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09 Luglio 2020


L’intervento del d.l. 28/2020 sull’istruttoria dei permessi di necessità: un innesto sine causa e fuori asse rispetto al divieto di detenzione inumana


1. Il d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (convertito con l. 25 giugno 2020, n. 70[1]) è intervenuto, tra l’altro, sull’ordinamento penitenziario, che è stato significativamente modificato con riferimento alla misura dei permessi di necessità (art. 30 ord. penit.)[2] e a quella della detenzione domiciliare c.d. surrogatoria disciplinata nell’art. 47-ter comma 1-ter ord.penit., il quale consente di sostituire l’esecuzione della pena in carcere con la collocazione del condannato extra muros quando sussistono i requisiti stabiliti dagli artt. 146 e 147 c.p. A partire dall’entrata in vigore del decreto legge il giudice di sorveglianza, quando si deve pronunciare su un permesso di necessità o sulla detenzione domiciliare surrogatoria riguardanti condannati ritenuti socialmente pericolosi per il tipo di delitto addebitato o per la loro sottoposizione al regime differenziato di cui all’art. 41-bis comma 2° ord.penit., è tenuto ad acquisire il parere delle Procure – distrettuali e, nell’ipotesi del carcere “duro”, anche nazionale – antimafia, tenute ad esprimersi in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del richiedente.

Dal punto di vista quantitativo le modifiche introdotte sono contenute, per cui è pienamente comprensibile la scelta sinora operata dalla dottrina di effettuare una panoramica, per così dire, a tutto campo, che le ha consentito di esaminare contemporaneamente tutte le innovazioni concernenti il versante penitenziario[3]. In questa sede, andando controcorrente, si vuole invece dedicare l’attenzione esclusivamente alle ricadute della recente normativa sul permesso di necessità[4]. Per spiegare il perché, si potrebbe fare riferimento a quella constatazione, fin troppo ovvia, secondo la quale, dopo una prima sedimentazione dei nova, può essere opportuno un restringimento del campo di indagine per sottoporre ad una valutazione mirata le singole misure oggetto di modifica.  

Ma non si tratta di questo o, per lo meno, non si tratta solo di questo. La principale ragione alla base della scelta va individuata nel carattere paradigmatico dei ritocchi apportati alla disciplina dei permessi: infatti, dal loro esame trapela chiaramente il vero connotato genetico dell’intervento sulla legge penitenziaria, operato non tanto con l’intenzione di  migliorare un dato normativo carente, quanto per il desiderio di dimostrare la pronta capacità di ascolto delle richieste di un’opinione pubblica intimorita dalla vulgata di un armistizio con la criminalità mafiosa e della corrività della magistratura di sorveglianza.

Se ci si concentra sul settore dei permessi di necessità, il  provvedimento in esame pone non pochi interrogativi, il primo dei quali può essere articolato nei seguenti termini: anche a volere ammettere che, di fronte alle decisioni della magistratura di sorveglianza grazie alle quali è stata concessa – per serie ragioni di salute –  la detenzione surrogatoria a condannati appartenenti all’area della criminalità organizzata, bisognasse ricorrere alla decretazione d’urgenza per le endemiche ragioni di sicurezza sociale tipiche del nostro Paese, si è davvero trattato di un intervento ritagliato su questa esigenza o, per incamerare un facile ed ambìto consenso, si è invece grossolanamente peccato per eccesso?

C’è poi un secondo interrogativo, chiaramente collegato al precedente, che concerne il fondato dubbio di una marcata diffidenza nei confronti della magistratura di sorveglianza[5], indicata – essa sola, vale a dire senza alcun concomitante addebito al giudice delle misure cautelari – come la prima responsabile della situazione di allarme sociale venutasi a creare. O, se si vuole essere più dettagliati, nei confronti di un settore della magistratura guardato con sospetto, perché ostinatamente polarizzato sull’attuazione dell’art. 27 co.3° Cost., e perciò bisognoso della voce di autorevoli interlocutori in grado di correggere o, quantomeno, di controbilanciare efficacemente la sua congenita inclinazione[6]. Tant’è che in seguito all’emanazione del d.l. n. 28/2020 è tornato ad affacciarsi in un certo numero di magistrati di sorveglianza lo stesso assillante dubbio affiorato tra le fila dei loro colleghi francesi adibiti alle medesime funzioni – i giudici di applicazione delle pene – vittime, anch’essi, ogni qualvolta il vento della sicurezza sociale è soffiato più forte, di estemporanee iniziative del legislatore che ne hanno sminuito il ruolo non meno dell’immagine. Il timore che si è fatto strada tra quei magistrati è stato, per l’appunto, quello di non essere juges à parte entière[7].

 

2. Come si è detto, può darsi che sussistessero reali motivi di allarme sociale, pur se ingigantiti e drammatizzati, come spesso è accaduto, dai mezzi di informazione[8]. Può darsi anche che fosse giustificato discutere sull’operato della magistratura di sorveglianza, la quale però è assurta al ruolo di protagonista negativo senza una seria riflessione da parte dei suoi censori sulle forti inadeguatezze dell’apparato carcerario[9] e sulle disastrose conseguenze che avrebbe comportato una diffusione della pandemia all’interno della popolazione detenuta, particolarmente vulnerabile anche a causa della abituale situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari[10]. A tutto concedere, non si può tuttavia fare a meno di chiedersi se ci fosse un qualsiasi motivo per intervenire sull’istruttoria inerente ai permessi di necessità disciplinati dall’art. 30 ord. penit.

