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  Articolo  
22 Dicembre 2022


Appunti per un carcere secondo la Costituzione


Pubblichiamo di seguito il testo di un articolo a firma del dott. Carlo Renoldi, Capo del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, apparso sul quotidiano La Stampa domenica 18 dicembre 2022.

 

Il dibattito aperto da Donatella Stasio su questo giornale ruota intorno alla questione centrale di come garantire una pena rispettosa della dignità umana e realmente funzionale al reinserimento sociale delle persone condannate: questione che richiede solida conoscenza dei problemi, capacità di visione sul piano politico-amministrativo e, soprattutto, una coesione tra i vari attori istituzionali che spesso è mancata negli anni, con maggioranze parlamentari animate da concezioni differenti della pena e del carcere.

Va premesso che il carcere è solo una delle possibili risposte dello Stato per tutelare interessi primari della collettività; e che trattandosi di una risposta costosa, in termini economici e sociali, deve essere usata quando ogni altro strumento è inefficace. È dunque condivisibile, come ha ricordato Lucia Castellano, il rafforzamento delle misure alternative, secondo le linee della riforma Cartabia e secondo quanto avviene in tutti i sistemi penali (pensiamo agli Stati Uniti, che hanno il più elevato indice di carcerizzazione, e ove nel 2020, secondo i dati del Bureau of Justice Statistics, 7 persone su 10 erano sottoposte a misure di comunità, contro le 3 su 10 detenute in carcere).

Tuttavia è sbagliato pensare che le misure alternative portino necessariamente a un carcere rispettoso della dignità di chi vi è detenuto (e vi lavora) e che la diminuzione dei flussi di ingresso in carcere renda automaticamente più vivibili i nostri istituti. Così come è illusorio pensare che la pena e il carcere possano realizzare gli scopi della Costituzione attraverso la sola azione del Ministero della Giustizia, che deve invece integrarsi con quella di altre articolazioni del governo centrale (in specie dei Ministeri della Salute e delle Politiche sociali) ma soprattutto degli enti territoriali, in particolare delle Regioni, titolari di essenziali competenze in materia di sanità, lavoro, assistenza sociale e con le quali il dialogo, come ricorda Palma, è troppo spesso assente, con enormi conseguenze sulla gestione del carcere e sui diritti fondamentali dei ristretti. Ciò che, di recente, ha spinto la ex Ministra Cartabia a stipulare con la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome presieduta da Fedriga un protocollo per la realizzazione di un sistema integrato di interventi per il reinserimento delle persone detenute: iniziativa che non dovrà essere lasciata cadere.

Per realizzare un carcere secondo la Costituzione c’è bisogno, soprattutto, di spazi adeguati, di personale formato, di una nuova idea della quotidianità detentiva, sia rispetto al mandato degli operatori e alla organizzazione del loro lavoro, sia rispetto alla vita delle persone detenute.

Sul piano degli spazi, è essenziale una programmazione almeno decennale di realizzazione di nuovi istituti che consenta la chiusura delle strutture fatiscenti e l’apertura di nuove realtà dove, secondo le indicazioni della Commissione per l’Architettura penitenziaria, in carcere sia possibile una pena utile, con attività trattamentali in grado di far acquisire nuove abilità e di non disperdere quelle in essere. A questo scopo, nella passata legislatura abbiamo fatto approvare norme di semplificazione delle procedure di progettazione di nuovi istituti, la cui competenza, peraltro, è attribuita al Ministero per le infrastrutture e la mobilità sostenibile, con una frammentazione delle competenze amministrative che rende complessa l’azione riformatrice, anche per la presenza di ulteriori attori istituzionali, come le sovrintendenze, in contesti vincolati sul piano storico-artistico, in specie negli istituti più risalenti, in cui è estremamente difficile realizzare interventi di ammodernamento. Un settore, dunque, in cui sono necessarie modifiche normative e il rafforzamento della capacità operativa dei ruoli tecnici dell’amministrazione penitenziaria (ingegneri e geometri) che, negli anni, non sono stati implementati.

Ma, soprattutto, va ripensato il modello di organizzazione dell’amministrazione, quello dei circuiti e il mandato istituzionale del personale. Sotto il primo aspetto, il dipartimento va ridisegnato per restituire capacità operativa ai territori, redistribuendo il personale oggi allocato in maniera prevalente nelle articolazioni centrali e carente a livello locale, dove sarebbe viepiù necessario per rendere efficienti gli istituti, vero core business dell’amministrazione; e vanno riconfigurati i provveditorati, accorpati su base sovraregionale da una spending review che ne ha dimidiato l’operatività. A tutti i livelli, centrali e periferici, va poi attuato un processo di reingegnerizzazione delle strutture burocratiche, ove sono assenti dispositivi di effettiva valutazione della performance e dei processi organizzativi, rimessi alla azione inerziale delle prassi o all’inventiva dei singoli funzionari. Ma soprattutto occorrono politiche del personale che riconoscano l’indispensabilità di tutti gli attori dell’amministrazione e in cui il personale delle “funzioni centrali” (educatori, ragionieri, ingegneri e amministrativi) non abbia uno status giuridico-economico differente dal resto del comparto, con le conseguenti difficoltà di arruolamento, come dimostrato dall’ultimo concorso per educatori, segnato da numerose rinunce dei vincitori. Politiche che devono riguardare i direttori degli istituti e dei comandanti di reparto, oggi privi di incentivi, economici e di carriera, ad assumere ruoli di responsabilità nelle carceri più problematiche; e che devono concernere il ruolo della polizia penitenziaria, forza nettamente prevalente, in termini numerici e sindacali, tra gli operatori: ruolo che va ridefinito con un ripensamento di circuiti e spazi della pena.

Il carcere di domani, accanto all’area, numericamente minoritaria, delle persone di più elevato spessore criminale, rispetto a cui è irrinunciabile la presenza negli spazi detentivi del personale di polizia, non potrà che evolversi nella direzione, comune al resto d’Europa, di una polizia che “sta fuori dal carcere”, la quale, accanto al controllo dei soggetti in misura alternativa, dovrà svolgere compiti di tutela della sicurezza perimetrale, di controllo dell’ingresso di oggetti pericolosi e di intervento in caso di violenze all’interno degli spazi detentivi; spazi ove dovrà essere invece chiamato a operare personale non di polizia, altamente qualificato e addestrato non tanto, come oggi, sul piano delle competenze giuridiche, quanto della relazione con le persone. Perché il carcere è, soprattutto, il luogo della relazione umana, dove, anche grazie all’azione del privato sociale, la persona deve essere accompagnata in un processo di piena realizzazione della cittadinanza, in cui, accanto al riconoscimento dei suoi diritti, possa riacquisire il senso anche dei propri doveri di solidarietà politica e civile verso la comunità di cui fa parte.