Cass. Pen., Sez. V, sent. 6 ottobre 2020 (dep. 09/12/2020), n. 35012, Pres. Sabeone, Rel. Pezzullo — Cass. Pen., Sez. V, sent. 6 ottobre 2020 (dep. 09/12/2020), n. 35013, Pres. Sabeone, Rel. Pezzullo
1. Le sentenze in commento traggono origine dai ricorsi per cassazione presentati da due soggetti, imputati per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., nei cui confronti era stata ripristinata la custodia cautelare in carcere, dopo che in un primo momento era stata disposta la sostituzione di tale misura con gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico e divieto di comunicazione con persone diverse dai familiari conviventi: il GIP, infatti, aveva ritenuto da un lato che lo stato di salute degli istanti, affetti da più patologie, fosse incompatibile con il carcere in considerazione del rischio di contagio da Covid-19 e, d’altra parte, che le esigenze cautelari potessero essere adeguatamente soddisfatte con una misura minore.
I due provvedimenti possono essere analizzati congiuntamente alla luce del fatto che chiamano in causa le medesime disposizioni di legge, seguono un identico iter motivazionale e riguardano, inoltre, due soggetti gravemente indiziati di partecipare alla stessa associazione mafiosa.
2. Partiamo dai motivi di ricorso.
2.1. In entrambi i casi, gli imputati lamentano la violazione dell’art. 275 co. 4-bis c.p.p., sotto il profilo della mancanza e contraddittorietà della motivazione adottata dal Tribunale del riesame: secondo i ricorrenti, quest’ultimo, pur avendo riconosciuto la gravità delle loro patologie[1], che li avrebbe esposti ad esiti infausti in caso di contagio, ha irragionevolmente escluso la loro incompatibilità con il regime carcerario.
Sostengono, infatti, che a tale conclusione il Tribunale sia pervenuto facendo esclusivo riferimento in un caso all’assenza di detenuti positivi all’interno del penitenziario di Caltanissetta in cui uno dei due ricorrenti si trova ristretto e, nell’altro, tenendo esclusivamente in considerazione le statistiche generali sulla diffusione del contagio in Sardegna, essendo l’altro ricorrente recluso nel carcere di Nuoro.
2.2. Con un’ulteriore doglianza, contenuta esclusivamente nel ricorso da cui trae origine la prima delle due sentenze in commento (sent. 6 ottobre 2020, n. 35012), viene lamentata la violazione di legge in relazione all’art. 3 del d.l. 10 maggio 2020 n. 29[2], nonché la sua incostituzionalità per contrasto con gli artt. 3, 27 co. 2 e co. 3, 32, 117 Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 7 CEDU.
Secondo il ricorrente, si tratta di una disposizione che impone delle rivalutazioni identiche a quelle che l’art. 2 del d.l. 10 maggio 2020 n. 29[3] stabilisce nei confronti dei detenuti per i medesimi gravi reati[4] che siano stati ammessi alla detenzione domiciliare o che usufruiscono del differimento della pena sempre per motivi connessi all’emergenza sanitaria e si espone, pertanto, ai medesimi dubbi di illegittimità già evidenziati nelle relative ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale[5], poiché anch’essa altererebbe quel necessario bilanciamento tra le esigenze di sicurezza collettiva e la tutela del diritto alla salute, a discapito di quest’ultima.
3. Secondo la Cassazione, però, entrambi i ricorsi non meritano accoglimento.
3.1. In relazione alla prima doglianza, la Corte sottolinea preliminarmente che l’art. 275 co. 4-bis c.p.p. può fungere da parametro di valutazione dell’incompatibilità delle condizioni di salute dell’imputato con il regime carcerario anche di fronte al pericolo di contagio da Covid-19, pur non essendo quest’ultima situazione contemplata dalla norma.