Anzi, l’interrogativo deve essere sdoppiato perché la domanda va riferita, da un lato, all’effettiva necessità di ritoccare la normativa riguardante tale categoria di permessi, e, dall’altro, agli ingranaggi del meccanismo introdotto. Iniziando da quest’ultimo, è lecito dubitare che esso risponda ad esigenze di integrazione cognitiva, da ravvisare nell’opportunità di fornire una preziosa stampella all’imperfetto sapere del magistrato di sorveglianza, tenuto d’ora in avanti ad acquisire, prima della sua decisione, dal procuratore della Repubblica distrettuale o, a seconda dei casi, dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo[11], un parere in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto[12]: ovviamente col dichiarato intento di evitare decisioni “azzardate”, che il magistrato di sorveglianza non avrebbe assunto se avesse potuto disporre di elementi più circostanziati in merito alla pericolosità del condannato.

Per avere un panorama più particolareggiato e valutare fino in fondo l’effettiva consistenza degli inconvenienti che si sarebbero voluti evitare è opportuno esaminare brevemente come è articolato il procedimento finalizzato alla concessione del permesso di cui all’art. 30 ord. penit. Investito della richiesta, il magistrato di sorveglianza assume anzitutto informazioni, ad esempio dal personale sanitario, «sulla sussistenza dei motivi addotti» (art. 30 comma 1° ord. penit.); contemporaneamente, raccoglie il parere della direzione del carcere (art. 64 comma 3° reg. esec.) e, attingendo da varie fonti, acquisisce – per quali finalità sarà puntualizzato in seguito – la documentazione concernente la pericolosità sociale del richiedente.

Vanno ricordate anche altre regole contenute nell’art. 30-bis, che risultano ai nostri fini particolarmente significative, vale a dire quelle dedicate all’effetto sospensivo del reclamo[13], che il pubblico ministero può rivolgere – entro 24 ore dalla comunicazione del provvedimento concessivo[14] – al tribunale di sorveglianza (art. 30-bis commi 7° e 8° ord. penit.). L’originalità della disciplina consiste nel fatto che, mentre per i permessi di cui all’art. 30 comma 2° ord.penit. – quelli richiesti per «eventi familiari di particolare gravità» – l’effetto sospensivo del reclamo è configurato secondo le regole generali (art. 588 comma 1° c.p.p), relativamente alla prima e più emblematica species dei permessi di necessità – inerenti alla situazione di «imminente pericolo di vita di un famigliare o convivente» -– non si può parlare di effetto sospensivo, dal momento che il decreto motivato del magistrato di sorveglianza è immediatamente esecutivo. Infatti, per ovvie ragioni legate alla finalità dei permessi umanitari per antonomasia, il reclamo del pubblico ministero non paralizza l’efficacia del provvedimento con cui viene accolta la richiesta del condannato, ma comporta unicamente che il fruitore della compassionate licence sia accompagnato dalla scorta[15].  

In tutti e due i casi comunque il ruolo del pubblico ministero è di primaria importanza, fermo restando che, per essere incisivo, il suo potere di controllo richiede un’attenta reattività. Ma questo presupposto, che altro non è se non l’espressione di un corretto funzionamento del sistema, deve darsi per scontato, e tale supposizione è qui rafforzata dalla considerazione che, se anche per motivi di sovraccarico di lavoro le decisioni attinenti all’esecuzione penitenziaria fossero collocate ai margini del campo visivo del pubblico ministero legittimato ad impugnare, il decreto con il quale viene concesso un permesso di uscita ad esponenti della criminalità organizzata non passerebbe certo inosservato[16].

Quindi, in presenza di un tempestivo esercizio del diritto di reclamo da parte del pubblico ministero, l’incauta concessione di un permesso ex art. 30 comma 2° ord. penit. potrebbe consentire al condannato di esprimere la sua pericolosità sociale solo nell’ipotesi in cui tanto il magistrato quanto il tribunale di sorveglianza avessero, per così dire, “sbagliato”, vuoi nel concedere il permesso, vuoi nel non disporre l’accompagnamento della scorta. Per quanto concerne invece l’autorizzazione all’uscita di cui all’art. 30 comma 1° ord. penit., le considerazioni devono essere diverse, poiché in questo caso il temporaneo allontanamento dal carcere è il frutto di un unico provvedimento decisorio: fermo restando che, nel caso di condannati pericolosi, l’accompagnamento della scorta deve ritenersi un accorgimento immancabile, in quanto derivante o dal decreto del magistrato di sorveglianza con cui è stato concesso il permesso o dalla pura e semplice interposizione del reclamo del pubblico ministero[17].

