta solo] qualora sia accertato lo stato di insolvenza”.

Il significato di tale disposizione è, dunque, nel senso che in presenza di procedure diverse dalla liquidazione giudiziale i fatti di distrazione descritti dalla norma incriminatrice del reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale non integrano tale delitto e ciò in quanto, come si legge nella nota 17 dell’articolato di riforma, “il criterio discretivo per l’applicabilità della bancarotta va individuato – per ragioni di coerenza sistematica e di ragionevolezza complessiva – nell’esistenza dello stato d’insolvenza. Così le procedure, variamente denominate, di gestione della crisi danno ingresso alla reazione penale soltanto in quanto ammesse od omologate in presenza di tale stato, che dovrà essere accertato dall’autorità giudiziaria che tale provvedimento assume”.

In questo modo, il legislatore, accogliendo sollecitazioni di più autori, ha inteso adeguare la normativa penal-fallimentare alla nuova impostazione della disciplina concorsuale, incentrata quest’ultima nella netta differenziazione fra concordato e liquidazione giudiziale[42]. In tale opera di coordinamento, la Commissione ha aderito alla tesi secondo cui le riforme in tema di procedure negoziali di gestione della crisi d’impresa rendono irragionevole l’estensione agli illeciti commessi nell’ambito di tali istituti del trattamento sanzionatorio previsto per reati inerenti la procedura stricut sensu fallimentare (ora di liquidazione giudiziale). Si è detto, infatti, che “l’anticipazione della tutela alla fase di attivazione delle procedure ‘minori’ e, anzi, la stessa rifondazione del diritto dell’insolvenza su procedure negoziali di risanamento dell’impresa in crisi [come risultante dalle riforme del concordato preventivo degli anni 2005 e 2012, che trovano il loro culmine nel nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza] precludono all’arretramento delle tradizionali fattispecie di bancarotta”[43], per cui vi sarebbe una sostanziale incompatibilità fra i reati disegnati dagli artt. 223 e 224 R.D. n. 267 del 1942 e le procedure diverse da quella fallimentare.

Secondo questa impostazione – che la Commissione Bricchetti ritiene evidentemente condivisibile – in presenza di una procedura di concordato preventivo in continuità si ritiene assolutamente incongruo parlare di fatti di bancarotta in quanto il presupposto per l’accesso al concordato non è l’insolvenza dell’impresa bensì la crisi della stessa, nozione questa tutt’altro che univoca – specie se dall’ambito definitorio si passa alla valutazione in concreto delle differenze che corrono fra tale condizione economica e quella, limitrofa, di insolenza – ma che comunque è senz’altro più ampia della prima: l’insolvenza può riscontrarsi solo in caso di radicale incapacità di far fronte alle proprie obbligazioni, lo stato di crisi racchiude al suo interno situazioni maggiormente sfumate ed eterogenee, nelle quali possono rientrare, anche difficoltà meramente temporanee e reversibili[44] e d’altronde questa è la definizione che ne fornisce anche il Codice della crisi, dove nell’art. 2 si afferma che la crisi è “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”, mentre l’“insolvenza” richiama “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Ciò posto, la circostanza che l’impresa che può avere accesso al concordato è un soggetto non in stato di insolvenza ma, appunto, “solo” in crisi, significa che il legislatore ha voluto estendere la possibilità di far ricorso a soluzioni alternative al fallimento anche quando le difficoltà economiche e finanziarie dell’azienda non presentino ancora il carattere dell'irreversibilità ma ricorra una situazione sì preoccupante ma ancora sanabile, quando si riscontri cioè uno squilibrio finanziario e/o patrimoniale e/o economico, caratterizzato da segnali di difficoltà, da un aggravamento significativo degli indici di rischio, da un sovraindebitamento, ma tuttavia sempre qualificabile come “situazione di pre-insolvenza reversibile"[45], un minus, quanto al grado di progressione dello squilibrio patrimoniale e che, a differenza dell'insolvenza, si mostra potenzialmente ancora rimediabile[46].