Tanto chiarito, la Corte ribadisce il suo consolidato orientamento secondo cui la valutazione della gravità delle condizioni di salute del detenuto e della conseguente incompatibilità con il regime carcerario deve essere effettuata sia in astratto, con riferimento ai parametri stabiliti dalla legge, sia in concreto, con riferimento alla possibilità di effettiva somministrazione nel circuito penitenziario delle terapie di cui egli necessita[6].
Alla luce di tali principi, la Cassazione individua i diversi elementi da tenere in considerazione ai fini della valutazione di incompatibilità, distinguendo le circostanze non caratterizzate dal rischio di contrarre il virus rispetto alla situazione di pandemia: nel primo caso, occorrerà tener conto della concreta situazione in cui il soggetto si trova ristretto e della effettiva possibilità di ricevere le cure di cui necessita; nel secondo, invece, oltre alla constatazione della presenza di una o più patologie in grado di determinare un pericolo per la vita dell’imputato in caso di contagio, sarà necessario accertare la presenza di un rischio concreto di contrarre il virus nel carcere in cui il soggetto si trova ristretto.
Tale verifica dovrà essere effettuata tenendo conto non solo della presenza di uno o più casi di soggetti positivi al Covid-19, ma anche dell’impossibilità di adottare le precauzioni volte ad impedire la diffusione del virus.
Ebbene, la Suprema Corte ha ritenuto che, in entrambi i casi, non sussistesse un rischio concreto di contagio e conseguentemente di pericolo per la vita degli imputati poiché in entrambi i penitenziari di Nuoro e Caltanissetta, in cui i ricorrenti si trovavano ristretti, non erano stati riscontrati casi di detenuti positivi e, d’altra parte, erano risultate efficaci le misure adottate in generale dal Governo per contenere la diffusione dei contagi nelle carceri.
3.2. Per quel che riguarda, invece, il motivo di ricorso relativo all’art. 3 del d.l. 10 maggio 2020 n. 29, la Corte osserva che tale intervento normativo non ha nulla a che vedere con il provvedimento impugnato, in cui viene richiamato solo ad abundantiam.
Ed infatti, nel caso di specie, il ripristino della custodia cautelare dopo la sua sostituzione con gli arresti domiciliari è il risultato dell’appello interposto dal PM e non trae in alcun modo origine dalle verifiche imposte allo stesso dalla richiamata normativa emergenziale.
Alla luce di tali motivazioni, entrambi i ricorsi vengono rigettati.
* * *
4. I due provvedimenti in commento offrono l’occasione per riflettere in generale sulla dimensione della tutela del diritto alla salute durante la fase cautelare e, più nello specifico, sul bilanciamento di tale diritto con le esigenze di sicurezza collettiva quando si tratti di imputati per associazione a delinquere di stampo mafioso.
La tutela del diritto alla salute dei soggetti privati della libertà personale, costituzionalmente garantita dall’art. 32 Cost., va inevitabilmente incontro ad un bilanciamento con le esigenze di tutela della collettività.
Le disposizioni che vengono in rilievo per quel che concerne la tutela dell’imputato affetto da una grave patologia sono essenzialmente l’art. 275 co. 4-bis, co.4-ter, co.4-quater, co.4-quinquies c.p.p.[7], nonché l’art. 11 co. 4 ord. pen.
Dalla lettura combinata di tali disposizioni emerge che non può essere disposta la custodia cautelare in caso di AIDS conclamata o di grave deficienza immunitaria accertata ai sensi dell’art. 286-bis co. 2 c.p.p. ovvero di altra malattia particolarmente grave che renda le condizioni di salute dell’imputato incompatibili con lo stato detentivo e comunque tali da non consentire adeguate cure in carcere.
Accertata la ricorrenza di tali presupposti, il giudice, può stabilire che l’imputato malato venga trasferito presso un penitenziario attrezzato a curare la patologia ovvero, qualora tale opzione risulti pregiudizievole per la sua salute, può disporre gli arresti domiciliari presso luogo di cura, di assistenza o di accoglienza (art. 275 co.4-ter c.p.p.)[8].