Tuttavia, se ci si limita a considerare l’effetto “paracadute” riconducibile al reclamo ex art. 30-bis ord. penit., si trascura il profilo più importante. Infatti l’opportunità del parere delle Procure antimafia andrebbe in realtà ravvisata, stando ai proclami, nell’utilità senza pari da attribuire a tale documento allorché il magistrato di sorveglianza è chiamato a stabilire se sussistano i presupposti per la concessione del permesso, quindi a dire di sì o di no alla richiesta del condannato. Senonché, come si vedrà meglio in seguito, l’art. 30 ord. penit. non contempla le esigenze di sicurezza sociale tra i presupposti del permesso di necessità. Accantonata, almeno per il momento, questa fondamentale obiezione, si può aggiungere che, per quanto concerne il pericolo di un’ipotetica sottovalutazione dei fattori di rischio da parte del magistrato di sorveglianza, tutte le volte in cui si è trattato di decidere sulla richiesta di un permesso di necessità proveniente da un detenuto in regime di “carcere duro”, o comunque condannato per reati di particolare gravità, gli stessi dati suscettibili di essere forniti dalle suddette Procure sono stati acquisiti, attingendo a varie fonti, dal magistrato di sorveglianza[18]. D’altronde, che le decisioni sui permessi di necessità siano state nel recente passato assunte con prudenza e sulla base di una solida piattaforma probatoria emerge dai dati statistici: infatti, anche se da tali dati non si riesce a ricavare di quale livello fosse la pericolosità sociale del fruitore del permesso, né la sua posizione giuridica, è comunque significativo che nel 2016, nel 2017 e nel 2019 i mancati rientri siano stati, rispettivamente, 5, 3 e 3, e che nel 2018 non ci sia stato alcun mancato rientro[19].

Sembra di poter affermare pertanto che la consulenza delle Procure specializzate in questo settore sia stata prevista sine causa, e questa constatazione rappresenta una prima conferma dell’idea che al recente intervento legislativo si sia voluto attribuire un valore soprattutto simbolico, un invito alla magistratura di sorveglianza a riflettere sull’esigenza di un maggior “senso di responsabilità” [20], in assenza del quale essa deve mettere in conto la predisposizione di guidelines che, almeno nei casi più delicati, incanalino le sue decisioni.  

 

3. Non sono solo quelle esposte le ragioni che inducono a considerare con scetticismo l’ipotesi secondo cui il parere dei pubblici ministeri specializzati sarebbe semplicemente un’opportunità offerta al magistrato di sorveglianza per metterlo in grado di decidere al meglio. Talune ulteriori perplessità si incentrano sul brevissimo spatium deliberandi concesso a tale giudice quando deve pronunciarsi in merito alla richiesta di un permesso di necessità.

Il contesto in cui, dopo il d.l. 28/2020, è chiamato ad operare pone il magistrato di sorveglianza di fronte a due scelte che risultano a priori insoddisfacenti: quella di verificare o, quanto meno, di filtrare con attenzione, i dati veicolati dal parere della Procura specializzata che, essendo, a sua volta, pressata dalla ristrettezza dei tempi e dalla quantità delle richieste, sarà verosimilmente portata a redigere un documento non molto dissimile da una scheda – spuria, perché contenente anche dati di eterogenea significatività – del casellario giudiziale e dei carichi pendenti[21]. Si tratterebbe di un impegno assai arduo perché, per valutare l’esattezza e il peso specifico delle informazioni trasmesse, il magistrato di sorveglianza, da un lato, non dispone di strumenti adeguati proficuamente utilizzabili in tempi brevi e, dall’altro, non si può neppure avvalere dell’apporto dialettico di colui al quale si riferisce il parere, rimanendo costui – nel segmento pre-processuale suggellato dal decreto motivato del giudice di primo grado – completamente all’oscuro dei dati che lo riguardano. A prescindere da queste ultime valutazioni, resta il fatto che qualora il giudice scelga di andare a “vedere” le carte in possesso della Procura, i tempi della decisione fatalmente si dilatano, con la conseguenza che un suo eventuale decreto concessivo rischia di risultare fuori termine e quindi, nella maggioranza dei casi, inutile[22].

L’alternativa a questa prima ipotesi non è certo migliore, e riguarda l’eventualità in cui la ristrettezza dello spatium deliberandi venga considerata un fattore dirimente, che implica la praticabilità di una sola opzione consistente nel recepire “a scatola chiusa” (o quasi) i dati contenuti nel parere della Procura specializzata. È logico ritenere che, quando il permesso è richiesto da un condannato relativamente al quale, in base alla nuova normativa, è prevista l’interlocuzione delle Procure antimafia, il magistrato di sorveglianza riduca al minimo la sua istruttoria sul versante della pericolosità del richiedente.  Con il rischio – dato che l’unica altra voce inerente (ma da un altro punto di vista) alla personalità del condannato è quella del direttore del carcere in cui il medesimo sta espiando la pena – di uniformare di default la sua decisione al parere sulla pericolosità a lui trasmesso.

Per la verità, va messo in conto anche un terzo possibile scenario che non può essere qui esaurientemente illustrato, in quanto difetta un retroterra argomentativo che verrà fornito solo in seguito[23]. Per il momento ci si limita ad una sintetica anticipazione: se si muove dalla premessa che la concessione di un permesso di necessità ex art. 30 commi 1° e 2° ord. penit. – mirando ad attuare una perentoria direttiva sull’umanità della pena contenuta nella nostra Costituzione (art. 27 comma 3°) e nella Convenzione europea (art. 3)[24] – non può essere negata limitandosi ad invocare l’alta caratura criminale del richiedente, il magistrato di sorveglianza, una volta verificata la reale sussistenza del presupposto oggettivo a cui fa riferimento la richiesta del condannato, può ritenersi esentato dal fare incidere le informazioni delle Procure sull’an, tenendole in considerazione solo relativamente al quomodo del permesso. Ciò premesso, se si condivide l’opinione secondo cui il legislatore del 2020 ha indirizzato sottotraccia alla magistratura di sorveglianza un caveat, che nel caso specifico equivale ad un invito a farsi partecipe delle ragioni che hanno determinato il ricorso alla decretazione d’urgenza, non è ingiustificato chiedersi, pur senza sottovalutare la resilienza dei giudici dell’esecuzione penitenziaria, quanto numerosi saranno i magistrati disposti a non farsi condizionare dalle intenzioni che hanno guidato la penna del legislatore e a ridimensionare, conseguentemente, la valenza del parere rilasciato dalle Procure specializzate. 