Sulla scorta di questa considerazione si trae il menzionato giudizio circa l’inaccettabile profilo di irragionevolezza della attuale disciplina penale fallimentare, giacché se, nonostante il mutato presupposto di ammissione al concordato preventivo, permane l'indiscussa dilatazione applicativa del delitto di bancarotta fraudolenta, il risultato finale è quello di vedere assoggettate alla medesima cornice edittale di pena anche “condotte che difettano del disvalore tipico della bancarotta”[47], posto che “un conto è punire condotte di depauperamento della garanzia patrimoniale o di occultamento del patrimonio che accedano a situazioni di irrimediabile insolvenza dell'imprenditore, altro è punire, peraltro con la medesima severità, le stesse condotte quando si inseriscono nella cornice di un mero stato di crisi, che non equivale ancora, soprattutto sul piano assiologico, a sacrificio degli interessi patrimoniali dei creditori"[48].

Dunque, l’“equiparazione tra i concetti di dissesto e insolvenza (aventi natura di specie) e quello di crisi (che li contiene entrambi, ponendosi quale concetto di genere) deve essere respinta non solo in quanto si risolve in un'interpretazione analogica in malam partem, ma perché, prima ancora, appare oggi assai problematico ravvisare un'identità di ratio tra fallimento e concordato preventivo, in ragione del radicale mutamento di DNA del quale è stata protagonista la procedura concordataria”[49], per cui “nel momento in cui la situazione di crisi viene gestita attraverso lo strumento concordatario, in funzione della conservazione del valore dell'impresa e dunque attraverso un suo rilancio nell'agone economico, dopo averla recuperata all'equilibrio finanziario e patrimoniale, l'eventuale applicazione delle sanzioni previste per la bancarotta fallimentare - nel cui contesto, non lo si dimentichi, la comminatoria penale è intimamente connessa all'espulsione dell'impresa dal mercato - sembra risolversi in un ingiustificato accanimento sanzionatorio, in palese contrasto con l'opzione di limitazione dell'opportunità del punire”[50], introducendosi "una punibilità di tipo fallimentare a chi non è fallito, in altri termini nei confronti di un soggetto che non è stato raggiunto da una sentenza dichiarativa dello stato di insolvenza"[51].

In altre sedi[52] abbiamo detto come una tale distinzione fra rilevanza della liquidazione giudiziale e del concordato preventivo – ovvero fra esistenza di una situazione di insolvenza o di crisi – poco rileva nell’ottica del bene giuridico tutelato dalla normativa in tema di bancarotta patrimoniale posto che per la tutela della sfera patrimoniale del creditore è indifferente che l’azienda versi in una situazione di tensione finanziaria ed economica cui può forse porsi rimedio a mezzo di concordato o invece in uno stato di dissesto di tale gravità da doversene disporre la liquidazione giudiziale: ciò che conta per chi vanti pretese verso l’impresa è che in un certo momento intervenga un provvedimento giurisdizionale che, sancendo l’apertura di una procedura concorsuale, evidenzi in via definitiva che la garanzia patrimoniale è divenuta insufficiente per i creditori. Tanto la sentenza di liquidazione giudiziale quando l’ammissione al concordato preventivo segnano il passaggio, penalmente rilevante, dalla messa in pericolo degli interessi dei creditori al pregiudizio economico effettivo a danno degli stessi: il reato di bancarotta non presuppone in via esclusiva l’insolvenza dell’azienda o la decisione di liquidazione giudiziale, ma richiede un arresto dell’attività d’impresa ed una forma di gestione eteronoma da parte dell’Autorità giudiziaria, quale che sia il provvedimento giurisdizionale che consente tale esito.

