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07 Luglio 2022


Proposte di revisione ai reati fallimentari: la relazione della Commissione Bricchetti


*L’autore, componente della Commissione Ministeriale, esprime nella nota opinioni personali non attribuibili alla Commissione nel suo complesso.

 

Istituita con decreto della Ministra della Giustizia del 13 ottobre 2021, incaricata di “elaborare proposte di revisione ai reati fallimentari”, la Commissione ha concluso i suoi lavori. Presieduta da Renato Bricchetti, presidente della I sezione penale della Corte di Cassazione e studioso di riconosciuta competenza e autorevolezza, la Commissione ha elaborato una serie di proposte, tradotte in un articolato accompagnato da una relazione illustrativa, quest’ultima consultabile al seguente link.

Neppure per cenni di sintesi è possibile dar conto degli esiti del lavoro, ma qualche avvertenza può riuscire forse non inutile al lettore.

Dapprima un’informazione di carattere esplicativo: articolato e relazione sono stati definiti prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del d. lgs 17 giugno 2022 n. 83, attuativo della direttiva (UE) 2019/1023: tale intervento legislativo innova profondamente il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d. lgs 14/2019 o CCI). Sicché l’articolato (soprattutto per quanto concerne una serie di richiami interni al CCI) dovrà essere rivisto e aggiornato, anche all’esito di un confronto con i componenti della commissione ministeriale incaricata di elaborare proposte per il recepimento della suindicata direttiva e presieduta dalla prof.ssa Ilaria Pagni, fermo restando che il pur significativo mutato assetto del CCI non importa l’esigenza di una revisione delle opzioni suggerite dalla Commissione nell’articolato e argomentate nella relazione.

Conviene poi una notazione di carattere e ampiezza ben diversi.

La necessità di adeguamento di una disciplina (quella penale della bancarotta) risalente – come noto al 1942 – non poteva non tener conto, come riferimenti essenziali, di due snodi concettuali cruciali: da un lato il principio di realtà e, dall’altro, l’assetto normativo nel quale la disciplina penale viene a inserirsi (pur non avendo funzione meramente sanzionatoria di precetti altrove fissati, il presidio penale non può – soprattutto in ambiti come quello in discorso – non essere pienamente consapevole dell’ammagliatura ordinamentale rispetto alla quale è chiamato a svolgere la propria funzione).

Partendo proprio da quest’ultimo profilo, non sembra azzardato affermare che il tratto essenziale della riforma della disciplina della crisi dell’impresa e dell’insolvenza consiste nell’idea di gestione di tali fasi (crisi e insolvenza) in una prospettiva di conservazione dell’organismo produttivo all’interno del tessuto economico qualora dell’impresa stessa (o anche soltanto di talune sue articolazioni) sia predicabile la continuità aziendale. Una continuità aziendale per il perseguimento della quale il legislatore ha fornito una serie di strumenti variamente articolati.

Seppure residuale evenienza, a scongiurare la quale l’ordito normativo è stato fortemente conformato, rimane tuttavia la liquidazione giudiziale dell’impresa insolvente.

Lo stato d’insolvenza, al quale il CCI subordina la declaratoria giudiziale (il corrispondente attuale dell’antica sentenza dichiarativa del fallimento) è definito dall’art. 2 co. 1 lett. b CCI in termini identici a quelli con i quali l’art. 5 l. fall. caratterizzava e continua a caratterizzare (fino a quando resterà in vigore) il menzionato stato.

Superiori ragioni di ordine logico esigono pertanto di concludere che anche nell’assetto normativo risultante dalla riforma, l’impresa insolvente viene estromessa dal mercato. E si badi: le condizioni per l’estromissione sono, formalmente e sostanzialmente, le medesime rispetto a quelle in presenza delle quali il legislatore del 1942 aveva previsto per l’impresa eguale sorte.

La differenza – radicale – sta altrove: oggi, a differenza del passato, prima di giungere all’esito finale (id est: prima di decretare l’espulsione dell’impresa dal mercato) sono attivabili molteplici percorsi alternativi volti a evitare la dichiarazione giudiziale d’insolvenza come fenomeno giudiziario, ovvero, sul versante sostanziale, indirizzati a far uscire l’impresa dalla situazione d’insolvenza o da quella – meno grave – di crisi, che tuttavia, se non tempestivamente e adeguatamente affrontata, è destinata a degenerare in insolvenza.

