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23 Luglio 2020


Prescrizione, effetti collaterali e rimedi


Lo scritto ripercorre, con qualche aggiunta e l’inserimento delle note, la Relazione al convegno "La questione prescrizione. Dagli espedienti politici alla cultura e tecnica giuridica", organizzato dall’Associazione italiana dei professori di diritto penale (AIPDP), dall’Associazione tra gli studiosi del processo penale “G.D.Pisapia” (ASPP), dall’Università degli studi di Milano (3 luglio 2020).

 

1. È da tempo che il nostro sistema processuale registra una intollerabile negazione del diritto statuale a reprimere gli illeciti penali e del diritto dei privati vittime di reato a veder pronunciata una sentenza di merito sul fatto che li vede coinvolti come persone offese: entrambi gli interessi sono, sicuramente, frustrati dalla sopravvenienza di una declaratoria che statuisce l’intervenuta prescrizione del reato.

Ma la statuizione de qua importa, a dispetto di quello che è un luogo comune, effetti negativi anche per l’imputato.

Occorre, sotto tale aspetto, sgomberare il terreno da un equivoco diffuso e persistente, ossia che la prescrizione avvantaggi unicamente i colpevoli, in quanto per i non-colpevoli sussisterebbe sempre e comunque l’obbligo in capo al giudice dell’assoluzione nel merito. Così non è. In presenza di una causa estintiva del reato, qual è la prescrizione, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato nel merito sussiste solo ed esclusivamente nel caso in cui l’insussistenza del fatto, ovvero l’innocenza dell’imputato, emergano in modo immediato, palese e incontrovertibile, nel senso che la valutazione da parte del giudice deve consistere in una ‘constatazione’ e non in un ‘apprezzamento’ e, pertanto, si devono escludere accertamenti o approfondimenti. Il dato deve risultare con ‘evidenza’, come richiesto dall’art. 129, comma 2 c.p.p. L’imputato non potrà godere di un pieno accertamento di merito: la prevalenza della causa di non punibilità processuale andrà affermata anche nel caso della mancanza e contraddittorietà della prova.

Una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui deve emergere dagli atti processuali, in modo manifesto e positivo, cioè senza necessità di un ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, nel senso preciso che risulti evidente l’assoluta assenza della prova della colpevolezza ovvero la prova positiva dell’ innocenza. A nulla, infatti, rileva l’eventuale semplice contraddittorietà o insufficienza della prova, che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze. Non casualmente la prescrizione è rinunciabile: "l'eventuale declaratoria di prescrizione è la conseguenza di una precisa scelta processuale dell'imputato che, pur avendo interesse ad ottenere una sentenza di merito, non ritenga di rinunciare alla prescrizione”. Infatti, laddove l'imputato rinunci alla prescrizione, potrebbe conseguire un duplice risultato: nel caso di assoluzione (per insussistenza del fatto e per non averlo commesso), anche le pretese della parte civile sarebbero respinte; in caso di condanna, invece, avrebbe la possibilità, in presenza dei requisiti di legge, di promuovere istanza di revisione e, conseguentemente, travolgere, in caso di accoglimento, anche le statuizioni civili".

Per queste ragioni la sentenza di estinzione del reato è appellabile sia dall’imputato, sia dalla parte civile, sia dal p.m.

 

2. Nella consapevolezza della necessità di arginare l’esito processuale che precluda la risposta punitiva si è mossa, in tempi risalenti, la giurisprudenza delle Sezioni Unite.

Per contenere la prassi di impugnazioni meramente delatorie che, a fronte della contemporanea presenza di una causa di inammissibilità dell’impugnazione e di una causa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, imponevano quest’ultima statuizione, le Sezioni Unite hanno dato vita ad un orientamento contrassegnato da una progressiva dilatazione dell’area delle cause originarie di inammissibilità rispetto a quelle sopravvenute ( Cass. Sez. Un., 11 novembre 1994, Cresci, in Cass. pen., 1995, 1165) fino al definitivo abbandono di tale distinzione, attraverso l’elaborazione di una categoria unitaria di inammissibilità dell’impugnazione comprendente, oltre alla mancanza di specificità dei motivi e alla proposizione di motivi non consentiti o non dedotti in sede di appello (Cass. Sez. Un., 30 giugno 1999, Piepoli, in Cass. pen., 2000, p. 843; Cass. Sez. Un., 22 novembre 2000, De Luca, in Giust. pen., 2000, III, 567), anche la loro manifesta infondatezza, posta la mancata realizzazione di un valido rapporto processuale, della possibilità di far valere o di rilevare di ufficio una causa di non punibilità già maturata in sede di merito (v., in successione, Cass. Sez. Un., 22 novembre 2000 De Luca, cit.; Cass. Sez. Un., 27 giugno 2001 Cavalera, Rv 219531; Cass. Sez. Un. 22 marzo 2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164; Cass. Sez. Un., 17 dicembre 2015, dep. 2016, n. 12602 Ricci, Rv. 266819).