Non sono adeguate repliche a queste considerazioni le tesi secondo cui il concordato preventivo deve essere, per espressa previsione, migliorativo rispetto al risultato economico rappresentato dalla dissoluzione del patrimonio per via giudiziale ed dalla vendita parcellizzata dei beni residui del patrimonio che caratterizza la procedura fallimentare[53], né rileva la circostanza che il concordato in continuità avrebbe comunque una finalità di ripresa dell’attività imprenditoriale con conseguenti ricadute positive per l’intera collettività, non foss’altro per il profilo occupazionale (esito assai più apprezzabile rispetto all’alternativa rappresentata dall’espulsione dal mercato dell’azienda interessata). Quanto al primo aspetto, l’esame delle concrete vicende ben dimostra come “molto di rado i creditori, specie quelli chirografari, sono chiamati a votare piani concordatari che prevedano una loro reale soddisfazione, perché il patrimonio residuo a loro disposizione è stato eroso il più delle volte dalle condotte imprenditoriali illecite … [ed] il legislatore del nuovo codice si dimostra sul punto molto realistico, forse anche troppo rassegnato [astenendosi] dal richiedere all'impresa l'impegno a garantire il pagamento ai creditori chirografari di una percentuale minima del loro credito [cfr. art. 84, comma 3, d.lgs. n. 14 del 2019]”[54]. A chi adotta un approccio realistico e consapevole della prassi quotidiana pare evidente che per i creditori la tanto valorizzata maggiore appetibilità della soluzione concordataria rispetto a quella liquidatoria tout court si risolve di fatto nella maggior parte dei casi nella possibilità di vedere soddisfatti in misura assai limitata i propri diritti in termini leggermente più celeri rispetto ad ipotesi alternative (magari godendo in alcuni casi di garanzie circa l’effettivo adempimento promesso) oltre a vedersi promessa una prosecuzione dei rapporti commerciali con la società che hanno contribuito a “salvare” aderendo al concordato consentendo la falcidia delle proprie spettanze[55]: un po’ poco per riconoscere alla convenienza economica della procedura di concordato il valore di “esenzione” dai fatti di bancarotta precedente commessi.

In secondo luogo, con riferimento ai vantaggi che il concordato preventivo presenterebbe – in termini di risanamento aziendale – per l’impresa e per quanti dall’operare della stessa in qualche modo ricavano benefici, è innegabile, per le ragioni che si sono dette, che tali effetti positivi maturano anche (se non soprattutto) grazie al sacrificio economico (assai significativo, si è visto) sopportato dai creditori che approvano il piano[56]. Orbene, nella misura in cui tale pregiudizio patrimoniale dei creditori è conseguenza anche di condotte criminose dei vertici aziendali non vediamo per quali ragioni tali condotte dovrebbero andare esenti da pena, quasi che “l’esito finale della crisi d’impresa è determinato, nei fatti, da elementi che nulla hanno a che vedere con le condotte effettivamente tenute dall’imprenditore, dipendendo dal giudizio del mercato”[57].

Non solo. Ritenere inopportuna la punizione di fatti di bancarotta seguiti dall’ammissione a concordato preventivo è affermazione (che oltre ad essere ingiustificata, anche) foriera di significative incongruenze nel sistema del diritto penale fallimentare. In primo luogo, subordinare la punibilità per i fatti di bancarotta. alla presenza di una sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale (o ai provvedimenti ad essa equiparati) significa accettare di mandare esente da sanzioni condotte criminali qualora, per le più disparate e fortunose evenienze successive, non si materializzi la declaratoria giudiziale di insolvenza: come è stato detto, se non si presta adeguata attenzione ai danni economici che i creditori comunque subiscono quando si proceda (non a liquidazione giudiziale, ma) a mezzo delle procedure alternative, allora il ricorso a “strumenti tecnocratici di gestione della crisi d’impresa, basati su considerazioni svolte prevalentemente in chiave di law and economics…[determina] un’applicazione in chiave sfrenatamente liberistica e probabilmente incostituzionale di fattispecie che possono non applicarsi, a parità di condotte, qualora il debitore abbia la fortuna di essere appetibile per un salvataggio”[58].