In alternativa, se risulta necessario effettuare cure e accertamenti che non possono essere effettuati dai servizi interni del carcere, deve essere disposto il trasferimento presso gli ospedali civili (art. 11 co. 4 ord. pen.).
La verifica relativa alla ricorrenza dei presupposti per applicare l’art. 275 c.p.p. o l’art. 11 è rimessa alla valutazione del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata[9].
Potrà comunque essere disposta la custodia cautelare in carcere qualora il soggetto destinatario di tali misure, dopo la loro applicazione, venga imputato o sottoposto ad altra misure cautelare per i reati previsti dall’art. 380 c.p.p.: in tal caso il soggetto dovrà essere collocato in un penitenziario che abbia un reparto attrezzato per la cura e l’assistenza necessaria (art. 275 co.4-quater c.p.p.)
Infine, ai sensi dell’art. 275 co. 4-quinquies c.p.p., prevale in ogni caso il divieto di custodia cautelare nel caso in cui la malattia si trovi in uno stato così avanzato da non rispondere più alle terapie disponibili, secondo quanto accertato dal servizio sanitario penitenziario o esterno.
5. Una notazione preliminare per quel che riguarda la denuncia d’illegittimità relativa all’art. 3 del d.l. 10 maggio 2020 n. 29, il cui contenuto è ora trasposto nel testo dell’art. 2-ter della legge n. 70 del 2020[10].
Correttamente la Corte ha ritenuto che si trattasse di una norma del tutto irrilevante nel caso di specie, visto che la revoca del provvedimento di sostituzione della custodia cautelare nel caso oggetto della sentenza n. 35012 era stata determinata esclusivamente dall’appello del PM e non traeva in alcun modo origine dalla richiamata normativa emergenziale.
In ogni caso, riteniamo importante sottolineare che, dopo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza del 24 novembre 2020 n. 245 in relazione all’art. 2-bis della l.70/2020, ci sembra che non possa sussistere più alcun dubbio circa la legittimità della disciplina di cui all’art. 2-ter l. 70/2020 in relazione all’art. 32 Cost.
All’epoca dell’esperimento dei ricorsi da cui traggono origine le sentenze della Cassazione in commento, la Corte costituzionale non si era ancora pronunciata sulle questioni di legittimità riguardanti l’art. 2 del d.l. 10 maggio 2020 n. 29, attualmente divenuto art. 2-bis della legge n. 70 del 2020, quindi poteva apparire ragionevole che il ricorrente richiamasse a sostegno del suo ragionamento le relative ordinanze di rimessione.
Ed infatti, secondo i giudici remittenti[11], l’art. 2 del d.l. 10 maggio 2020 n. 29 risultava in contrasto con l’art. 32 Cost. poiché la normativa emergenziale non imponeva al giudice, chiamato a valutare la sussistenza dei presupposti per la revoca di un provvedimento concesso per ragioni di salute, di acquisire, prima della decisione, la documentazione relativa allo stato di salute del detenuto, obbligandolo esclusivamente ad un’interlocuzione con le Procure antimafia.
Secondo quanto affermato dalla Corte, però, ciò non vuol dire che il giudice non possa acquisire d’ufficio informazioni relative allo stato di salute del detenuto ed inoltre disporre perizia ai sensi dell’art. 185 disp. att. c.p.p., motivo per cui ha ritenuto che le questioni fossero da ritenersi infondate anche sotto questo profilo[12].
Diversamente dall’art. 2-bis, l’art. 2-ter co. 2 prevede già espressamente che il giudice, che debba valutare la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari e non sia in grado di decidere allo stato degli atti, possa disporre anche d’ufficio e senza formalità accertamenti in ordine alle condizioni di salute dell’imputato o procedere a perizia, acquisendone i risultati entro i successivi 15 giorni, nel pieno rispetto quindi dell’art. 32 Cost.
