Relazione introduttiva al convegno tenutosi presso l'Università "La Sapienza" di Roma il 22 novembre 2019
Nell’introduzione al libro ottimamente curato dagli amici Bronzo, Siracusano e Vicoli, uscito in questi giorni, indegnamente appropriandomi del celebre incipit calviniano osservavo che “se una notte d’inverno un viaggiatore” fosse arrivato un anno fa in Italia e avesse preso conoscenza della recentissima entrata in vigore dei d.lgs. 2 ottobre 2018 nn. 121, 123 e 124, ne avrebbe certo apprezzato i contenuti, indubbiamente migliorativi dell’assetto normativo preesistente. Tornato al suo Paese, avrebbe raccontato, convinto, che il nostro ordinamento stava lodevolmente continuando in modo meno concitato ed emergenziale la stagione delle riforme avviata subito dopo la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo (sentenza Torreggiani).
In effetti, per chi non ha memoria delle loro ascendenze ideali e dell’enorme lavoro progettuale che li ha preceduti può non essere facile comprendere come quegli stessi provvedimenti legislativi costituiscano, ad un tempo, un progresso normativo e un preoccupante segnale di regresso culturale. Le novità, lo sentiremo tra poco, sono state significative e non bisogna compiere l’errore di sottovalutarle. Ma ancor più significative, purtroppo, sono le parti amputate di quel progetto di riforma, adagiato un anno fa su un rozzo letto di Procuste da un legislatore che sembrava avere una visione scotomizzata dell’art. 27 comma 3 Cost.: come se ci fosse soltanto scritto che la pena carceraria non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Le norme amputate non sono naturalmente più visibili, ma la loro brutale e conclamata rimozione pesa. È come se in calce alle norme vigenti e a quelle “mentali” degli operatori ne fossero state scritte con l’inchiostro simpatico altrettante di segno opposto, a mo’ di sottotesto. Temo che alla prima preoccupazione, alla prima incertezza, al primo vociare della piazza, mediatica o fisica, si generi sotto a quell’inchiostro un calore in grado di fare affiorare nitidamente prudenti e inequivoche raccomandazioni alla magistratura e all’amministrazione penitenziaria: giurisprudenza difensiva, prassi custodialistica, in dubio contra reum.
La seconda sessione di questa giornata potrà aiutarci a capire se tali preoccupazioni sono soltanto fantasmi di un nostalgico di ciò che poteva essere e non è stato. Per conservare comunque memoria di ciò che poteva essere, noi dell’allora Commissione di riforma abbiamo pubblicato un volume con la relazione illustrativa dell’articolato normativo proposto ed un quadro sinottico con i decreti che il Ministro Orlando aveva predisposto per l’approvazione mai avvenuta e quelli che il Ministro Bonafede ha poi fatto approvare. Nella premessa al libro, edito da una casa editrice gestita da detenuti, è scritto che non vuol essere un fossile, ma una bottiglia alla deriva nell’oceano della politica, con la speranza che possa un giorno attingere qualche lido legislativo, oggi non proprio alle viste.
Non è facile, peraltro, decifrare compiutamente l’attuale quadro complessivo: a fianco della deprimente involuzione politico-culturale, infatti, si registra la controspinta esercitata dalla Consulta, “coadiuvata” in ciò dalla migliore parte della magistratura di sorveglianza e dalla giurisprudenza di legittimità che stanno proponendo letture illuminate della normativa esistente e sollevando questioni di costituzionalità; Consulta, che sta tenendo la rotta costituzionale, tra l’altro introducendo, attraverso ineccepibili declaratorie di illegittimità, soluzioni scartate dal legislatore in sede di approvazione della riforma, perché ritenute sconsiderate.
È allora evidente la profonda faglia culturale che si è aperta nel nostro Paese tra chi difende le ragioni dello Stato di diritto e chi cavalca quelle di un’opinione pubblica immotivatamente, ma provvidenzialmente allarmata.
Le sessioni di lavoro che seguiranno per la competenza e l’autorevolezza dei relatori offriranno un approfondimento qualificatissimo delle problematiche ora appena sfiorate.
A me preme nel poco tempo a disposizione svolgere un paio di riflessioni in ordine al da farsi per riprendere il cammino verso la Costituzione, secondo l’auspicio espresso dal titolo di questo convegno. È un da farsi che deve conoscere l’azione congiunta di tutti i soggetti culturali che in tale cammino da sempre si riconoscono. E la giornata di domani a questo vuole servire a promuovere una efficace sinergia di azione, che potrà tradursi soltanto in un network informativo per mettere insieme documentazione e notizie di iniziative oppure in un nuovo soggetto culturale, forte del qualificato peso specifico delle sue componenti.
Due direttrici operative, comunque, credo siano in futuro imprescindibili. Innanzitutto, bisogna sostenere, accompagnare e sospingere il passo di quella magistratura che, nonostante il vento politico che le spira violentemente contro, continua a percorrere sentieri che riconducono alla Costituzione.
Ma la via giudiziaria, unico motivo di ottimismo nel tempo presente, non può bastare. Non solo per il rilievo tecnico che i pronunciamenti giurisdizionali, dato il loro carattere episodico e disorganico, non potranno mai supplire alla mancanza di un compiuto disegno riformatore. Non solo perché qualche inquietante inciampo nel cammino giurisprudenziale cominciamo a registrarlo. Ma anche perché, per quanto i pronunciamenti delle Corti possano condurci avanti, la prima scorreria legislativa si incaricherà di riportare indietro il sistema, costringendo ad una frustrante fatica di Sisifo. Se rimaniamo per così dire da questa sponda della faglia, temo che di tal fatta rimarrà lo scenario che ci aspetta nel breve-medio periodo.