Ne segue che alla sentenza che accerta lo stato d’insolvenza, dichiarando la liquidazione giudiziale, è facile e logicamente consistente attribuire, nell’ottica dei reati di bancarotta, una funzione identica a quella svolta dalla sentenza dichiarativa di fallimento (asserzione che rimane valida qualunque sia la natura che si voglia riconoscere a tale sentenza nell’economia dei reati di bancarotta).

Non può sfuggire (e, segnatamente, non deve a chi debba riflettere in termini concreti sulla revisione della materia penale “fallimentare”, per usare le parole della tradizione) che l’ancor oggi vigente assetto normativo ha costituito e costituisce la parte assolutamente preponderante del “penale dell’economia” sul piano della applicazione della legge, circostanza che suscita il timore che modificazioni alle principali fattispecie incriminatrici o rimeditazioni in mitius dei trattamenti sanzionatori importerebbero conseguenze enormi sulla gran massa dei processi e dei procedimenti penali pendenti in materia. Timore che è (forse) stato alla base dell’immobilismo che ha afflitto la disciplina in discorso, come noto immutata nella sostanza da ottant’anni a questa parte.

Ammesso che l’osservazione sia fondata, essa può valere, al più, come spiegazione del fenomeno, non già esserne la giustificazione, posto che, se così fosse, ogni riforma che determinasse effetti del genere sarebbe preclusa, prescindendo dalla sua necessità e dalla sua ragionevolezza.

L’esigenza di tener conto degli effetti di un intervento di revisione normativa non può essere nondimeno pretermessa e liquidata come irrilevante conseguenza pratica, della quale è lecito dimenticarsi: il principio di realtà possiede ragioni robuste e il suo canone non è flessibile, legato all’ostinazione dei fatti di cui è intessuto. Ignorare tali robuste ragioni può condurre alla costruzione di forse appaganti modelli astratti, magari convincenti sul piano estetico, ma destinati al naufragio nel mare dell’immane concretezza del reale.

Ancora una volta, l’esercizio paziente della ragione critica sembra poter costituire il presidio metodologico più sicuro per procedere nella riflessione.

Riflessione critica che non può non principiare dalla notazione sulla quale si è in precedenza argomentato: anche dopo i pur radicali interventi innovativi (essenzialmente rivolti alla fase della crisi e dell’insolvenza non irreversibile nella prospettiva di conservazione dell’impresa) rimane inalterato rispetto al regime del r.d. 267/1942 lo schema fondato sull’irriducibile binomio “impresa insolvente/estromissione della stessa dal mercato”, cui accede la dinamica della concorsualità per il soddisfacimento dei diritti dei creditori, che trovano garanzia nel patrimonio dell’impresa.

Né si dimentichino gli ulteriori elementi che depongono fortemente nel senso della sostanziale sovrapponibilità dei modelli: identico il presupposto della liquidazione giudiziale e del fallimento (l’insolvenza irreversibile), identica la definizione normativa di tale presupposto, sostanzialmente uguali le caratteristiche dei soggetti “fallibili” e, in futuro, “liquidabili”.

Ma se, come detto, i modelli (quello della legge fallimentare e quello del CCI) sono sovrapponibili per quanto attiene alla fase dell’insolvenza irreversibile (o, più precisamente, dell’insolvenza giudizialmente dichiarata con il provvedimento di liquidazione giudiziale), la riflessione circa la revisione delle figure incriminatrici di bancarotta dovrà misurarsi con tale dato, riconoscendo conseguentemente nel patrimonio dell’impresa l’elemento cruciale per la tutela dei diritti del ceto creditorio, il cui soddisfacimento trascorre secondo le regole della concorsualità.

Si potrebbe a questo punto inferire che, essendo le risalenti fattispecie in tema di bancarotta conformate alla tutela degli interessi appena sopra rammentati, interessi rimasti inalterati anche al cospetto della nuova disciplina, si affievolisce fortemente quell’esigenza di adeguamento fin qui ampiamente ricordata.

Come ognun sa, le incriminazioni non vivono però soltanto del bene giuridico che esse proteggono, ma anche della selezione delle condotte offensive tipizzate attraverso la loro descrizione, oltre che dei collegamenti sistematici (in particolare quelli con le altre disposizioni di settore).