6. Fatta questa breve premessa normativa e chiariti i dubbi di legittimità relativi all’art. 3 del d.l. 10 maggio 2020 n. 29, ora divenuto art. 2-ter della legge n. 70 del 2020, occorre rilevare che la ricerca di un soddisfacente equilibrio tra le opposte istanze di tutela della salute del singolo e di difesa della collettività può risultare particolarmente arduo nel caso in cui ci si trovi di fronte a soggetti che siano imputati per gravi reati, come quelli di mafia, e al contempo affetti da severe patologie, il cui trattamento all’interno del carcere può risultare oggi ancora più complesso alla luce dell’emergenza sanitaria in corso.
Com’è noto, l’art. 275 co. 3 c.p.p. stabilisce una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare nei confronti dei soggetti imputati per i delitti di cui all’art. 270, 270-bis e 416-bis c.p[13].
Non sarà forse superfluo ricordare che tale presunzione, però, non si contrappone ai divieti di applicazione della custodia cautelare, stabiliti dall’art. 275 co. 4 e co. 4-bis c.p.p., che, come ha avuto modo di chiarire la giurisprudenza, possono essere superati soltanto se ricorrono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, idonee a neutralizzare l’accertata incompatibilità con lo stato detentivo, che non possono quindi esclusivamente identificarsi con la contestazione all’imputato di uno dei delitti contemplati dal terzo comma dell’art. 275 c.p.p.[14].
Tanto chiarito, ci pare certamente condivisibile l’idea di considerare la misura domiciliare quale extrema ratio di fronte a soggetti imputati per gravi reati, che comportano un diffuso allarme sociale.
Al contempo, però, ci sembra che nei casi in esame la Corte finisca per tradire i presupposti da cui prende le mosse il suo ragionamento.
Ed infatti, dopo aver dichiarato che la valutazione della gravità delle condizioni di salute del detenuto e della loro conseguente incompatibilità con il regime carcerario deve essere effettuata sia in astratto, con riferimento ai parametri stabiliti dalla legge, sia in concreto, con riferimento alla situazione interna al penitenziario[15], la Corte arriva ad escludere che vi sia un’incompatibilità facendo esclusivo riferimento all’assenza di casi positivi all’interno dei penitenziari di Nuoro e di Caltanissetta e all’efficacia delle misure adottate in generale dal Governo, senza alcuna considerazione delle misure precauzionali in concreto adottate nelle singole carceri per impedire la diffusione del virus.
A nostro parere, quindi, ai fini della valutazione di concretezza dell’incompatibilità delle condizioni di salute del recluso con lo stato detentivo di fronte al rischio di contagio, non basta constatare l’assenza di casi positivi all’interno del carcere – dato quest’ultimo che può cambiare nel giro di pochissimo tempo – ma deve necessariamente essere verificata la situazione interna al penitenziario, tenendo conto delle specifiche misure precauzionali adottate, nel rispetto delle prescrizioni di legge, per garantire una distanza di sicurezza tra detenuti a rischio e, a maggior ragione, della possibilità che i detenuti più a rischio possano essere trasferiti presso altri istituti o strutture sanitarie più adeguate del circuito penitenziario[16].
In entrambi i casi si trattava di soggetti le cui condizioni di salute erano state valutate come compatibili con lo stato di detenzione in assenza del rischio di contagio da Covid-19.
Ci sembra, pertanto, che solo attraverso una verifica approfondita di ambedue le condizioni – assenza di casi postivi e adozione delle misure volte ad evitare il contagio – si possa aspirare a raggiungere quel faticoso equilibrio tra la tutela della salute di soggetti accusati di gravi reati e le esigenze di tutela della collettività dal reato.
Dalle statistiche presenti sul sito del Ministero della Giustizia, tra l’altro, emerge che al 30 giugno 2020 il carcere di Caltanissetta ospitava 207 detenuti a fronte di 180 posti regolamentari. È rimasto invariato il numero dei posti, ma i detenuti presenti sono aumentati a 213 ad ottobre 2020 e a 219 a novembre 2020.