Sebbene oggi possa suonare velleitario, si deve dunque cercare di contrastare la regressiva politica securitaria sul suo terreno, trovando una strategia di comunicazione che renda il cinico populismo penale elettoralmente meno lucrativo. Per farlo, le ragioni del diritto non bastano, perché, pur ineccepibili, non trovano ascolto nell’opinione pubblica: sono demagogicamente inermi. Dobbiamo cambiare contenuti e modalità della comunicazione. Operazione per la quale siamo meno attrezzati e per la quale abbiamo bisogno di coinvolgere gli operatori dell’informazione, propiziandone una maggiore sensibilizzazione e fornendo loro una credibile documentazione.
In una democrazia emotiva come l’attuale, la legislazione penale è lo strumento elettivo di una politica preoccupata e capace soltanto di assecondare la propria bulimia di consensi: esibire una muscolarità punitiva non costa nulla e, se è certo che non risolve nulla, costituisce placebo che l’imbonitore di turno riesce a vendere facilmente come convincente dimostrazione che ha ben presenti ed a cuore le paure della gente, ed è determinato a predisporre draconiani rimedi. E come magistralmente scriveva Christa Wolf nella Medea, «non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto desiderio di crederci».
Slogan e parole d’ordine si diffondono epidemicamente generando convinzioni a la càrte che aggregano consenso e costituiscono un ghiotto boccone per una politica più intenta ad accodarsi alle processioni dei followers, piuttosto che a guidarle. Assistiamo quasi impotenti alla corruzione delle parole. Nel diritto penale liberale, ad esempio, la locuzione “certezza della pena” suonava come una garanzia, oggi come una minaccia. Ma non si tratta soltanto, per così dire, di un caso di “abusivismo semantico”, bensì della spia di un tralignamento funzionale dello strumento penale: il processo diventa un’arma per combattere la criminalità; il carcere un luogo dove trattenere i colpevoli, i prigionieri, gli sconfitti. Va da sé che a scopi siffatti sono funzionali un diritto penale dalle fattispecie sfumate ed elastiche che dilata la discrezionalità nell’esercizio del potere punitivo e un diritto penitenziario, al contrario, proteso ad ingessare con rigide preclusioni la discrezionalità del magistrato di sorveglianza. Un rovesciamento della concezione costituzionale della giustizia penale.
In un simile contesto, replicare al demagogico “devono scontare sino all’ultimo giorno in galera” “la Costituzione vuole che l’esecuzione della pena tenda al reinserimento sociale del condannato” significa opporre una risposta emotivamente imbelle. Essa anzi finisce per accreditare la diffusa, mistificante impressione che vede, da una parte, coloro che con rassicurante rigore pretendono che la pena detentiva sia scontata fino in fondo, rinchiudendo ermeticamente i pericolosi criminali entro le mura del carcere; dall’altra, i buonisti, gli indulgenzialisti, coloro che sono ossessivamente ed esclusivamente preoccupati della sorte del condannato. Una siffatta risposta non ha presa perché trascura l’interesse di cui invece mostra di farsi carico l’opposto approccio. Mentre questo trasmette un implicito messaggio rassicurante – “non siate preoccupati, questo pericoloso individuo verrà recluso entro mura ben presidiate” – l’altro risponde: “è un suo diritto costituzionalmente garantito veder abbassare i ponti levatoi di quelle mura, se dimostrerà un significativo progresso di riabilitazione sociale”.
Bisognerebbe, invece, contrapporre alle esibite rodomontate punitive un perentorio warning: la segregazione senza speranza mette a grave rischio la sicurezza sociale. Un’affermazione perentoria di cui non sarebbe difficile alla bisogna dimostrare il fondamento. Il proposito di lasciar marcire i detenuti in galera sino all’ultimo giorno della pena inflitta, dobbiamo ribadirlo, non è solo in contrasto con la Costituzione e con la Convenzione europea: è un attentato alla sicurezza sociale. Questa è l’idea che si deve riuscire a inoculare nelle vene mediatiche.
Naturalmente, tutto ciò passa per operatori dell’informazione preparati, che alla grancassa mediatica per un mancato rientro da un permesso premio, sappiano ad esempio rispondere che il numero dei permessi che registrano un insuccesso non raggiunge l’uno per mille e contrapporre con non minore enfasi gli innumerevoli delitti di quanti escono da galera dopo esservi stati segregati appunto sino all’ultimo giorno.
In una “democrazia dell’opinione pubblica” come l’attuale bisogna insomma trovare antidoti comunicativi che sappiano smascherare gli imbonitori di turno, andando sul loro terreno preferito dell’insicurezza e della paura. Se si sapranno opporre accadimenti e slogan demistificatori (naturalmente sorretti dalla testarda realtà delle statistiche), se si saprà forgiare, per così dire, una demagogia costituzionalmente orientata, in grado di trascinare il popolo verso i valori della Costituzione, gran parte della collettività potrebbe accogliere con favore una risposta penale che si faccia più credibilmente carico delle sue inquietudini, senza seminare sentimenti di paura, di odio e di vendetta. Beninteso, e affinché non ci si prenda per ingenui velleitari, siamo ben consapevoli che aveva ragione Mark Twain: «è più facile ingannare la gente, che convincerla che è stata ingannata». E su questo probabilmente fanno affidamento gli impresari della paura, i costruttori di muri; ma dovrebbero ormai aver capito che se è facile svillaneggiarci, è impossibile convincerci a desistere. E anche per questo, oggi, siamo qui. Grazie.