Può essere opportuno interrogarsi infine anche sul significato dell’attribuzione al magistrato di sorveglianza della facoltà di concedere il permesso senza attendere il parere fornito dalle Procure specializzate – quindi prima di ventiquattro ore dalla relativa richiesta – «quando ricorrono esigenze di motivata eccezionale urgenza»[25]. Non si tratta di un interrogativo superfluo. Ferma restando l’opportunità di tale regola, finalizzata a scongiurare conseguenze che, in talune situazioni, azzererebbero il connotato umanitario del permesso di necessità, vale la pena di decifrare correttamente questo frammento della nuova regolamentazione in quanto, se per ipotesi si prestasse ad essere letto come un’attestazione di fiducia del legislatore nei confronti del magistrato di sorveglianza, emergerebbe un dato in dissonanza con l’inquadramento sin qui tracciato. Senonché la lettura ipotizzata sembra essere priva di ogni fondamento, in quanto, come si è visto, l’urgenza che legittima la procedura extra ordinem deve essere «eccezionale», di un’intensità, pertanto, che non ha pari nell’ambito dell’intera legge penitenziaria. Inoltre, può avere un certo rilievo la constatazione che, in seguito al provvedimento in esame, i tempi per dare esecuzione al permesso si sono allungati rispetto al passato. Attualmente, infatti, se si segue la procedura “ordinaria”, il magistrato di sorveglianza prima di decidere è costretto ad attendere fino ad un massimo di ventiquattro ore il parere delle Procure specializzate e, dopo avere deciso, deve nuovamente rimanere in attesa, anche qui per un tempo massimo di ventiquattro ore, onde dare modo al procuratore della Repubblica che svolge le sue funzioni nel tribunale dove ha sede l’ufficio di sorveglianza di proporre l’eventuale reclamo. Per tali ragioni si ritiene che vada scartata l’ipotesi secondo cui il legislatore, inserendo la clausola in esame, si sia mosso in controtendenza rispetto alla parte rimanente della modifica apportata al 1° comma dell’art. 30-bis ord. penit.  

Semmai può essere opportuna una breve riflessione sulla situazione che si viene a determinare quando, pur non ricorrendo il presupposto della «eccezionale urgenza», il magistrato di sorveglianza conceda il permesso senza attendere il parere delle Procure antimafia. Anche qui bisogna distinguere tra i permessi concessi ai sensi del 1° comma dell’art. 30 e quelli accordati «per eventi familiari di particolare gravità» (art. 30 comma 2° ord. penit.). In quest’ultima ipotesi, il reclamo del pubblico ministero che ritenga insussistente il requisito della «eccezionale urgenza» blocca l’esecuzione del permesso, provocando la devoluzione al tribunale di sorveglianza (anche) del giudizio sull’urgenza. Nel primo caso, invece, sembrano non esserci correttivi, in quanto, non ostante l’erronea valutazione del magistrato di sorveglianza e la conseguente attivazione del procuratore della Repubblica, il decreto giudiziale deve essere ugualmente eseguito.

 

4. Non si tratta soltanto di mettere in discussione il funzionamento dell’ingranaggio sin qui esaminato, ma di valutare se, a prescindere dall’opinione sul significato del recente intervento del recente decreto legge riguardo alla magistratura di sorveglianza, l’innesto operato sul 1° comma dell’art. 30-bis ord. penit. sia compatibile con la natura di un permesso finalizzato ad evitare che la detenzione degradi in pena inumana.

A questo proposito non si può non condividere in pieno l’analisi di quella dottrina che ha sottolineato come la concessione del permesso di cui all’art. 30 ord. penit. deve avvenire «sulla base di presupposti di tipo oggettivo ... e a prescindere per converso da considerazioni attinenti alla vicenda giudiziaria e penitenziaria del detenuto: quali, ad esempio, il tipo e la gravità del reato commesso, l’entità della pena ancora da scontare, la condotta carceraria del colpevole e finanche la sua stessa pericolosità»[26].

Questa impostazione risulta perfettamente in linea con quella della giurisprudenza della Cassazione che, nell’esaminare i requisiti necessari per la concessione del permesso di necessità, ne ha sempre menzionato tre soli – carattere eccezionale della concessione, particolare gravità dell’evento giustificativo, correlazione di tale evento con la vita familiare – senza mai fare riferimento alla personalità/pericolosità del richiedente[27]. Non solo: nella motivazione di una sentenza relativa al permesso di necessità richiesto da un esponente di primo piano della «Sacra Corona Unita» il giudice di legittimità è stato ancora più  esplicito, affermando, da un lato, che tale misura afferisce al principio della umanità della pena e precisando, dall’altro, che «non può essere semplicemente un’argomentazione relativa ad esigenze di sicurezza pubblica ad impedire o comunque a comprimere in modo completo la possibilità per il detenuto di fruire di un permesso concepito per venire incontro a circostanze drammatiche della vita familiare»[28].