In secondo luogo, bisogna prendere atto che nel nostro tessuto economico sono presenti non poche “imprese che basano la loro competitività sulla sistematica omissione del versamento di tasse, imposte e contributi, conquistando spazi di mercato e possibilità di crescita economica a discapito delle imprese rispettose delle regole … [imprese per le quali] il concordato preventivo in continuità diretta o indiretta (in cui la prosecuzione dell'attività è devoluta ad una newco consorella) rappresenta un’occasione ghiotta per chiudere i conti con il passato, acquisendo definitivamente – mercé la falcidia concordataria – i benefici derivanti dal risparmio fiscale e contributivo illecitamente attuato. Ecco dunque il rischio maggiore. Per le sue caratteristiche, prima fra tutte quella di non prevedere lo spossessamento tipico del fallimento, il concordato preventivo in continuità, pensato per affrontare impreviste e indesiderate difficoltà imprenditoriali, rischia di diventare un tassello di collaudate e già estremamente diffuse strategie illecite, e quindi rafforzare nell'imprenditore la spinta a premeditare inadempimenti, a concentrare posizioni debitorie di gruppo in una unica impresa (quella da avviare alla procedura), a distrarre risorse economiche e beni, a regolare conti infragruppo con compensazioni difficilmente verificabili e finanche a simulare o creare artatamente una situazione di crisi proprio per lucrare i vantaggi del concordato”[59].

Considerato quanto ora detto, la proposta di riforma pare davvero poco plausibile a meno che non si faccia fideistico affidamento sui vari sistemi di allerta previsti nel codice della Crisi e dell’Insolvenza, la cui operatività consentirebbe all’imprese di intercettare con tempestività ed immediatezza l’insorgenza di significative difficoltà economiche, patrimoniali e finanziarie sì da consentirle di (predisporre quanto necessario) per accedere senza ritardo e con passività sopportabili a procedure concorsuali diverse dalla liquidazione giudiziale. Se tale evenienza fosse effettivamente riscontrabile, potrebbe allora sostenersi che il concordato preventivo è un rito che presenta significativi vantaggi in termini di recupero della funzionalità aziendale ed il cui accesso è consentito solo a soggetti che, pur avendo adottato condotte dissipative e distrattive di beni aziendali, hanno comunque arrecato agli interessi creditori – proprio in ragione della celerità con cui sono intervenuti nella gestione delle difficoltà aziendali – lesioni di scarso rilievo rispetto alle quali è incongruo replicare con il ricorso alla sanzione penale.

Sarà… Ma ci domandiamo: siamo pessimisti se riteniamo che sia eccessivo l’affidamento che il legislatore penale intende fare sull’efficacia preventiva del sistema di allerta disegnato dal Codice della Crisi? E siamo polemici se evidenziamo che in tali casi, ad escludere la punibilità del fatto, sarebbe bastato richiamare la previsione in tema di tenuità della vicenda, senza che individuare nel ricorso al concordato preventivo un ottimo escamotage per l’imprenditore che voglia fuggire dalle sue responsabilità?

 

 

 

 

[1] Per una prima lettura dell’articolato in commento, cfr. Mucciarelli, Proposte di revisione ai reati fallimentari: la relazione della Commissione Bricchetti, in questa Rivista, 7 luglio 2022; D’avirro, Brevi osservazioni sulla proposta di revisione dei reati fallimentari, in Ilpenalista.it.

[2] Cass., sez. V, 2 agosto 2021, n. 30197.

[3] De Bernardi, Sulla responsabilità dell'amministratore di fatto per omesso controllo sull'operato dell'amministratore di diritto, in Giur. It., 2013, 1176; Consulich, Poteri di fatto ed obblighi di diritto nella distribuzione delle responsabilità penali societarie, in Soc., 2012, 555.

[4] Sia consentito il rinvio a Santoriello, I reati del curatore fallimentare, Padova 2002.

[5] Superando così l’impostazione delle “misure premiali” originariamente previste dall’art. 25, ora abrogato, del Codice della Crisi e dell’Insolvenza, impostazione fortemente criticata in dottrina per la scarsa rilevanza che attribuiva alle suddette condotte: Pellegrini, Le misure premiali penali del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, in Sistema Penale, fasc. 7/2020, 70; Cavallini, Il diritto della crisi e il codice “dimezzato”: nuovi assetti di tutela per il sistema penale dell’insolvenza?, in Dir. Pen. Proc., 2019, 1340; Chiaraviglio, Le innovazioni penalistiche del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: alcuni rilievi critici, in Soc., 2019, 445.

