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02 Marzo 2022


La Cassazione sulla disciplina penale in materia di reddito di cittadinanza: cause di riduzione del beneficio e sequestrabilità delle somme di denaro

Cass., Sez. III, sent. 25 novembre 2021 (dep. 14 gennaio 2022), n. 1351, Pres. Petruzzellis, Rel. Semeraro, ric. Lacquaniti



1. Con la sentenza in commento, la Suprema Corte di Cassazione – chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del sequestro delle somme ritenute costituenti il profitto del delitto di cui all’art. 7, comma 2 del decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 – ha delineato i confini della predetta fattispecie criminosa, ritenendola integrata nell’ipotesi di omessa comunicazione da parte del percettore del reddito di cittadinanza del sopravvenuto stato di detenzione di uno dei componenti del nucleo familiare.

La vicenda trae origine dal decreto di sequestro preventivo finalizzato alla confisca delle somme di denaro presenti sul libretto postale dell’indagato disposto dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Vibo Valentia in quanto tali somme venivano ritenute costituenti il profitto dei reati di cui all’art. 7, commi 1 e 2, d.l. n. 4/2019.

Avverso tale decreto l’indagato proponeva richiesta di riesame ai sensi dell’art. 322 c.p.p. la quale veniva in seguito rigettata. Avverso l’ordinanza di rigetto, il difensore dell’indagato proponeva ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 325 c.p.p., deducendo i vizi di violazione di legge e di contraddittorietà della motivazione con riferimento alla consumazione del reato da parte dell’indagato nonché i vizi di violazione di legge e di mancanza di motivazione in relazione ai presupposti, ritenuti assenti dalla difesa, necessari per poter disporre il sequestro delle somme di denaro rinvenute sul libretto di risparmio postale dell’indagato.

 

2. Il reddito di cittadinanza è stato introdotto, come noto, dal decreto-legge 28 gennaio 2019, n. 4 e costituisce una recente misura di politica attiva del lavoro finalizzata, come affermato dallo stesso legislatore nell’art. 1 del citato testo normativo, al contrasto della povertà, della disuguaglianza e dell’esclusione sociale.

Il reddito di cittadinanza è riconosciuto ai nuclei familiari che siano in possesso cumulativamente, al momento della presentazione della relativa richiesta e per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, dei requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno nonché dei requisiti reddituali, patrimoniali e relativi al godimento di beni durevoli previsti dall’art. 2, d.l. n. 4/2019[1], sempre che i componenti maggiorenni del nucleo familiare esprimano la loro disponibilità immediata al lavoro e aderiscano al percorso personalizzato di accompagnamento all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale nei termini e con gli esoneri previsti dall’art. 4 del citato decreto.

Il componente del nucleo familiare che risulti in possesso dei requisiti previsti dalla disciplina può presentare una istanza nelle modalità indicate dall’art. 5, d.l. n. 4/2019 previo rilascio della certificazione ISEE, eventualmente elaborata sulla base dei dati indicati dal richiedente nella dichiarazione sostitutiva unica (DSU)[2]. A seguito della presentazione della richiesta, prende avvio un procedimento amministrativo al termine del quale l’INPS, verificato il possesso dei requisiti richiesti, riconosce all’istante il beneficio economico per il quale è stata avanzata la richiesta. L’attività amministrativa che ne origina deve ritenersi «vincolata», dovendo l’amministrazione limitarsi al «mero riscontro tra quanto dichiarato nella domanda […] e quanto previsto nel dettato normativo»[3].

Alla luce di quanto appena esposto, ben si comprendono le ragioni che hanno spinto il legislatore a prevedere, nella cornice rappresentata dal d.l. n. 4/2019, un congruo apparato sanzionatorio che vada a punire la condotta di chi renda o utilizzi dichiarazioni o documenti falsi nonché quella di chi ometta di comunicare informazioni dovute.

Se da una parte quindi il legislatore ha inteso semplificare il procedimento amministrativo e la sottesa attività di controllo demandata all’INPS, dall’altra parte non si è dimostrato insensibile ai pericoli che possono derivare da tale scelta, giungendo anche a sanzionare penalmente comportamenti frodatori che possono invero interessare sia il momento della presentazione dell’istanza e della conseguente ammissione al beneficio sia il successivo periodo di percezione dello stesso.

 

3. I commi 1 e 2 dell’art. 7, d.l. n. 4/2019, rubricato giustappunto «Sanzioni», hanno infatti introdotto due fattispecie criminose, cui parte della dottrina ha fatto riferimento nei termini rispettivamente di «reato di falso inteso all’ottenimento» del reddito di cittadinanza e «reato di falso inteso al mantenimento» del reddito di cittadinanza[4]. Tale denominazione è esplicativa della volontà del legislatore di ricorrere alla sanzione penale tanto nelle ipotesi in cui l’utilizzazione di dichiarazioni o dei documenti falsi ovvero l’omessa comunicazione di informazioni dovute avvengano nella fase genetica e, quindi, siano tese all’ottenimento del reddito di cittadinanza, quanto in quelle in cui il percettore del reddito di cittadinanza, attraverso l’omessa comunicazione, evita di incorrere nella revoca o nella riduzione del beneficio economico.