La successiva giurisprudenza delle sezioni penali della Corte ha ribadito il principio secondo cui tutte le cause di inammissibilità del ricorso per cassazione (ad eccezione della rinuncia ad un valido atto di impugnazione, costituente causa sopravvenuta di inammissibilità) integrano un vizio intrinseco dell’atto, impediscono la valida costituzione di un rapporto processuale e sono di ostacolo a far valere o a rilevare di ufficio, ex art. 129 c.p.p. la prescrizione del reato.

È noto che, sul piano dell’appello, il rafforzamento della sanzione dell’inammissibilità è stata coltivata dalle Sezioni Unite Galtelli e successivamente dalla riforma che ha investito l’art. 581 c.p.p. (v., volendo, A. Marandola, L’appello riformato, Padova, 2020, 114 ss.).

Del pari, il legislatore preso atto del fatto che statisticamente un (certo) numero ampio di prescrizioni interviene nella fase delle impugnazioni, ha agito, prima, stabilendo un allungamento dei tempi per l’operatività della causa estintiva in quelle fasi [art. 1, comma 11, lett. b) l. n. 103 del 2017] e, più di recente, con un intervento ancora più drastico e asistematico con la l. n. 3 del 2020, attualmente in vigore, ha previsto che il decorso della prescrizione venga sospeso, rectius interrotto, dopo la sentenza di primo grado, indipendentemente dalla natura dell’accertamento provvisorio.

 

3. Sulla base delle considerazioni appena svolte, il legislatore ha ricondotto alla sentenza di prescrizione significativi effetti collaterali innestando, così, alcuni importanti (e indiretti) sviluppi processuali. In rinvio non va tanto a quanto stabilisce l’art. 537 c.p.p., quanto piuttosto a quanto previsto dall’art. 578 c.p.p. e più recentemente dall’art. 578-bis c.p.p.

Già il legislatore del 1988, consapevole delle conseguenze negative per la parte che ha scelto di riversare nel processo penale l'azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno (art. 185 c.p.), ha stabilito non solo la legittimazione della parte civile ad impugnare, in via autonoma rispetto al pubblico ministero, i capi della sentenza di proscioglimento inerenti l’azione civile, ma, in caso di condanna, anche generica, dell’imputato al risarcimento del danno o alle restituzioni, pure il potere del giudice del gravame che dichiari l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione o amnistia di condurre, comunque, l’esame del merito dell’impugnazione ai soli effetti civili.

Si rinviene, in tal caso, uno spazio per ulteriori pronunce del giudice penale in ragione della speciale competenza promiscua (penale e civile) attribuita al giudice penale in conseguenza della costituzione di parte civile, pur venendo meno quell'interesse penalistico alla vicenda che giustificherebbe il permanere della questione in sede penale.

In tal caso, il principio di economia processuale cede e la decisione sugli aspetti civili rimane in capo al giudice penale, competente a pronunciarsi sia sull' an, sia sul quantum della pretesa del danneggiato dal reato.

L’art. 578 c.p.p., che ha riprodotto pressoché integralmente l’art. 13 l. 3 agosto 1978, n. 405, estendendo la normativa stabilita per l’amnistia all'analogo istituto della prescrizione afferma che, quando nei confronti dell'imputato sia pronunciata condanna, anche generica, al risarcimento dei danni, il giudice d'appello e la corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, che siano sopravvenute, decidono sull'impugnazione, ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili: il potere-dovere del giudice dell'impugnazione di decidere sugli effetti civili del reato estinto per prescrizione o per amnistia, presuppone una sentenza di condanna estesa alle statuizioni civili, emessa in primo grado, in assenza di cause estintive già maturate ed erroneamente non dichiarate.

Al di là della questione penale, il giudice dell'appello, nel prendere atto dell'esistenza di una delle predette cause estintive del reato – verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado – deve necessariamente compiere una valutazione approfondita dell'acquisito compendio probatorio, senza essere legato ai canoni di economia processuale, che imporrebbero la declaratoria della causa di estinzione del reato quando la prova dell'innocenza non risulti ictu oculi, esclusivamente ai fini civilistici.

La legge manifesta, in tal modo, la piena scissione fra gli effetti negativi conseguenti alla dichiarazione di proscioglimento per estinzione del reato, da un lato, e quella di conferma (o riforma) della tutela del bene giuridico del risarcimento ex art. 185 c.p., dall’altro lato.

Orbene, è interessante osservare che la qualità e la natura di tale condanna e degli effetti negativi conseguenti, hanno impegnato la parte più autorevole della giurisprudenza a verificare la portata di tale condanna, preceduta da un proscioglimento per prescrizione. In particolare, si è aperta la strada ad alcuni quesiti riguardanti la possibilità per il soggetto prosciolto-condannato di attivare alcuni strumenti di impugnazione.