[6] Sul punto si veda quanto si dirà subito innanzi in relazione all’ipotesi in cui il fallimento si chiuda senza creditori insoddisfatti.

[7] In sostanza, una condotta di parziale riparazione del danno conseguente alle condotte di distrazione può rilevare, anziché quale causa di non punibilità di cui all’art. 324 bis, nell’alveo dell’ipotesi di esiguità penale della vicenda, con conseguente non sanzionabilità della vicenda ai sensi della successiva disposizione?

[8] Cavallini, La bancarotta patrimoniale fra legge fallimentare e codice dell’insolvenza, Padova 2012, 285

[9] Da ultimo, Cass., sez. V, 9 maggio 2019, n. 19981,

[10] Vi è accordo infatti sul fatto che il danno da bancarotta non equivale al passivo fallimentare ma si discute sulle modalità di calcolo del pregiudizio derivante direttamente dalla bancarotta, al netto del danno da insolvenza.

In proposito, Rossi, Art. 240, in Rossi - Mazzacuva, Disposizioni penali, III, in Galgano (a cura di), Commentario Scialoja-Branca alla legge fallimentare, Bologna-Roma, 1997, 134.

[11] Cass. sez. V, 16 aprile 2015, n. 15976; Cass. sez. V, 24 aprile 2015, n. 17351.

In proposito, Alessandri, Novità penalistiche, cit.,1177.

[12] Pellegrini, Le misure premiali penali, cit., 87.

[13] Cass., Sez. V, 5 novembre 1986, Scuteri, in Cass. pen., 1987, 1646.

[14] Perini – Dawan, La bancarotta fraudolenta, Padova, 2001, 64.

[15] Santoriello, Il diritto penale fallimentare dopo il nuovo Codice delle crisi, Torino 2020; Id., Alcune indispensabili precisazioni sulla bancarotta da concordato preventivo, in questa Rivista, 24.9.2020

[16] Perini - Dawan, La bancarotta fraudolenta, cit., 215.

[17]Cass., sez. V, 11 maggio 2015, n. 18556, in Mass. Uff., n. 250087, secondo cui il dolo generico che caratterizza il reato fraudolento, dovendo consistere nella consapevolezza e volontà che la irregolare tenuta delle scritture rende impossibile la ricostruzione del patrimonio, non può corrispondere e non può essere ritenuta sovrapponibile alla pura semplice volontà di non tenere quelle scritture. Nello stesso senso Cass., sez. V, 15 aprile 2016, n. 15802, inedita

[18] Da ultimo, Cass., sez. V, 21 maggio 2020, n. 15652.

[19] Rossi, I profili penalistici del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: luci ed ombre dei dati normativi, in un contesto programmatico. I ‘riflessi’ su alcune problematiche in campo societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, 1153; Id., Causazione del fallimento della società 'con dolo o per effetto di operazioni dolose': peculiarità, anomalie testuali e controversie esegetiche alla luce della sentenza sul caso Parmalat-Capitalia, in www.penalecontemporaneo.it; Pisani, Bancarotta impropria da reato societario: il nesso di causalità, in Fisco, 2014, 1, 47.

[20] Da ultimo, Cass., sez. V, 21 maggio 2020, n. 15652.

[21] Non condivisa da D’Avirro, Brevi osservazioni sulla proposta di revisione dei reati fallimentari, in Ilpenalista.it, che però rifugge dal confrontarsi con le argomentazioni addotte a sostegno della tesi giurisprudenziale.

[22] Nel senso della non rilevanza, già nella vigenza dell’attuale versione della norma, di tali condotte, Cavallini, La bancarotta patrimoniale fra legge fallimentare e codice dell’insolvenza, Padova 2012, 79.

[23] Cass., sez. V, 8 maggio 2002, n. 21535, in Cass. pen., 2003, 70.

[24] Peraltro, laddove si ritenga necessaria una maggiore chiarezza, in sede di riforma della fattispecie in parola si potrebbe di cagionamento dell’insolvenza anziché del dissesto.