Diversamente, nel carcere di Nuoro a giugno 2020 erano presenti 267 detenuti a fronte di 377 posti, ad ottobre 268 detenuti a fronte di 375 posti e a novembre 270 detenuti e i medesimi posti disponibili[17].
Da un lato, dunque, un carcere utilizzato al di sotto del limite della capienza regolamentare, mentre dall’altro un istituto sovraffollato.
Appare evidente che la situazione di sovraffollamento in cui versa il penitenziario di Caltanissetta – in cui sono presenti circa 40 detenuti in più rispetto ai posti disponibili – rappresenti di per sé un significativo ostacolo all’adozione delle misure anti-contagio, primo fra tutti il distanziamento sociale fra i reclusi[18].
Stupisce, pertanto, che la Corte non abbia in alcun modo tenuto in considerazione il problema, né avvertito l’esigenza di motivare sul punto.
Al netto quindi del mancato riferimento alla concreta situazione interna ai penitenziari, che conduce in ogni caso ad una valutazione solo parziale della concretezza del rischio di contagio, sorprende poi ancor di più il fatto che, di fronte a situazioni diverse, come quella dei due istituti presi in considerazione nelle pronunce, la Cassazione pervenga alla medesima conclusione.
[1] Nel caso oggetto della sentenza n. 35012 si trattava di un soggetto di 47 anni affetto da broncopolmonite di gravità alta e cardiopatia ischemica rivascolarizzata, recluso presso il carcere di Caltanissetta, mentre nel caso oggetto della sentenza n. 35013 si trattava di un soggetto di 61 anni affetto da ipertensione arteriosa severa, diabete di tipo 2 e lupus eritematoso cronico, recluso presso il penitenziario di Nuoro.
[2] Si tratta dell’attuale art. 2-ter della l. 25 giugno 2020 n. 70. Com’è noto, il d.l. 10 maggio 2020 n. 29 è stato formalmente abrogato dall’art. 3 della l. 25 giugno 2020 n. 70 ma il suo contenuto è stato trasposto, sotto forma di modifiche, nel testo del d.l. 10 maggio 2020 n. 28, convertito appunto nella legge n. 70 del 2020. L’art. 2-ter l. 70/2020 prevede che il PM rivaluti periodicamente (entro 15 giorni dall’adozione della misura e poi con cadenza mensile, a meno che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria comunichi la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta adeguati alle condizioni di salute dell'imputato) la permanenza dei motivi connessi all’emergenza sanitaria che hanno determinato la sostituzione della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari per gli imputati per gravi reati tra cui rientra l’art. 416-bis c.p., nonché di quelli sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen.; nel caso in cui risulti che sono mutate le condizioni che ne hanno determinato la sostituzione o risulti la disponibilità di strutture penitenziarie o di reparti di medicina protetta in grado di salvaguardare le condizioni di salute del soggetto imputato, l’organo dell’accusa è tenuto a chiedere il ripristino della misura custodiale.
[3] Si tratta dell’attuale art. 2-bis della l. 25 giugno 2020 n. 70.
[4] Oltre agli imputati per 416-bis c.p. e ai soggetti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen., sono presi in considerazione gli imputati per i delitti di cui agli artt. 270, 270-bis e 74, co. 1, T.U. stup., o per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l'associazione mafiosa o, infine, per i delitti commessi con finalità di terrorismo ai sensi dell'art. 270-sexies c.p.