Si tratta di due reati di condotta e di pericolo, finalizzati a tutelare l’amministrazione contro le dichiarazioni mendaci e le omissioni circa la reale situazione reddituale e patrimoniale da parte dei soggetti che intendono accedere ovvero hanno già acceduto al reddito di cittadinanza[5]. Dunque, indiscussa sembra essere la natura plurioffensiva di entrambe le fattispecie[6]; i beni giuridici tutelati dalle norme incriminatrici qui in considerazione possono agilmente individuarsi difatti nella fede pubblica, nel patrimonio pubblico[7] e anche nel buon andamento della amministrazione nella corretta erogazione delle risorse pubbliche[8].

Le figure di reato in questione si contraddistinguono inoltre per la elevata risposta sanzionatoria[9], specie se raffrontata con altre ipotesi criminose rinvenibili nel diritto vigente, quali i delitti di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter c.p. e di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’art. 640-bis c.p.[10]

 

3.1 Più nello specifico, salvo che il fatto costituisca più grave reato, risponde del delitto previsto dall’art. 7, comma 1, d.l. n. 4/2019 il soggetto che, al fine di ottenere indebitamente il reddito di cittadinanza, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute. Si tratta di una fattispecie piuttosto ampia, comprensiva di ogni falsità e omissione riguardante i requisiti stabiliti per l’ottenimento del reddito di cittadinanza[11], caratterizzata dal dolo specifico: l’agente deve perseguire infatti la finalità di ottenere indebitamente il beneficio economico qui in considerazione. Ne deriva pertanto che, almeno secondo taluni, non risponde del reato in esame, proprio per carenza di quest’ultimo requisito, il soggetto che – seppur abbia reso o utilizzato dichiarazioni o documenti falsi ovvero abbia omesso di comunicare informazioni rilevanti – sia tuttavia in possesso dei requisiti normativamente previsti per la legittima percezione del beneficio[12]. Tuttavia, l’orientamento emerso nelle prime applicazioni giurisprudenziali sembra valorizzare l’implicito collegamento tra l’incriminazione in parola e il dovere di lealtà del cittadino verso le Istituzioni e, in questa prospettiva, ritiene applicabili le fattispecie di cui all’art. 7, d.l. n. 4/2019 indipendentemente dall’accertamento della effettiva sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l’ammissione al beneficio, escludendo in nuce che la disposizione in esame lasci al cittadino la scelta su cosa comunicare all’amministrazione ovvero cosa omettere[13].

 

3.2 Quanto invece al reato previsto dal secondo comma dell’art. 7, d.l. n. 4/2019 e che più interessa ai fini del presente commento, esso si consuma con l’omessa comunicazione delle variazioni reddituali o patrimoniali, anche se provenienti da attività irregolari, nonché con l’omessa comunicazione di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all’art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11.

Anche quest’ultima fattispecie criminosa ha natura istantanea, tuttavia la sua consumazione coincide con la scadenza dei termini, previsti nelle disposizioni cui viene fatto rinvio, per la comunicazione all’amministrazione delle cause di revoca o riduzione[14]. Diversamente dal reato di cui al comma 1 del citato art. 7, per l’integrazione del delitto qui in considerazione è richiesto il solo dolo generico.

La normativa prevede che i requisiti stabiliti per l’accesso alla misura del reddito di cittadinanza debbano sussistere cumulativamente al momento della presentazione della relativa istanza e in costanza della successiva erogazione. Occorre sottolineare che nella disciplina vigente il beneficiario del reddito di cittadinanza non corrisponde all’individuo che abbia presentato la richiesta, piuttosto deve individuarsi nel nucleo familiare di cui l’istante faccia parte. Si comprende che le informazioni suscettibili di rilevare ai fini della revoca o della riduzione del beneficio non riguardano esclusivamente il richiedente ma tutti i componenti del relativo nucleo. Inoltre, la stessa entità del beneficio economico si compone di una parte ad integrazione del reddito familiare che, a sua volta, dipende dal numero dei componenti, e da un’ulteriore parte ad integrazione del reddito dei nuclei familiari che siano residenti in abitazioni in locazione. Pertanto, molteplici sono le variazioni che, pur non riguardando direttamente il richiedente, possono tuttavia incidere sul diritto alla percezione e sull’ammontare del reddito di cittadinanza.

Per questi motivi, le disposizioni di cui ai commi 8, ultimo periodo, 9 e 11 dell’art. 3, d.l. n. 4/2019, richiamate dall’art. 7, comma 2 del citato decreto, prevedono l’obbligo per il beneficiario di comunicare all’amministrazione le eventuali variazioni occupazionali nelle forme dell’avvio di un’attività di lavoro dipendente (art. 3, comma 8) e dell’avvio di un’attività di impresa o di lavoro autonomo (art. 3, comma 9) da parte di uno o più componenti del nucleo familiare nonché le variazioni patrimoniali che comportino la perdita dei requisiti per l’accesso al beneficio (art. 3, comma 11).