[25] Cass., sez. I, 16 agosto 2005, n. 16957.

Nel senso che in caso di responsabilità penale del creditore favorito, il profitto del reato di bancarotta preferenziale andava rinvenuto nella somma di denaro che il creditore preferito viene ad ottenere a seguito del pagamento illecito: Cass., sez. V, 27 gennaio 2016, n. 3564).

[26] Chiaraviglio, Il favoreggiamento del creditore nel diritto penale concorsuale, Milano 2020, 479.

[27] Cocco, La bancarotta preferenziale, Napoli 1987, 273.

[28] Pedrazzi, Reati commessi dal fallito, in Commentario Scialoja – Branca. Legge fallimentare, a cura di Galgano, Bologna – Roma 1995, 134; Marinucci, Tendenze del diritto penale bancario e bancarotta preferenziale, in La responsabilità penale degli operatori bancari, a cura di Romano, Bologna, 1980, 6.

In giurisprudenza, in questo senso Cass. sez. V 24 settembre 2008 n. 39417, Manganello, in Mass. Uff., n. 241740, secondo cui “concorre nel reato di bancarotta preferenziale il creditore consapevole dello stato di dissesto del debitore fallendo, il quale fornisca un contributo determinante dal punto di vista causale alla violazione della par condicio (nella specie il creditore si soddisfaceva dei propri crediti utilizzando le somme di pertinenza della società in stato di insolvenza versate dai debitori di quest’ultima su un conto corrente a lui intestato)”.

[29] Cass., sez. V, 24 marzo 2017 (dep. 7 aprile 2017), n. 17819. Su tale decisione, Poggi D’angelo, Sul modello d’illecito e le sue conseguenze in tema di bancarotta fraudolenta prefallimentare, in Cass. Pen., 2017, 3951.

Si veda anche Cass., sez. V, 8 febbraio 2017, Santoro, n. 13910, in Mass. Uff., n. 269389.

[30] Pedrazzi, Reati commessi dal fallito, cit., 107.

[31] Mucciarelli, Sentenza dichiarativa di fallimento e bancarotta: davvero incolmabile il divario fra teoria e prassi, in Riv. Trim. Dir. Pen. Cont., 4/2015, 309.

Si vedano anche Donini, Imputazione oggettiva dell’evento. ‘Nesso di rischio’ e responsabilità per fatto proprio, Torino 2006, 139, secondo cui “un fatto non può diventare illecito per il verificarsi di un evento sopravvenuto e non imputabile (l’insolvenza – fallimento) [giacché] o l’evento è imputabile, e allora si risponde per averlo cagionato, con condotta ex ante pericolosa ed idonea a tale effetto, oppure non è imputabile, e allora ciò che rende illecita la condotta deve risiedere nel comportamento stesso o nella situazione in cui viene posto in essere, non nel risultato”. Secondo Fiorella, I reati fallimentari, Fiorella (a cura di), Questioni fondamentali della parte sociale del diritto penale, II ed., Torino, 2016, 378, il fallimento è "la 'spia' dell'evento tipico dei reati fallimentari"; Nisco, Recenti evoluzioni (ed involuzioni) in tema di bancarotta: ruolo dell’insolvenza ed adeguatezza economica delle operazioni antecedenti, in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 2015, 851.

[32] Perini – Dawan, La bancarotta fraudolenta, cit., 155.

[33] Cass., sez. V, 24 marzo 2017, n. 17819.

Per commenti alla decisione, si veda POGGI, Sul modello d'illecito, cit., 3951; Santoriello, Spunti per una delimitazione degli atti di gestione del patrimonio aziendale qualificabili come bancarotta fraudolenta, in Soc., 2017, 1024.

[34] Mucciarelli, Sentenza dichiarativa di fallimento, cit., 13.

[35] Mucciarelli, Sentenza dichiarativa di fallimento, cit., 13.

[36] Pedrazzi, Reati commessi dal fallito, cit., 12.