[5] La questioni di costituzionalità relativa all’art. 2 del d.l. 10 maggio 2020 n. 29 è stata sollevata per la prima volta dal Magistrato di Sorveglianza di Spoleto con ordinanza del 26 maggio 2020, alla quale hanno fatto poi seguito le ordinanze del 3 giugno 2020 del Magistrato di sorveglianza di Avellino e quella del 9 giugno del Tribunale di sorveglianza di Sassari. Dopo la trasposizione dell’art. 2 del d.l. 10 maggio 2020 n. 29 nell’art. 2-bis del d.l. 10 maggio 2020 n. 28, poi convertito nella legge n. 70 del 2020, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha impugnato di nuovo tale normativa con l’ordinanza del 18 agosto 2020. Su tali questioni, com’è noto, si è pronunciata definitivamente la Corte costituzionale con sentenza del 24 novembre 2020, n. 245, che ha concluso per la loro infondatezza (la sentenza è pubblicata, con il relativo comunicato stampa, in questa Rivista); per un commento all’ordinanza del 26 maggio del Magistrato di Spoleto, si rinvia a M. Gialuz, Il d.l. antiscarcerazioni alla Consulta: c’è spazio per rimediare ai profili di illegittimità costituzionale in sede di conversione, in questa Rivista, 5 giugno 2020; per un commento alla seconda ordinanza del 18 agosto del Magistrato di Spoleto, si rinvia a J. Della Torre, Il Magistrato di sorveglianza di Spoleto non demorde: il “d.l. antiscarcerazioni” di nuovo alla Consulta, in questa Rivista, 23 settembre 2020).
[6] Viene richiamata, in particolare, Cass. Sez. 6, sentenza n. 34433 del 15/07/2010, Rv. 248166.
[7] Tale assetto è il risultato della legge n. 231 del 12 luglio 1999, intervenuta a riordinare la materia dopo che la Corte costituzionale con la sentenza del 18 ottobre 1995 n. 439 aveva dichiarato l’illegittimità dell’art. 286-bis co. 1 c.p.p. Tale norma, infatti, stabiliva un divieto assoluto di applicare la custodia cautelare nei confronti dei soggetti ammalati di AIDS, indipendentemente quindi dall’accertata sussistenza di esigenze cautelari eccezionalmente rilevanti e dell’applicabilità della misura senza pregiudizio per la salute dell’imputato. Diversamente, l’art. 275 co. 4 c.p.p. disciplinava altre situazioni di incompatibilità con lo stato detentivo – tra cui rientrava quella del “soggetto che si trovi in condizioni di salute particolarmente gravi incompatibili con lo stato di detenzione” – stabilendo, però, che in presenza di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza potesse essere applicata comunque la custodia cautelare. Secondo la Consulta, tale assetto risultava in contrasto con l’art. 3 Cost. Con la legge n. 231 del 1999 il legislatore ha operato una distinzione tra le diverse situazioni che possono determinare un’incompatibilità con lo stato detentivo, disciplinando all’art. 275 co. 4 le condizioni fisiologiche e ai successivi commi 4-bis, co.4-ter, co.4-quater, co.4-quinquies le condizioni patologiche, in cui vengono disciplinate allo stesso modo i casi di AIDS e altra grave deficienza immunitaria e le ipotesi di altre malattie particolarmente gravi. Cfr., sul punto, N. Rombi, Articolo 275 c.p.p., in A. Giarda – G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, Tomo I, V ed., 2017, pagg. 2861 ss.
[8] Per quel che riguarda i soggetti affetti da AIDS conclamata o da grave deficienza immunitaria, il co. 4-ter dell’art. 275 c.p.p. stabilisce che “gli arresti domiciliari possono essere disposti presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell'assistenza ai casi di AIDS, ovvero presso una residenza collettiva o casa alloggio di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 5 giugno 1990, n. 135”.
[9] G. Mantovani – A. Bernasconi, Articolo 11 ord. pen., in F. Della Casa – G. Giostra (a cura di), Ordinamento penitenziario commentato, VI ed., 2019, pagg. 125 ss.