Quanto ai termini entro cui tali variazioni devono essere comunicate all’amministrazione per non incorrere nel reato di cui al citato art. 7, comma 2, la disposizione di cui all’art. 3, comma 8 prevedeva – prima delle modifiche disposte in sede di conversione del decreto-legge – il termine di 30 giorni per comunicare all’INPS l’avvio dell’attività di lavoro dipendente. Nella formulazione vigente, risultante dalle modifiche apportate dalla legge di conversione, scompare il riferimento al termine suddetto e viene genericamente previsto che «l'avvio dell'attività di lavoro dipendente è comunque comunicato dal lavoratore all'INPS secondo modalità definite dall'Istituto, che mette l'informazione a disposizione delle piattaforme di cui all'articolo 6, comma 1»

Quanto invece alle variazioni relative all’avvio di un’attività di lavoro autonomo o d’impresa, l’art. 3, comma 9 nella sua versione originaria prevedeva il termine di 30 giorni dall’inizio della suddetta attività. A seguito delle modifiche apportate recentemente dalla legge 30 dicembre 2021, n. 234, l’avvio delle attività di lavoro autonomo o d’impresa deve essere comunicato all’INPS entro il giorno antecedente all’inizio delle stesse. Infine, la disposizione di cui all’art. 3, comma 11 prevede il termine di 15 giorni per la comunicazione di ogni variazione patrimoniale che comporti la perdita dei requisiti patrimoniali di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), n. 2) e lett. c.).

Ne deriva una articolata disciplina rispetto alla quale, volendo tralasciare le criticità legate alla mancata previsione nella formulazione vigente di un termine per le comunicazioni riguardanti l’avvio di un’attività di lavoro dipendente, la questione ermeneutica più complessa e rilevante è relativa alla tipicità delle cause di revoca o di riduzione del beneficio.

Come si è già avuto modo di esporre, il citato art. 7, comma 2 contiene un rinvio alle sole disposizioni di cui ai commi 8, ultimo periodo, 9 e 11 che, come esposto, individuano talune condizioni legate alla situazione occupazionale e ai requisiti patrimoniali dei beneficiari che, in quanto suscettibili di comportare la revoca o la riduzione del beneficio erogato, sono oggetto dell’obbligo di comunicazione all’amministrazione competente.

La questione che si pone è se tale rinvio debba essere inteso nel senso che le cause di revoca e di riduzione suscettibili di comportare la responsabilità del richiedente in caso di omessa comunicazione siano le sole previste dalle disposizioni richiamate dalla norma incriminatrice ovvero se una diversa interpretazione volta a ricomprendervi anche altre cause possa ritenersi comunque rispettosa del principio di legalità e di tipicità della fattispecie. Quest’ultimo quesito, risolto dalla Suprema Corte nella sentenza in commento, assume una rilevanza notevole alla luce della disciplina complessiva del reddito di cittadinanza, posto che sono rinvenibili nel dato normativo e, specificatamente, nel comma 13 del citato art. 3 delle indicazioni che introducono altre cause di riduzione del beneficio, rispetto alle quali si pone la necessità di stabilire, in via ermeneutica, se l’omessa comunicazione della loro sopravvenienza possa comportare la responsabilità del beneficiario ai sensi dell’art. 7, comma 2, d.l. n. 4/2019.

 

4. In effetti, l’art. 3, comma 13, d.l. n. 4/2019, pur non essendo richiamato dal citato art. 7, comma 2, prevede che nelle ipotesi in cui il nucleo familiare beneficiario della misura abbia tra i suoi componenti soggetti che si trovino in stato detentivo, ovvero siano ricoverati in istituti di cura di lunga degenza o altre strutture residenziali a totale carico dello Stato o di altra amministrazione pubblica, il parametro della c.d. scala di equivalenza di cui all’art. 3, comma 1, lett. a) non debba tener conto di tali soggetti. Come si è già esposto, l’ammontare di una delle due componenti del reddito di cittadinanza dipende dal numero dei componenti del nucleo familiare e la c.d. scala di equivalenza di cui all’art. 2, comma 4 altro non è che il parametro che permette di adeguare la componente del reddito di cittadinanza di cui all’art. 3, comma 1, lett. a) alla articolazione del nucleo familiare. Non dovendosi computare nel parametro anzidetto il membro che si trovi nelle condizioni indicate, la sopravvenienza di queste ultime comporta necessariamente una riduzione del beneficio.

In sede di conversione del decreto-legge, è stato inoltre previsto che la medesima riduzione del parametro della c.d. scala di equivalenza debba applicarsi anche nelle ipotesi in cui un componente del nucleo familiare sia sottoposto a misura cautelare ovvero abbia riportato una condanna per taluno dei reati previsti dall’art. 7, comma 3, d.l. n. 4/2019[15]. Con riferimento a queste ultime ipotesi, il dato normativo parla espressamente di una «riduzione del parametro della scala di equivalenza», risultando pacifico che l’effetto che si produrrà nell’ipotesi di sopravvenienza di tali condizioni consiste nella riduzione del suddetto parametro e quindi, in ultimis, del beneficio erogato.

In sede di conversione del decreto-legge è stato inoltre introdotto l’art. 7-ter che disciplina la sospensione del reddito di cittadinanza nei confronti del richiedente o del beneficiario al quale sia applicata una misura cautelare personale, adottata anche a seguito di convalida dell’arresto o del fermo, ovvero sia condannato con sentenza non definitiva per uno dei reati di cui all’art. 7, comma 3, d.l. n. 4/2019. La medesima sospensione si applica anche a colui che è stato dichiarato latitante ai sensi dell’art. 296 c.p.p. ovvero a colui che si è volontariamente sottratto all’esecuzione della pena. La sospensione, in tali casi, opera «nel limite e con le modalità di cui all’art. 3, comma 13».