Che il legislatore italiano abbia avuto sempre ben chiaro il carattere umanitario, del permesso di necessità e abbia operato per salvaguardarlo anche allorché  le esigenze della sicurezza sociale sono state ritenute particolarmente pressanti è testimoniato dal fatto che tale misura è rimasta una felix insula anche nei momenti più carichi di tensione nella storia del nostro Paese, non essendo stata la sua regolamentazione neppure sfiorata, ad esempio, dagli irrigidimenti della normativa penitenziaria introdotti nel biennio 1991-92, vale a dire in un periodo in cui l’allarme sociale era indiscutibilmente molto più elevato di quello esistente agli inizi del 2020. Infatti, in quella circostanza, diversamente da quanto è accaduto con riferimento alle altre misure extramurarie, per la concessione dei permessi di necessità non è stata prevista la preventiva richiesta di dettagliate informazioni al comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica (art. 4-bis comma 2° ord. penit.) e la misura in esame è stata esclusa dal novero di quelle rispetto alle quali può intervenire il c.d. veto delle Procure antimafia (art. 4-bis comma 3-bis ord. penit.). Il che sta a significare la consapevolezza del legislatore del 1992 circa il necessario cedimento delle esigenze di salvaguardia della sicurezza sociale rispetto a quelle riconducibili al divieto di detenzione inumana.

Del resto, ad un’identica conclusione si perviene se ci si concentra sugli artt. 30 ord. penit. e 64 reg. esec., dai quali emerge la vigente disciplina sostanziale dei permessi di necessità. Sommando le previsioni dei due articoli in questione è facile constatare che l’unico riferimento alla «personalità del soggetto e all’indole del reato» compare nell’art. 64 comma 2° reg. esec. ed è operato al solo fine di consentire al giudice di valutare l’opportunità della scorta[29]. Si tratta di una scelta ortodossa in quanto, oltre ad essere conforme alla direttiva di cui alla prima parte all’art. 27 comma 3° Cost., essa si adegua alla disposizione di identico tenore collocata all’inizio dell’art. 1 comma 1° ord. penit.: una collocazione caratterizzata dal più alto grado possibile di visibilità, che non può non significare, anche a livello di legge ordinaria, la fondamentale importanza attribuita al rispetto del principio di umanità nell’ambito dell’esecuzione della pena detentiva.

Ma ormai, come si è visto, le cose non stanno più negli stessi termini e bisogna prenderne atto, pur senza rinunciare a mettere in evidenza le palesi incongruenze della recente normativa. Sintetizzando quanto è via via emerso e considerando un primo versante del decreto legge, si può affermare che non si riesce a cogliere una benché minima ragione idonea a giustificare l’obbligo per il magistrato di sorveglianza di dare impulso ad un meccanismo che, da un lato, non arricchisce di molto il suo patrimonio di conoscenze rispetto al passato e, dall’altro, lo spinge ad interloquire con due organismi il cui unilaterale orientamento potrebbe avere – o, quanto meno, si è pensato che possa avere – sulle sue decisioni un peso determinante o, comunque, sicuramente superiore a quello attribuibile ai relata di qualsiasi altra fonte.

Va poi considerato un secondo versante, nel quale con una minima integrazione del 1° comma dell’art. 30-bis ord. penit. è stata portata a compimento un’importante metamorfosi del permesso di necessità. Non è più, come succedeva fino a ieri, il carattere umanitario del motivo posto a base della richiesta di uscita l’unico punto cardinale al quale volgere lo sguardo per la concessione del permesso (salvo poi valutare, in base alla pericolosità del richiedente, le modalità della sua esecuzione). Sembrerebbe infatti che d’ora in avanti si possa negare al condannato l’autorizzazione a recarsi al capezzale del genitore o del figlio morente qualora – trattandosi dell’autore di un grave reato o di detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis comma 2° ord. penit. – le Procure antimafia rispondano che il richiedente è collegato con la criminalità organizzata o che è socialmente pericoloso.

Tenuto conto del fatto che, come si è osservato più volte, al magistrato di sorveglianza, contestualmente alla concessione del permesso, è sempre consentito di imporre l’accompagnamento della scorta, riesce difficile negare che mediante la nuova previsione si è realizzato un indebolimento del divieto, sin qui assoluto, di attribuire alla pena il grave stigma della disumanità. A meno che – e questa, non ostante le contrarie intenzioni del legislatore, si profila come l’unica interpretazione costituzionalmente consentita – muovendo dalla natura dei permessi di necessità, si ridimensioni l’apporto delle Procure specializzate, pervenendo alla conclusione che, anche quando si rientra nelle ipotesi previste nel penultimo periodo dell’art. 30-bis comma 1° ord. penit., i loro pareri non possano di per sé portare al rigetto della richiesta di permesso, ma incidano unicamente sulle modalità con cui il medesimo viene fruito.