Che i reati di bancarotta, così come concepiti dal r.d. 267/1942, mostrassero e, per vero, mostrino, per quanto ancora vigenti, ben impresso il segno del tempo è evidente, già a partire dalle figure-base degli artt. 216 e 217 l. fall., concepite come reati propri intorno alla figura dell’imprenditore individuale, archetipo ormai del tutto tramontato e pressoché sconosciuto nella prassi delle Corti, mentre le fattispecie concernenti l’imprenditore collettivo (indiscusso e totalizzante protagonista della scena), oltre che collocate anche topograficamente sullo sfondo, sono assai discutibilmente costruite a ricalco sulla matrice delle ipotesi-base.

Proprio con riguardo alle incriminazioni in discorso maggiormente delicato e complesso si presenta il problema di un intervento che tenga conto della necessità di adeguare le disposizioni al mutato contesto, senza tuttavia determinare effetti rovinosi sulle esigenze di tutela fin qui assicurate dall’impianto normativo, provocando conseguenze potenzialmente paralizzanti (o quasi) del funzionamento della già patologicamente sovraccarica macchina della giustizia penale.

È proprio in questo snodo cruciale che il principio di realtà fa avvertire la pienezza della sua forza, ammonendo la riflessione alla ricerca di soluzioni capaci di contemperare opposte esigenze: verrebbe da richiamare, in via di metafora, essendo la teoria emersa e sviluppata in altri contesti, la metodologia della reasonable accommodation come criterio specialmente appropriato per trovare il passaggio a Nord Ovest.

In sintesi estrema, può dirsi che è stata portata al centro del sistema la bancarotta dell’imprenditore collettivo, mantenendo la struttura originaria dell’incriminazione e suggerendo altresì un’ipotesi alternativa che prevede l’inserzione sul versante oggettivo della fattispecie di una clausola idonea a connotare in modo esplicito l’estremo del pericolo concreto. Nel contempo sono state ridisegnate le figure della cd bancarotta societaria impropria (art. 223 co. 2, numeri 1 e 2 l.fall.), mentre una drastica rivisitazione ha interessato la bancarotta semplice, ricondotta a tre sole condotte punibili. Nella bancarotta preferenziale è stata poi prevista una specificazione per definire in modo preciso i limiti della eventuale responsabilità in concorso del creditore favorito e nel contesto si è provveduto a disegnare la delimitazione dell’applicabilità delle incriminazioni sul modello dell’art. 217-bis l. fall..

Detto che anche per la bancarotta documentale sono state proposte modificazioni nel segno della razionalizzazione e semplificazione delle fattispecie, il grande tema della giustizia riparativa non poteva non avere riflesso nel lavoro della Commissione, che ha quindi elaborato proposte di una fattispecie esimente legata alla riparazione integrale che intervenga prima della dichiarazione di liquidazione giudiziale (dando così una veste normativa alla figura della cd bancarotta riparata di creazione giurisprudenziale). In questa linea si colloca un rinnovato sistema di attenuanti a effetto speciale, previste qualora il risarcimento avvenga dopo la dichiarazione giudiziale d’insolvenza, ma prima dell’apertura del giudizio, di entità differenziata in relazione alla portata (integrale o parziale) del risarcimento.

Una rivisitazione rilevante ha poi interessato la fattispecie dell’art. 236 l. fall., disposizione che regola, fra l’altro, l’estensione delle incriminazioni in tema di bancarotta anche a procedure e strumenti di soluzione della crisi nei quali può non esservi l’insolvenza stessa. Valorizzando proprio la centralità dell’insolvenza, la proposta di modifica mira a limitare l’estensione a quelle situazioni nelle quali tale estremo sussista.

Ricordato che ai cd reati minori (id est: quelle figure incriminatrici che concernono comportamenti non direttamente connessi con il diretto presidio della tutela del patrimonio dell’impresa nella sua funzione di garanzia per il ceto creditorio) è stato riservato un intervento di semplificazione e razionalizzazione, la Commissione ha poi dedicato una serie di modifiche alle disposizioni di natura processuale, provvedendo altresì a rivisitare la materia dei sequestri e della confisca in una prospettiva che colloca le ragioni della massa in posizione di preminenza.