Tra i requisiti previsti per l’accesso al beneficio, l’art. 2, comma 1, lett. c-bis), d.l. n. 4/2019 annovera, per il richiedente del beneficio, la mancata sottoposizione a misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida dell’arresto o del fermo, nonché la mancanza di condanne definitive nei dieci anni precedenti alla richiesta per uno dei reati di cui all’art. 7, comma 3. Ne consegue che la sospensione del beneficio rappresenta la conseguenza del venire meno di uno dei requisiti stabiliti per l’ammissione alla misura stessa. La sospensione, come anticipato, opera nei limiti e con le modalità di cui al citato art. 3, comma 13. Pertanto, qualora la condanna per uno dei reati richiamati ovvero la misura cautelare sopraggiungano nei confronti di uno dei componenti del nucleo familiare durante il periodo di percezione del beneficio, nel calcolo del parametro della c.d. scala di equivalenza non dovrà tenersi conto di quest’ultimo[16], derivandone quindi una riduzione del beneficio[17]. Dunque, sembrerebbe che, nonostante la diversa terminologia, quando le condizioni di cui al citato art. 7-ter si verifichino con riferimento ad uno dei componenti del nucleo familiare diverso dal richiedente/beneficiario del sussidio, l’effetto apprezzabile è descrivibile, più propriamente, nei termini di una conseguente riduzione del beneficio.

In definitiva, il sopravvenuto stato detentivo, al pari del ricovero in strutture a totale carico dello Stato e delle ipotesi di riduzione introdotte in sede di conversione, non comporta la revoca del beneficio, piuttosto integra una causa di riduzione dello stesso, posto che non si dovrà computare il componente che si trovi nelle descritte condizioni nel calcolo del parametro della c.d. scala di equivalenza da cui, giova ricordare, dipende la componente del reddito di cittadinanza di cui all’art. 3, comma 1, lett. a).

 

5. Nel caso di specie, l’indagato aveva omesso di comunicare il sopraggiunto stato di detenzione del figlio, il quale era stato raggiunto da un’ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere. Posto che, come visto in precedenza, il sopravvenuto stato detentivo di un componente del nucleo familiare comporta la riduzione del beneficio, l’indagato – in qualità di richiedente del reddito di cittadinanza – avrebbe dovuto comunicare tale condizione sopravvenuta all’amministrazione competente.

La Suprema Corte rigetta il ricorso per cassazione proposto avverso l’ordinanza di rigetto del Tribunale del riesame, ritenendo infondati i vizi dedotti dalla difesa dell’indagato[18].

Ad avviso della Corte di Cassazione, il Tribunale del riesame avrebbe correttamente ricondotto la sopravvenienza dello stato detentivo del figlio dell’indagato non ad una causa di revoca del reddito di cittadinanza, piuttosto ad una causa di riduzione del beneficio ex art. 3, comma 13, d.l. n. 4/2019.

Più nello specifico, i giudici di legittimità hanno individuato la condotta rilevante ex art. 7, comma 2, d.l. n. 4/2019 nell’omessa comunicazione di una informazione dovuta e rilevante ai fini della revoca o riduzione del reddito di cittadinanza, senza che il rinvio contenuto nella disposizione in esame alle sole disposizioni di cui all’art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11 possa essere inteso nel senso di limitare i casi di riduzione ai soli previsti dalle suddette disposizioni.

Secondo la Corte, il rinvio contenuto nell’art. 7, comma 2, d.l. n. 4/2019 è disposto soltanto in relazione ai termini entro cui il richiedente è chiamato a comunicare le cause di riduzione all’amministrazione per non incorrere nel reato previsto dalla medesima disposizione. Appare evidente che la Corte di Cassazione, nella sentenza qui in considerazione, non rilevi alcun vulnus in punto di legalità e di tipicità della fattispecie penale nell’interpretazione proposta la quale, facendo uso dell’argomento sistematico, finisce per ricomprendere nell’ambito di applicazione della norma incriminatrice di cui al citato art. 7, comma 2 anche ipotesi di comunicazione di informazioni doverose diverse da quelle di cui ai commi dell’art. 3 poco sopra menzionati.

Al contrario, secondo i giudici di legittimità, l’interpretazione volta a limitare i casi di riduzione ai soli previsti dalle norme richiamate dal citato art. 7, comma 2 apparirebbe «irrazionale» (p. 5) in quanto non prenderebbe in considerazione la sussistenza di altre cause di riduzione del beneficio aggiuntive rispetto a quelle previste dai commi richiamati a cui già fa riferimento la prima parte della norma incriminatrice che, giova ricordare, incrimina espressamente l’omessa comunicazione delle variazioni del reddito e del patrimonio. Dunque, quest’ultima interpretazione produrrebbe l’effetto di abrogare parte della norma incriminatrice.

Diversamente, l’interpretazione proposta dalla Corte di Cassazione avrebbe l’effetto di valorizzare il collegamento sistematico con la disciplina extrapenale contenuta negli articoli precedenti e regolante le ipotesi di revoca e riduzione del beneficio economico, senza tuttavia incidere – almeno a parere della Suprema Corte – sulla tipicità della fattispecie penale.

L’interpretazione fornita dalla Corte sembra risultare aderente al senso «fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse», come impone l’art. 12 delle Preleggi. La condotta incriminata dal citato art. 7, comma 2 è infatti individuata nell’omessa comunicazione delle informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione entro i termini di cui all’art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, cosicché appare coerente con il tenore testuale della disposizione qui in rilievo l’opzione ermeneutica secondo cui il rinvio presente nella norma incriminatrice operi soltanto con riferimento all’individuazione dei termini previsti per la doverosa comunicazione all’amministrazione competente delle predette informazioni. Pertanto, l’implicito collegamento con la disciplina extrapenale della revoca e della riduzione del beneficio, messo in luce dall’interpretazione sistematica della norma, garantirebbe comunque il rispetto del principio di legalità.