Si è già avuto modo di accennare al perché si sia deciso di optare per la delimitazione del campo di indagine al settore dei permessi di necessità, tralasciando in tal modo di analizzare le modifiche contestualmente apportate dal d.l. 28/2020 all’art. 47-ter comma 1-ter ord. penit. Sarebbe una forzatura sostenere che le critiche formulate possano essere considerate ambivalenti, ed essere quindi estese de plano alla nuova regolamentazione della detenzione domiciliare c.d. surrogatoria, perché ciò è vero solo per una parte di esse. È anche vero però che le modifiche intervenute nel settore dei permessi offrono l’immagine lampante, da un lato, dell’inconsistenza, anzi della pretestuosità delle ragioni ufficialmente addotte per giustificare l’innovazione, e, dall’altro, della colpevole leggerezza con cui ci si è accostati a quel fondamentale principio – costituzionalmente e convenzionalmente garantito – che mira ad alzare una diga invalicabile nei confronti della pena inumana. Ne scaturisce la convinzione di trovarsi di fronte ad un “vizio di fabbrica” o, se si preferisce, a difetti così eloquenti  circa l’atteggiamento di fondo del legislatore che, nonostante la collocazione forse periferica delle modifiche inerenti alla disciplina dei permessi di necessità, essi sono in grado di svelare l’identità dell’insieme degli interventi operati dal d.l. 28/2020 sulla legge penitenziaria, un’identità  destinata ad affiorare con identiche sembianze qualunque sia la materia che in quello stesso contesto è stata oggetto di regolamentazione.

 

 

[1] La l. 25 giugno 2020, n. 70 ha assorbito anche i contenuti del d.l. 10 maggio 2020, n. 29, contestualmente abrogato dall’art. 1 comma 2°. Tuttavia, per quanto concerne la regolamentazione del permesso di necessità, il legislatore si è limitato ad un minimo cambiamento delle modifiche apportate all’art. 30-bis ord. penit. dall’art. 2 comma 1° lett. a d.l. n. 28 del 2020 (v. infra, nt. 4). Di qui la scelta, dettata da esigenze di semplificazione, di fare riferimento nel testo alla formulazione scaturita dal provvedimento di urgenza.

[2] La disciplina dei permessi premio non ha subito alcuna variazione. Si tratta di una conclusione obbligata, dato che l’art. 30-ter ord. penit., relativo ai permessi premiali, non opera alcun rinvio all’art. 30-bis comma 1° ord. penit., ma richiama, nel 7° comma, quest’ultimo articolo solo per quanto concerne la procedura di reclamo; v. anche, sul punto, Gianfilippi, Emergenza sanitaria in carcere, provvedimenti a tutela di diritti fondamentali delle persone detenute e pareri sui collegamenti con la criminalità organizzata, in giurisprudenzapenale.com, 4 maggio 2020, p.6.

[3] Vedi Canevelli, La magistratura di sorveglianza (d.l. 30 aprile 2020, n. 28), in giustiziainsieme.it, 8 maggio 2020; Gianfilippi,  Emergenza sanitaria in carcere, cit., p. 4 ss.;  Gialuz, L’emergenza nell’emergenza: il decreto-legge n. 28 del 2020, tra ennesima proroga delle intercettazioni, norme manifesto e “terzo tempo” parlamentare, in sistemapenale.it, 1° maggio 2020; Santalucia, Un altro decreto legge (n. 28 del 30 aprile 2020) in materia di giustizia penale per l’emergenza sanitaria e non solo, in giustiziainsieme.it, 1° maggio 2020; Terranova, Le misure adottate dal Governo per la scarcerazione dei boss, in ilpenalista.it, 28 maggio 2020.

[4] Come in altre occasioni, anche relativamente all’intervento sull’art.30-bis comma 1° ord. penit. emerge la tecnica approssimativa che caratterizza la formulazione della modifica apportata: ad esempio, non è stata presa in considerazione la categoria degli internati, legittimati anch’essi ad usufruire dei permessi di necessità. Inoltre, anche se tale misura può essere concessa nel corso delle indagini preliminari agli indagati ristretti in carcere, ci si è limitati a richiamare il «tribunale che ha emesso la sentenza». A questa inesattezza si è, tuttavia, ovviato in sede di conversione, dato che la l.25 giugno 2020, n.70 ha ritoccato le modifiche apportate all’art. 30-bis commi 1° e 9° ord. penit. dal decreto legge convertito, aggiungendo il riferimento al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto «… ove ha sede il giudice che procede». Può essere opportuno specificare che, per quanto concerne i permessi di necessità, si è trattato dell’unica variazione del testo generato dal provvedimento di urgenza.

[5] Cfr. il Comunicato rilasciato, in data 28 aprile 2020, dal Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza (Conams), nel quale si «respinge con forza la campagna di sistematica delegittimazione, che in alcuni casi si è spinta fino al dileggio, proveniente da più parti, anche da autorevoli esponenti della magistratura e delle istituzioni».

[6] Nello stesso senso, Della Bella, Emergenza covid e 41 bis: tra tutela dei diritti fondamentali, esigenze di prevenzione e responsabilità politiche, in sistemapenale.it, 1° maggio 2020, p.10. Per la constatazione secondo cui di fronte al timore, pur se infondato, di cedimenti o anche solo di smagliature nella lotta alla mafia, l’opinione pubblica si sente rassicurata da una legislazione che stabilisca un più esteso intervento delle Procure antimafia, cfr. SANTALUCIA, Un altro decreto legge, cit. p.2.

[7] A questo proposito, v. tra gli altri, Herzog-Evans, Le juge de l’application des peines, Parigi, 2013, p. 20 e p. 139 ss. 

[8] Sul punto v., diffusamente, FIANDACA, Scarcerazioni per motivi di salute, lotta alla mafia e opinione pubblica, in sistemapenale.it, 19 maggio 2020, spec. p. 2.  

[9] V., tra i molti, Maisto, Il carcere: come non si è governata l’emergenza infezione, in giustiziainsieme.it, 26 giugno2020; per una panoramica, v. anche Il carcere ai tempi del coronavirus. XVII Rapporto sulle condizioni di detenzione, a cura di Antigone, Roma, 2020.