[10] Il contenuto del d.l. 10 maggio 2020 n.29 è stato formalmente abrogato dall’art. 3 della l. 25 giugno 2020 n. 70 ma il suo contenuto è stato trasposto, sotto forma di modifiche, nel testo del d.l. 10 maggio 2020 n. 28, convertito appunto nella legge n. 70 del 2020. Occorre ricordare, infatti, che l’art. 2 del d.l. 30 aprile 2020 n. 28 è il primo intervento normativo con cui il legislatore ha imposto delle cautele nella concessione della detenzione domiciliare umanitaria e dei permessi premio nei confronti dei detenuti sottoposti al regime del carcere duro, nonché ai condannati per uno dei reati previsti dall’art. 51 co.3-bis e co.3-quater c.p.p. Per un approfondimento dei profili critici determinati da siffatta normativa, si rinvia ad A. Della Bella, Emergenza Covid e 41-bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in questa Rivista, 1 maggio 2020; per l’analisi delle singole modifiche apportate in sede di conversione, si rinvia ad A. Cabiale, Covid e "scarcerazioni": diventano legge, con alcune novità, i contenuti dei dd.ll. nn. 28 e 29 del 2020, in questa Rivista, 13 luglio 2020.
[11] Il riferimento è, in particolare, all’ordinanza del 3 giugno 2020 del Magistrato di sorveglianza di Avellino e quella del 9 giugno 2020 del Tribunale di sorveglianza di Sassari; per un commento di quest’ultima, si rinvia ad A. Cabiale, Un’altra questione di legittimità costituzionale si abbatte sul d.l. antiscarcerazioni: questa volta entra in gioco il diritto alla salute, in Sistema penale, 10 giugno 2020.
[12] Cfr., in particolare, par. 9.1 e 9.2 del considerato in diritto della sentenza 245/2020.
[13] La legittimità della presunzione assoluta di adeguatezza della solo custodia cautelare in carcere per gli imputati per i delitti di cui all’art. 275 co. 3 c.p.p. è stata ribadita di recente dalla Corte costituzionale, con la sentenza del 31 luglio 2020, n. 191 (Pres. Cartabia, Red. Viganò). Per un commento di tale pronuncia, sia consentito rinviare a C. Cataneo, Legittima la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere per l’associazione con finalità di terrorismo, in questa Rivista, 23 novembre 2020.
[14] Cfr. Cass. Pen., sez. I, 13/02/2003, (ud. 13/02/2003, dep. 13/03/2003), n.11965.
[15] Cfr., Cass. Pen., sez. 6, sentenza n. 34433 del 15/07/2010; Cass. Pen., sez. 6, sentenza n. 25706 del 15/06/2011.
[16] Cfr. Cass. Pen. sez. 6, sentenza 7 ottobre 2020 n. 27917.
[17] Cfr., Ministero della giustizia, sezione Statistiche, Detenuti italiani e stranieri presenti e capienze per istituto – aggiornamento al 31 giugno; aggiornamento al 31 ottobre 2020; aggiornamento al 31 novembre.
[18] Mettono in luce questa circostanza G.L. Gatta, Carcere e coronavirus: che fare, in questa Rivista, 12 marzo 2020; P. Gonnella, Coronavirus. Sulle carceri insufficienti le norme previste nel decreto del governo. Sono necessari altri provvedimenti, altrimenti a rischio la salute pubblica, in Associazione Antigone, 18 marzo 2020; E. Dolcini – G. L. Gatta, Carcere, coronavirus, decreto ‘cura Italia’: a mali estremi, timidi rimedi, in questa Rivista, 20 marzo 2020; G. Giostra, Disinnescare in modo sano la bomba-virus nelle carceri, in questa Rivista, 22 marzo 2020; A. Della Bella, La magistratura di sorveglianza di fronte al COVID: una rassegna dei provvedimenti adottati per la gestione dell’emergenza sanitaria, in questa Rivista, 29 aprile 2020; C. Minnella, Coronavirus ed emergenza carceri: la via del ricorso alla Corte di Strasburgo, in questa Rivista, 15 maggio 2020.