Infine, la Suprema Corte sembra sottolineare ad abundantiam, che la presenza di ulteriori cause di riduzione trovi conferma anche nello stesso testo del citato art. 3, comma 13, oltre che discendere implicitamente dall’obbligo di persistenza, per tutta la durata dell’erogazione del beneficio, delle condizioni relative all’an e al quantum del beneficio, sancito in via generale dall’art. 2, comma 1, d.l. n. 4/2019.

Ne deriverebbe la necessità di individuare le «altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca e della riduzione del beneficio» alla luce dell’intera disciplina contenuta nel d.l. n. 4/2019, non potendo prescindere dalle indicazioni normative poc’anzi evidenziate.

In definitiva, l’interpretazione cui aderisce la Corte di Cassazione sembrerebbe essere quella derivante già dall’interpretazione letterale della norma incriminatrice di cui al citato art. 7, comma 2 la quale si rafforza e acquista maggiore autorevolezza in quanto suffragata dall’esisto cui si giunge attraverso una interpretazione sistematica del dato normativo[19], imposta quest’ultima da imprescindibili esigenze di coerenza, non contraddizione e di unità concettuale dell’ordinamento.

A ben vedere, la questione giuridica sottesa è relativa alla compatibilità di una interpretazione sistematica del dato normativo con il principio di legalità e con il conseguente divieto di analogia in malam partem.

L’applicazione della norma di cui all’art. 7, comma 2, d.l. n. 4/2019 anche nei casi di omessa comunicazione di cause di riduzione ulteriori rispetto a quelle previste dalle disposizioni di cui all’art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11 risulta rispettosa del principio di tassatività?

Esso, come noto, non consente di «riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suo possibili significati letterali» costituendo «un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo».[20] Dunque, la linea di confine tra interpretazione estensiva, cui si giunge eventualmente attraverso il criterio logico-sistematico, e l’interpretazione analogica, vietata se in malam partem, deve individuarsi proprio nel tenore testuale della disposizione interpretata[21], cosicché costituisce applicazione analogica la sola interpretazione che oltrepassi «la massima estensibilità interpretativa del testo di legge»[22].

Come esposto in precedenza, l’interpretazione proposta nella sentenza in commento che intende riferire il rinvio contenuto nella disposizione di cui al citato art. 7, comma 2 ai soli termini entro cui comunicare le sopravvenute condizioni di revoca o riduzione ci sembra riconducibile a una delle opzioni ermeneutiche a disposizione dei giudicanti dinanzi al testo normativo.

Ne deriva che, limitando il rinvio ai soli termini, il riferimento presente nella norma incriminatrice alle «altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio» costituisce a tutti gli effetti un elemento normativo che sottintendendo un nesso sistematico con la disciplina extrapenale, nel caso di specie contenuta nello stesso d.l. n. 4/2019, – necessita per la determinazione del suo contenuto di un procedimento di etero-integrazione[23], da svolgersi mediane il rinvio alle norme che individuano le condizioni sopravvenute da comunicare all’amministrazione competente, tra cui indubbiamente l’art. 3, comma 13 del d.l. n. 4/2019.

Residua, a questo punto, l’individuazione del termine entro cui il richiedente risulta tenuto a comunicare all’amministrazione competente le cause di revoca e riduzione diverse da quelle previste dalle disposizioni cui viene fatto rinvio nella norma incriminatrice.

L’art. 3, comma 8, ultimo periodo, d.l. n. 4/2019 prevede, come anticipato, che l’avvio di un’attività di lavoro dipendente debba essere comunicata «dal lavoratore all’INPS secondo le modalità definite dall’Istituto […]», rimettendo a quest’ultimo l’individuazione di termini e modalità[24].

Prima dell’entrata in vigore delle modifiche apportate dalla legge n. 234/2021 al testo dell’art. 3, comma 9, d.l. n. 4/2019, la variazione della condizione occupazionale nella forma dell’avvio di un’attività d’impresa o di lavoro autonomo doveva essere comunicata entro 30 giorni mentre, a seguito delle modifiche anzidette, deve essere comunicata entro il giorno antecedente al suo inizio. Infine, per le variazioni patrimoniali comportanti la perdita dei requisiti di cui all’art. 2, comma 1, lett. b), n. 2) e lett. c), il citato art. 3, comma 11 prevede il termine di 15 giorni.

La Corte di Cassazione, nella sentenza qui in commento, dopo aver esposto la disciplina dei termini poc’anzi riassunta – senza tuttavia prendere in considerazione le modifiche apportate dalla legge n. 234/2021, probabilmente in quanto introdotte successivamente alla data dell’udienza e quindi certamente non vigenti all’epoca dei fatti – conclude affermando che «Per tutte le altre comunicazioni, su cause di revoca o riduzione, si applica il termine di 15 giorni previsto dall’art. 3, comma 11» (p. 5).

Considerando la disciplina ad oggi vigente, risultante appunto dalle modifiche in vigore dal 1 gennaio 2022, non sembrerebbe porsi alcun problema quanto alla individuazione del termine applicabile nelle ipotesi di comunicazione delle «altre informazione dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio» ex art. 7, comma 2, d.l. n. 4/2019.