[10] Basti ricordare il rapporto dell’Ecole de sciences criminelles dell’Università di Losanna, pubblicato il 18 giugno 2020, dal quale risulta che i detenuti scarcerati in 20 Stati dell’Unione europea, al fine di scongiurare il diffondersi della pandemia del Covid 19, sono stati 128.000. Per l’insieme dei dati statistici forniti dal rapporto,  Prisons and Prisoners in Europe in Pandemic Times: An Evaluation of the Short-term Impact of the COVID-19 on Prison Populations, a cura di Aebi e Tiago, Strasburgo, 2020, p. 1.

[11] La richiesta del parere ha come destinatario il procuratore distrettuale nell’ipotesi in cui nei confronti di chi richiede il permesso si procede o è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna per taluno dei delitti previsti dall’art.51 commi 3-bis e 3-ter c.p.p., vale a dire di quei delitti relativamente ai quali le funzioni di pubblico ministero sono svolte in sede di procedimento di primo grado, dal procuratore distrettuale. Qualora si tratti, invece, di un detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis ord. penit., il parere in ordine all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata ed alla pericolosità del soggetto deve essere richiesto non solo al procuratore distrettuale, ma anche al procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo. È opportuno precisare che, per quanto concerne i permessi di necessità, nell’ipotesi di un’unificazioni di più pene solo in parte riferibili ai delitti considerati dal nuovo art. 30-ter comma 1° ord.penit.,  è fuori luogo ipotizzare uno scioglimento del cumulo, così che il parere delle Procure antimafia deve essere richiesto anche quando sia già stata espiata la parte di pena inerente a taluno dei reati previsti dai commi 3-bis e 3-ter dell’art. 51-bis c.p.p.: in questo senso, v., con riferimento alle «dettagliate informazioni» del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica di cui all’art. 4-bis comma 2°ord. penit., Cass. 6 febbraio 1992, Di Laura, in C.e.d. n. 189612.

[12] Per una sottolineatura del ricorso all’impropria qualifica di «parere» attribuita ad un documento di carattere semplicemente informativo, Gianfilippi, Emergenza sanitaria in carcere, cit., p.7.

[13] Relativamente alla disciplina del reclamo in materia di permessi, v. tra i molti Fiorentin, sub art. 30-bis ord.penit., in Ordinamento penitenziario commentato, a cura di Della Casa-Giostra, 6a ed., Padova, 2019, p.414 ss.

[14] Vale la pena di ricordare che, in seguito alla sent. cost. 113 del 2020, con cui è stata dichiarata l’illegittimità dell’art. 30-ter co. 7°ord. penit., il termine di ventiquattro ore vale ormai solo per i permessi di necessità, essendo stato tale termine ritenuto non conforme, quanto ai permessi premio, agli artt. 3, 24 e 27 comma 3° Cost. Contemporaneamente la Corte ha ritenuto che, alla luce dell’affinità tra il reclamo in tema di permessi premio e quello giurisdizionale ex art. 35-bis ord. penit., il termine di quindici giorni previsto da quest’ultimo articolo possa essere esteso ai reclami riguardanti i permessi premiali.

[15] Per questa espressiva definizione, utilizzata nel Regno Unito per indicare i permessi concessi al detenuto al fine di recarsi a visitare i congiunti gravemente ammalati, v. Creighton-King-Arnott, Prisoners and the Law, 3° ed., 2005, p. 148.

[16] D’altra parte, non manca neppure l’attenzione di altri organismi, Può essere interessante riportare, per le perplessità che suscita la sua formulazione, il brano di una circolare (Circ DAP 10 gennaio 1997, n.3449/5899, § 8)), nella quale, con riferimento alla  concessione di permessi di necessità a detenuti di alta pericolosità sociale, si invitano le Direzioni dei singoli istituti a trasmettere agli organismi centrali dell’amministrazione penitenziaria copia del provvedimento, onde consentirgli di «controllare la ricorrenza dei presupposti formali e sostanziali previsti dalla legge» e di valutare «l’opportunità di interloquire con le competenti autorità giudiziarie in ordine alla legittimità dei provvedimenti medesimi».

[17] Volendo tenere presenti anche le patologie del sistema, bisogna dare spazio alle voci provenienti dalla magistratura che denunciano i non sporadici casi di resistenza dell’amministrazione penitenziaria, vale a dire i suoi temporeggiamenti, quando si tratta di assumere le iniziative necessarie per la predisposizione della scorta, col risultato di fare venire meno il motivo per cui era stato concesso il permesso. Con rifermento a questo espediente contra legem riferito ai detenuti sottoposti al regime di cui all’art.41-bis ord. penit. (ma, notoriamente, di più ampia utilizzazione, al netto delle ipotesi di reali difficoltà organizzative), cfr. Canevelli, La magistratura di sorveglianza, cit., p. 3.

[18] Per una chiara conferma di quanto affermato nel testo cfr., con riferimento a due vicende riguardanti condannati sottoposti al regime di cui all’art 41-bis ord.penit., Cass., 27 novembre 2005, Vitale, CED 267210, in motivazione; Mag.sorv. Sassari, 12 febbraio 2018, Gallico, inedita, in motivazione.