[37] Secondo Cavallini, La bancarotta patrimoniale, cit., 272, “laddove l’atto gestorio appia ex ante economicamente giustificabile – con la precisazione per cui la congruità va misurata non già in termini ‘matematici’, bensì in relazione all’utilità attesa nel singolo contesto imprenditoriale – non residua alcuno spazio per la distrazione. Ciò – si osservi – quand’anche, in ipotesi, all’esito dell’operazione il compendio patrimoniale risulti meno ‘liquido’, e, dunque, il soddisfacimento per i creditori di minore immediatezza e più incerto, non potendosi confondere la consistenza con la liquidità della garanzia”.

[38] Pedrazzi, Reati commessi dal fallito, cit., 70. Lo stesso autore afferma (in Pedrazzi, Riflessioni sulla lesività della bancarotta, Aa.Vv., Scritti in memoria di Giacomo Delitala, Milano 1984, II, 1111 ora in Id., Diritto penale. III, Scritti di diritto penale dell’economia. Problemi generali, diritto penale societario, Milano 2003, 991, l’“obbligo di conservazione [del patrimonio della stessa] è circoscritto al valore necessario a soddisfare le obbligazioni a mano a mano che vengono a scadenza [, mentre] al di là di questo limite si è di espandere il potere di disposizione” che di regola compete al privato circa la sorte dei suoi beni).

La necessità di tale verifica puntuale dell’offensività concreta delle condotte di bancarotta viene, secondo l’autore, imposta da una molteplicità di argomenti. In primo luogo, la grave sanzione comminata per il reato in parola mal si concilierebbe con un delitto a pericolo presunto. In secondo luogo, la drastica limitazione che la normativa penale fallimentare arreca al diritto di proprietà ed alla libertà d’iniziativa economica può sussistere solo in presenza di una effettiva lesione di altri ed importanti interessi, ovvero quando il libero esercizio di questi diritti determina una illegittima compressione delle posizioni giuridiche dei creditori. Infine, riconosciuto come la tutela preventiva dei diritti di credito in sede privatistica (in particolare, tramite l’azione surrogatoria e quella revocatoria) è possibile solo sul presupposto di una comprovata situazione di pericolo, analoghi presupposti devono legittimare l’esercizio dell’azione penale per la protezione dei medesimi interessi creditori.

[39] Ed anche perché una tipizzazione del tipo di quella indicata nel testo, che rievoca la nozione di “area di rischio penale” più volte evocata da Nuvolone, avrebbe rischiato di mandare esenti da sanzione “fenomeni di precoce programmazione della bancarotta [ovvero] condotte che determina l’insorgenza della situazione di squilibrio”:

[40] Assai critico verso la scelta della Commissione D’avirro, Brevi osservazioni sulla proposta di revisione dei reati fallimentari, in Ilpenalista.it.

[41] Per approfondimenti, Santoriello, Il diritto penale fallimentare, cit., 320.

[42] Alessandri, Profili penali delle procedure concorsuali. Uno sguardo d’insieme, Milano 2016, 1; Grimaldi, Concordato preventivo liquidatorio e concordato preventivo in continuità aziendale: i precedenti di Cassazione, tra prevenzione ed esigenze di coordinamento, in Cass. Pen., 2019, 3333; Pantanella, Concordato preventivo e bancarotta: limiti della cognizione del giudice penale, in Cass. Pen., 2017, 3729.

[43] Cavallini, La bancarotta patrimoniale fra legge fallimentare, cit., 217.

[44] Cfr. Cass., sez. un., 26 febbraio 2009, n. 24468, secondo cui lo “stato di insolvenza … evoca sia situazioni in cui l'impresa versa nell'impossibilità di adempiere le obbligazioni in scadenza, sia situazioni di squilibrio irreversibile, sia situazioni in cui è agevolmente pronosticabile il verificarsi, nell'immediato, di uno di tali inconvenienti".

[45] Vicari, I doveri degli organi sociali e dei revisori in situazioni di crisi di impresa, in Giur. comm., 2013, 133.

Si veda anche Di Marzio, Crisi d’impresa, in Enc. Dir., Annali V, 503.