Difatti, esclusa l’applicabilità del termine di cui all’art. 3, comma 8, ultimo periodo, la cui determinazione invero è demandata all’INPS, l’altro termine astrattamente applicabile è quello previsto dal citato art. 3, comma 9. Tuttavia, a seguito delle anzidette modifiche, sembrerebbe che neppur tale termine possa trovare applicazione nelle ipotesi di cui all’art. 3, comma 13, posto che il sopravvenuto stato detentivo – al pari delle altre condizioni individuate dalla disposizione – non potrebbe mai essere comunicato dal beneficiario «entro il giorno antecedente all’inizio», come invece prescrive il vigente art. 3, comma 9 con riferimento all’avvio di un’attività di lavoro autonomo o d’impresa.

Di riflesso, le considerazioni svolte sembrano portare a ritenere che, dei tre commi richiamati dalla norma incriminatrice, l’unico a prevedere un termine applicabile anche nelle ipotesi di sopraggiunto stato detentivo ovvero nelle altre previste dal citato art. 3, comma 13 sia il termine di 15 giorni previsto dall’art. 3, comma 11, così come peraltro individuato dalla Corte.

Più problematica appariva invero l’individuazione del termine sotto la vigenza della previgente formulazione del citato art. 3, comma 9. La previsione da parte delle norme richiamate dall’art. 7, comma 2 di due termini astrattamente applicabili, quello di cui all’art. 3, comma 9, pari a 30 giorni e quello di cui all’art. 3, comma 11, pari a 15 giorni, non rende univoca l’individuazione del termine entro cui comunicare tutte le altre cause di revoca o di riduzione, sembrando doversi optare per la soluzione più favorevole per il soggetto.

Rimane comunque il dato del ricorso da parte del legislatore a una complessiva tecnica di formulazione del precetto che certo non brilla per rispetto del principio di precisione. Ciò vale per la prima parte della disposizione – ove si fa riferimento, accanto alle variazioni del reddito o del patrimonio, alle attività irregolari – rispetto alla quale non erano mancate osservazioni critiche nel dossier predisposto dagli uffici della Camera dei Deputati[25], ma vale altresì per la previsione specifica qui in esame.

La formulazione adoperata, nella misura in cui non pare limitare le informazioni a quelle di cui ai commi 8, ultimo periodo, 9 e 11 dell’art. 3, richiede al consociato un tutt’altro che agevole sforzo di ricostruzione dei contenuti del precetto, dovendo costui ricercare all’interno del d.l. n. 4 del 2019 tutte le circostanze rilevanti ai fini della perdita e della riduzione del beneficio, per poi identificare il termine di comunicazione contemplato adesso dal solo comma 11 del citato art. 3. In un contesto in cui il cittadino dovrebbe essere in grado di cogliere, sulla base della tecnica normativa utilizzata, che il rinvio ai più volte richiamati commi dell’art. 3 vale esclusivamente sul piano della individuazione dei termini entro cui comunicare le «altre informazioni dovute e rilevanti».

Insomma, ci pare che vi sia più di qualche base affinché si possa invocare, a certe condizioni, da parte del cittadino il positivo affidamento circa la carenza di un obbligo di comunicazione della tipologia di informazioni qui in rilievo.

 

6. I giudici di legittimità si soffermano infine sui presupposti, ritenuti sussistenti nel caso di specie, necessari per poter disporre il sequestro preventivo finalizzato alla confisca delle somme rinvenute sul libretto di risparmio postale dell’indagato.

Secondo la difesa dell’indagato, non sarebbe stato possibile procedere al sequestro preventivo di tali somme in quanto esse «non sarebbero né direttamente né indirettamente collegate al reato ma sarebbero entrate nel patrimonio dell’imputato in base ad un titolo lecito» (p. 2), quale l’assegno di invalidità erogato dall’INPS successivamente alla commissione del reato.

L’art. 7, comma 3, d.l. n. 4/2019 stabilisce che alla condanna definitiva per uno dei reati previsti dal comma 1 del citato art. 7 e per gli altri reati indicati nello stesso comma 3 nonché alla sentenza di patteggiamento per i medesimi reati consegua di diritto la revoca del beneficio con efficacia retroattiva. In siffatte ipotesi, il beneficiario è tenuto a restituire quanto indebitamente percepito. Tali somme vengono pertanto considerate il profitto dei reati di cui all’art. 7, commi 1 e 2 ed è quindi possibile disporre il loro sequestro preventivo.

Già in precedenza, la Corte di Cassazione aveva ammesso, nelle ipotesi di false indicazioni o omissioni di informazioni dovute, la possibilità di disporre il sequestro preventivo della c.d. Carta Reddito di Cittadinanza (Carta Rdc) attraverso cui viene erogato il beneficio economico qui in considerazione, indipendentemente dall’accertamento dell’effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione alla misura del reddito di cittadinanza[26].

Con la sentenza in commento, i giudici di legittimità prendono in considerazione una diversa ipotesi, relativa al sequestro preventivo finalizzato alla confisca di somme di denaro diverse da quelle sussistenti sulla carta attraverso cui viene erogato il sussidio e rispetto alle quali ben potrebbe essere allegata e nondimeno dimostrata la loro provenienza lecita.

La questione viene risolta in senso positivo dalla Corte di Cassazione, ritenendo che trovi applicazione nel caso in esame il principio espresso, piuttosto recentemente, dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 42415 del 27 maggio 2021, secondo cui «Qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l'ablazione del denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l'effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest'ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell'origine lecita del numerario oggetto di ablazione»[27].