[19] Dati gentilmente forniti dall’ Ufficio statistiche del Ministero della giustizia. Di fronte a questi dati non può non venire in mente il punto 15 della Raccomamndazione n° R(82) 16 del Comitato dei ministri del Consiglio di Europa, in cui si invitano gli Stati membri ad informare diffusamente la collettività circa gli scopi, il funzionamento e gli esiti dei permessi di uscita dal carcere.

[20] Nello stesso senso, v. Fiandaca, Scarcerazioni per motivi di salute, cit., p. 5, che sottolinea l’implicita sollecitazione, rivolta ai giudici, a far prevalere la bilancia più sul lato della sicurezza. Secondo Terranova (Le misure adottate dal Governo, cit., p. 4), l’improprio utilizzo del sostantivo «parere» va ricollegato all’intento di accentuare la capacità delle informazioni fornite dalle Procure antimafia ad influire sul merito della decisione

[21] Per gli stessi dubbi, cfr. le dichiarazioni rilasciate dalla dott. Fiorillo, coordinatrice del Conams, nel corso di un’intervista riportata in un articolo dal titolo: Giudici di sorveglianza delegittimati dai politici. Non liberiamo soltanto, applichiamo le leggi (Corriere della sera, 9 maggio 2020, p. 21). Circa il rischio di pareri negativi immotivati, e quindi poco utili dal punto di vista cognitivo, ma idonei ad aggravare l’onere motivazionale del giudice di sorveglianza, v. Gialuz, L’emergenza nell’emergenza, cit., p. 8; conf. Minnella, Introdotto il parere dell’Antimafia per i permessi e le detenzioni domiciliari umanitarie, in Dir. giust., 30 aprile 2020.

[22] Non possono non essere ricordate le parole di uno dei padri storici della magistratura di sorveglianza, il quale ha sottolineato che nel settore della esecuzione penitenziaria la rapidità di decisione del giudice sulle richieste dei detenuti è un requisito fondamentale (requisito – si può aggiungere - che diventa una condicio sine qua non, quando si tratta di decidere su una richiesta di permesso ex art. 30 ord. penit.): per questa sottolineatura, cfr. Margara, Il problema della discrezionalità nelle decisioni della magistratura di sorveglianza, in La magistratura di sorveglianza e il nuovo codice di procedura penale, Quaderni del CSM, Roma, 1991, n. 46, p. 218.

[23] V. infra, § 4.

[24] Nel senso che il rifiuto di un permesso di necessità ad una terrorista basca, che chiedeva di potersi recare sotto scorta a visitare la tomba del padre da poco deceduto, essendo stato motivato in base alla pericolosità della richiedente e all’impossibilità di allestire una scorta in tempi brevi, non si è tradotto in una violazione dell’art. 8 Cedu, cfr. Corte e.d.u., 11 aprile 2019, Guimon c. Francia; per un commento, Lavric, in actu.dalloz-etudiant.fr, 13 maggio 2019. Tenuto conto del recente ed intenso processo evolutivo della giurisprudenza della Corte europea sull’art. 3 Cedu, il tenore della decisione potrebbe tuttavia essere diverso, qualora la questione fosse esaminata con riferimento alla direttiva convenzionale che sancisce il divieto dei trattamenti inumani.

[25] Trascorse le ventiquattro ore dalla richiesta, il magistrato di sorveglianza è libero di decidere anche in assenza di una situazione di eccezionale urgenza. La conclusione è d’obbligo, giacché, in caso contrario, sarebbe consentito alle Procure antimafia – in contrasto con la lettera della Costituzione – di tenere “in scacco” il magistrato di sorveglianza, in quanto la mancata formulazione del parere bloccherebbe la sua decisione. In passato, il legislatore penitenziario, con una soluzione preferibile, ha voluto escludere esplicitamente un simile vulnus nel dettare la disciplina delle «dettagliate informazioni» che il comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica o il questore forniscono al giudice di sorveglianza allorché quest’ultimo deve pronunciarsi sulla concessione di una misura extramuraria ai condannati per taluno dei delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit. Sia nel 2° comma che nel comma 2-bis di tale articolo si precisa infatti che, quando sono trascorsi trenta giorni dalla relativa richiesta, il giudice di sorveglianza può emettere la sua decisione senza dovere attendere le «dettagliate informazioni».

[26] Giunta, I permessi ai detenuti tra innovazioni legislative e dubbi di costituzionalità, in Riv.it.dir. e proc. pen., 1985, p. 256; in termini pressoché identici, Ardita-Degl’Innocenti-Faldi, Diritto penitenziario, 2a ed., Roma 2014, p. 159. Analogamente, Di Bitonto, sub art. 30 ord. penit., in L’esecuzione penale, cit., p. 407 s.; Tampieri, I permessi premio e le norme in materia di permessi e licenze, in Le nuove norme sull’ordinamento penitenziario, a cura di G. Flora, Milano, 1987, p.145.

[27] In questo senso, cfr., tra le molte, Cass. 6 marzo 2020, n. 12343, in Dir. e giust., 17 aprile 2020; Cass. 6 novembre 2019, n. 10541, ivi, 24 marzo 2020; Cass. 27 novembre 2017, n. 26062, ivi, 8 giugno 2018; Cass. 24 maggio 2017, n. 34569, ivi, 17 luglio 2017.

[28] Cass. 27 novembre 2015, Vitale, in C.e.d. 267210 (§ 2 della motivazione).

[29] V., per tutti, Ardita-Degl’Innocenti-Faldi, Diritto penitenziario, cit., p. 160.