[46] Nello stesso senso nella dottrina penalistica, Cavallini, La bancarotta patrimoniale, cit., 301; Pisani, Crisi di impresa, cit., 168; Alessandri, Profili penali delle procedure concorsuali, cit., 81.

[47] Giunta – Scarcella, Art. 236, in Nigro - Sandulli (a cura di), La riforma della legge fallimentare, II, Torino 2006, 1222.

[48] D’Alessandro, La bancarotta da concordato preventivo ed accordi di ristrutturazione, in Dir. Pen. Proc., 2019, 1202, cit., 1202.

Nello stesso senso, Mucciarelli, Stato di crisi, piano attestato, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo e fattispecie penali, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2009, 825, secondo cui “se la procedura concordataria è oggi possibile anche in una situazione di crisi, ma non d’insolvenza, è ugualmente congetturabile l’applicabilità di fattispecie di incriminazione che scontano come elemento di fattispecie la dichiarazione di fallimento che a sua volta presuppone lo stato di insolvenza?”; Sgubbi, Crisi d'impresa, procedure di salvataggio e reati fallimentari, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, I, 667; Chiaraviglio, Le innovazioni penalistiche del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: alcuni rilievi critici, in Soc., 2019, 445.

[49] D’alessandro, La bancarotta da concordato preventivo, cit., 1202.

Nello stesso senso, Bricchetti – Mucciarelli - Sandrelli “Le responsabilità penali”, cit., 1299; ROSSI, I profili penalistici, cit., 1153.

[50] D’Alessandro, La bancarotta da concordato preventivo, cit., 1212.

Per una critica riferita all'identità delle cornici edittali ritagliate per la bancarotta fallimentare e quella concordataria Zanchetti, Incostituzionali le fattispecie di bancarotta?, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2014, 149; Flora, Il ruolo della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati fallimentari, in Borsari (a cura di), Crisi d'impresa, procedure concorsuali e diritto penale dell'insolvenza, Padova, 2015, 326; Donini, Per uno statuto costituzionale dei reati fallimentari. Le vie d’uscita da una condizione di perenne ‘specialità’, in Jus, 2011, 65.

[51] Alessandri, Profili penali delle procedure concorsuali, cit., 86.

[52] Si vedano le indicazioni bibliografiche alla nota 11.

[53] Per tale considerazione Alessandri, Novità penalistiche, cit., 1835.

[54] Orano, Il Codice della crisi e le insidie della continuità senza meritevolezza nel concordato preventivo, Ilfallimentarista.it, 12, secondo cui “il rischio, infatti, è di dare continuità ad imprese (e imprenditori) che accedono alla procedura in condizioni di dissesto determinate, in tutto o in parte, dalla commissione di gravi reati e/o che hanno conquistato e mantenuto spazi di mercato mediante pratiche illecite ampiamente diffuse come il cd. autofinanziamento da evasione, ossia la omissione – talvolta ab initio, totale e sistematica – del versamento dei contributi e delle imposte, strategia in grado di alterare completamente i meccanismi della concorrenza, determinando l'eliminazione dal mercato delle aziende virtuose e rispettose delle regole”.

[55] Fermo rimanendo che “per un creditore, essere “soddisfatto” mediante la prosecuzione di un rapporto commerciale con una società che in precedenza non lo ha pagato magari non sarà irrisorio, ma di certo suona un pò beffardo”: Orano, Il Codice della crisi e le insidie, cit., 12.

[56] Nel senso che le norme in tema di concordato “consentono di accedere ai benefici del concordato in continuità (assenza di spossessamento e di soglia minima di soddisfacimento del chirografo) anche se dalla prosecuzione dell'attività non derivi affatto la maggior parte delle risorse a disposizione dei creditori, purché la continuità consenta la salvaguardia dei posti di lavoro nei limiti e per il periodo previsti dalle norme richiamate”, Orano, Il Codice della crisi e le insidie, cit., 11.

[57] Alessandri, Profili penali, cit., 7.

[58] Alessandri, Profili penali, cit., 10.

[59] Orano, Il Codice della crisi e le insidie, cit., 7.