Ben si comprende che la sottesa questione giuridica attiene alla qualificazione della confisca del denaro costituente il prezzo o profitto del reato nei termini di confisca diretta nonché alla assolutezza da riconoscere a quest’ultima qualificazione, tale da non permettere di accordare alcuna rilevanza alla provenienza lecita delle somme di denaro sulle quali viene impresso il vincolo reale in cui si sostanzia il sequestro di cui all’art. 321, comma 2, c.p.p.

Il retroterra culturale del recente approdo è, come noto, da ricercare nelle sentenze Gubert[28] e Lucci[29], che hanno inaugurato il filone applicativo secondo cui, nelle ipotesi in cui il prezzo o il profitto del reato sia costituito dal denaro, la relativa confisca deve essere sempre qualificata come diretta, alla luce della natura fungibile del bene denaro, senza che sia necessaria la prova del nesso di pertinenzialità tra la somma, oggetto materiale del provvedimento ablatorio, e il reato. In questa prospettiva, la natura fungibile del denaro comporta infatti una immediata e automatica confusione con le altre disponibilità economiche del reo e una conseguente perdita di autonomia che non permette l’identificazione e la selezione materiale ai fini del sequestro e della successiva confisca del denaro costituente il prezzo o il profitto dell’illecito penale.

Rispetto a quest’ultimo orientamento, le Sezioni Unite nella pronuncia citata si collocano nel medesimo solco e compiono un passo ulteriore: viene difatti esclusa in nuce la possibilità di accordare rilevanza alla provenienza lecita, eventualmente provata, delle somme oggetto dell’ablazione[30]. L’esito cui si giunge è dovuto alla particolare conformazione che sarebbe assunta dal nesso di pertinenzialità nelle ipotesi in cui la res delittuosa sia costituita dal denaro, in forza della sua natura fungibile e della relativa disciplina giuridica del tutto peculiare. Il denaro difatti, oltre ad essere un bene «fungibile destinato ex lege a servire da mezzo di pagamento», rappresenta anche l’«archetipo di bene corrispettivo di valore». Sono queste considerazioni che spingono le Sezioni Unite a ritenere che il nesso di pertinenzialità con il reato assume, nelle ipotesi in cui il prezzo o il profitto sia costituito proprio dal denaro, una diversa consistenza. Tale nesso difatti non può essere inteso nei termini di «fisica identità della somma confiscata rispetto al provento», piuttosto esso deve consistere nella «effettiva derivazione dal reato dell’accrescimento monetario conseguito dal reo che sia ancora rinvenibile, nella stessa forma monetaria, nel suo patrimonio».

L’economia del presente commento non consente di ripercorrere le critiche espresse in dottrina nei confronti dei principi affermati dalle Sezioni Unite dapprima nelle sentenze Gubert e Lucci e poi nella recente pronuncia. I passaggi della successiva pronuncia, richiamata da quella qui in commento, sembrano tuttavia svelare l’intima natura di siffatta modalità di confisca che, lungi dall’essere diretta, appare piuttosto per equivalente.

 

 

[1] In realtà, nella disciplina vigente il singolo individuo rileva quale soggetto richiedente «in qualità di componente» del relativo nucleo familiare. Di riflesso, il richiedente deve possedere i requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno previsti dall’art. 2, comma 1, lett. a), d.l. n. 4/2918 mentre i requisiti di natura reddituale e patrimoniale si riferiscono al nucleo familiare. Così Vincieri, Spunti critici sul reddito di cittadinanza, in Dir. relaz. ind., 2020, p. 47.

[2] Così Affinito, Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, in questa Rivista, 13 settembre 2021, p. 6.

[3] Ivi, p. 7.

[4] Il riferimento è a Riverso, Reddito di cittadinanza: assistenza alla povertà o governo penale dei poveri?, in Questionegiustizia.it, 6 giugno 2019.

[5] Così Cass. pen., sez. III, 25/10/2019 (dep. 10/02/2020), n. 5289 in Cass. pen., 2021, pp. 1294 s. con nota di Carani.

[6] Così Carani, Una prima lettura della disciplina penale in materia di reddito di cittadinanza, in Cass. pen., 2021, p. 1299.

[7] Affinito, Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, cit., p. 9.

[8] In tal senso Morrone, Brevi cenni sui primi orientamenti della giurisprudenza penale in tema di reddito di cittadinanza, in Mass. giur. lav., 2020, p. 270. In realtà, secondo l’autore il reato di cui all’art. 7, comma 1, d.l. n. 4/2019 avrebbe natura plurioffensiva mentre il reato di cui al comma 2 avrebbe natura monoffensiva e il bene giuridico tutelato sarebbe individuabile nel solo buon andamento della P.A. nella corretta erogazione delle risorse pubbliche.

[9] La pena prevista per il reato di cui all’art. 7, comma 1, d.l. n 4/2019 è la reclusione da due a sei anni, mentre per il reato di cui al comma 2 è la reclusione da uno a tre anni.

[10] Sul punto Carani, Una prima lettura della disciplina penale, cit., p. 1301-1302.

[11] Così Riverso, Reddito di cittadinanza, cit.

[12] Affinito, Cellini, Il reddito di cittadinanza tra procedimento amministrativo e processo penale, cit., pp. 7-8.

[13] Così Cass. pen., sez. III, 25/10/2019 (dep. 10/02/2020), n. 5089, cit.; Cass. pen., sez. III, 15/09/2021 (dep. 01/12/2021) n. 44366 in Dejure.it

[14] Così Carani, Una prima lettura della disciplina penale, cit., p. 1299.

[15] A seguito delle modifiche apportate da ultimo dalla l. 30 dicembre 2021, n. 234, si tratta dei reati previsti dall’art. 7, comma 1, d.l. n. 4/2019, dagli artt. 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter, 422, 600, 600-bis, 601, 602, 624-bis, 628, 629, 630, 640-bis, 644, 648, 648-bis e 648-ter c.p., dall’art. 3, l. 20 febbraio 1958, n. 75 per i delitti aggravati ex art. 416-bis.1 c.p., dall’art. 73, comma 1, 1-bis, 2, 3, 4 e comma 5 nei casi di recidiva, del testo unico di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, dei reati di cui all’art. 74 e in tutte le ipotesi aggravate di cui all’art. 80 del citato D.P.R. n. 309/1990 nonché dei reati di cui all’art. 12, comma 1 quando ricorre l’aggravante di cui al comma 3-ter, e comma 3 del testo unico di cui al d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286.

[16] «Il provvedimento di sospensione […] opera nel limite e con le modalità di cui al citato art. 3, comma 13, del d.l. n. 4 del 2019, come convertito. Si è già ricordato che, ai sensi di tale disposizione, il reddito di cittadinanza può essere concesso anche se nel nucleo familiare sia presente un soggetto in stato detentivo o sottoposto a misura cautelare, senza però computare tale soggetto nel parametro della scala di equivalenza. Ne deriva che analoga conseguenza si avrà qualora lo stato detentivo o la misura cautelare personale sopraggiungano in corso d’opera» Corte Cost., 12/05/2021 (dep. 21/06/2021), n. 126.

[17] Pertanto, la sospensione del beneficio di cui all’art. 7-ter, d.l. n. 4/2019 opera solo nelle ipotesi in cui il destinatario della misura cautelare ovvero il condannato per uno dei delitti di cui all’art. 7, comma 3 sia il richiedente del beneficio. Laddove tali condizioni riguardino uno dei componenti del nucleo familiare del richiedente, l’effetto sarà quello di scomputare quest’ultimo soggetto nel calcolo del parametro della c.d. scala di equivalenza.

[18] In realtà, i giudici di legittimità hanno preliminarmente dichiarato inammissibile il ricorso nella parte in cui viene dedotto il vizio di contraddittorietà della motivazione, posto che il ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse in sede di riesame delle misure cautelari reali è ammesso soltanto per violazione di legge.

[19] «Essa [N.d.R. l’interpretazione sistematica] viene in considerazione immediatamente dopo l’interpretazione letterale, magari per rafforzarla o correggerla, e, nel suo consueto significato di coordinamento tra disposizioni di pari grado, può venire in aiuto per individuare, tra più significati compatibili con la lettera della legge, quello che va preferito; inoltre può assumere un significato funzionale alla successiva interpretazione teleologica, costituendo però sempre una fase ermeneutica autonoma» Demuro, L’interpretazione sistematica nel diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, pp. 1090-1091

[20] Corte Cost., 14/05/2021, n. 98.

[21] In tal senso Marinucci, Dolcini, Gatta, Manuale di Diritto Penale. Parte generale, X edizione, Milano, Giuffrè, 2021, pp. 84-85

[22] Fiandaca, Musco, Diritto penale. Parte generale, VIII edizione, Bologna, Zanichelli, 2019, p. 123.

[23] V., per tutti, Fiandaca, Musco, Diritto penale, cit., pp. 95 e 136.

[24] Non mancano in dottrina perplessità in merito alla mancata previsione, in questa ipotesi, di un preciso termine per la comunicazione, da cui – secondo taluni – discenderebbe un vulnus in punto di tassatività e di legalità. Così Riverso, Reddito di cittadinanza, cit.

[26] Cass. pen., sez. III, 25/10/2019 (dep. 10/02/2020), n. 5289, cit.

[28] Cass. pen., Sez. Un., 30/01/2014 (dep. 05/03/2014), n. 10561, Gubert, in Dejure.it.

[29] Cass. pen., Sez. Un. 26/06/2015 (dep. 21/07/2015), n. 31617, Lucci, in Dejure.it.

[30] La Sezione rimettente non mette in discussione l’orientamento consolidato nelle SS.UU. Gubert e Lucci, né cerca un suo superamento. Piuttosto, vengono citate alcune sentenze nelle quali i giudici di legittimità, pur non discostandosi formalmente dai principi consolidati nelle sentenze citate, sembrano riconoscere una seppur limitata rilevanza alla provenienza lecita del denaro nel senso di escludere che la doverosa qualificazione della confisca del denaro costituente il prezzo o il profitto del reato nei termini di confisca diretta possa determinare rigidi automatismi. Pertanto, attraverso la rimessione alle Sezioni Unite, la Sezione rimettente sollecita un intervento chiarificatore riguardo alla possibilità di riconoscere rilevanza agli elementi forniti dalla parte interessata che siano idonei a dimostrare che sul conto ovvero sul deposito siano giacenti somme aventi titolo lecito rispetto alle quali sia pertanto possibile escludere ogni rapporto di derivazione con il reato.

Per un commento all’ordinanza di rimessione v. Attanasio, Sequestro del denaro disposto a fini della confisca (diretta): ancora una questione rimessa alla valutazione delle Sezioni unite, in questa Rivista, 31 marzo 2021.