Una prima, più risalente, questione di diritto è sorta in relazione alla possibile legittimazione alla proposizione del ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p. del condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativamente al capo concernente le statuizioni civili.

L’orientamento negativo ha fatto leva sul dato formale, sul carattere peculiare ed eccezionale del ricorso straordinario, ammesso solo a favore del condannato, vale a dire sull'indicazione del termine "condannato” quale rinvio al soggetto che ha subito una condanna ad una delle pene contemplate dalle leggi penali. L’indirizzo contrario, in maniera innovativa, ha, invece, evidenziato come il rimedio faccia riferimento alla qualità di condannato senza ulteriori distinzioni. La legge non differenzia se deve trattarsi di condanna tout court o anche di condanna ai soli effetti civili: il termine "condannato" può essere giuridicamente, oltre che semanticamente, riferito tanto alle statuizioni sulla azione penale quanto a quelle sulla azione civile (sentenze),

Superati gli aspetti terminologici, valutata la ratio dell’istituto rispondente ai principi affermati dagli artt. 3 e l'art. 24 Cost., nonché sotto uno specifico e significativo aspetto, quale è quello di assicurare la effettività del giudizio di cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost., le Sezioni unite hanno riconosciuto come quel mezzo possa essere impiegato dall'imputato "convenuto" in sede penale dalla parte civile ( Cass. Sez. Un., 21 giugno 2012, n. 28719, Marani, in Dir. pen. cont., con nota di G. Romeo, Le Sezioni Unite sull’ammissibilità del ricorso straordinario per errore di fatto proposto dal condannato ai soli effetti civili). Se, infatti, il titolare della azione di danno o per le restituzioni ex art. 185 c.p., è libero di scegliere la sede processuale nella quale far valere le proprie ragioni nei confronti dell'autore del reato, l'imputato, chiamato a resistere all’ azione civile, subisce la scelta del danneggiato, con l'ovvia conseguenza che, ove si dovesse escludere l'applicabilità dell'art. 625-bis c.p.p., per l'imputato prosciolto dal capo penale, ma condannato per il capo civile, si assisterebbe al bizzarro epilogo di far dipendere l’eliminazione dell'errore di fatto compiuto nel giudizio di cassazione esclusivamente dalle scelta di dove è stata iniziata l'azione di danno da reato operata dal relativo titolare. L'errore sarebbe, infatti, rimediabile in caso di azione esercitata in sede propria, e non emendabile, invece, nel caso in cui l’azione è esercitata in sede penale, pur in presenza di un vizio strutturalmente identico (stesso errore di fatto, di tipo percettivo, attinente alla lettura degli atti interni al giudizio) e di un ugualmente identico tipo di giudizio (davanti alla Corte di cassazione).

Dunque: è legittimato alla proposizione del ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p. anche il condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile che prospetti un errore di fatto nella decisione della Corte di cassazione relativa a tale capo. Ne discende che anche il prosciolto penalmente per prescrizione può vantare delle situazioni sfavorevoli derivanti dalla sola condanna civile in sede penale.

Le stesse argomentazioni, unitamente alla considerazione del valore sotteso alla revisione, hanno consentito al Collegio Riunito di affermare la titolarità del soggetto condannato anche a proporre la revisione, al fine di vedere caducate non solo le statuizioni civili contestualmente confermate (od anche disposte) dalla sentenza di appello che abbia dichiarato l'estinzione del reato per prescrizione, ma anche quelle degli effetti penali, in riferimento alla finalità di ottenere il proscioglimento nel merito, con formula più favorevole, ai sensi dell’art. 129, comma 2 c.p.p. (Cass. Sez. Un., 7 febbraio 2019, n. 6141, Milanesi, in Giur. pen. web 2019, con commento di G. Centamore, La revisione “civile” delle sentenze penali. Le nuove frontiere interpretative dell’impugnazioni straordinarie).

Il riconoscimento della revisione “civile” delle sentenze penali è di particolare importanza in quanto forma di tutela del soggetto prosciolto ai fini penali, ma condannato al risarcimento ex art. 185 c.p. Anche in tal caso le argomentazioni fondate sul riferimento alla sola condanna ed alla tassatività del rimedio sono state superate dalla necessaria individuazione della revisione quale rimedio che supera l’ingiustizia, inaccettabile, del provvedimento

Posto che l'art. 629 c.p.p., indica tra i provvedimenti soggetti a revisione "le sentenze di condanna", senza precisare ulteriormente l'oggetto delle stesse ovvero se esse derivino da un accertamento pieno e, simmetricamente, il successivo art. 632 c.p.p., nell'individuare i soggetti legittimati a proporre la richiesta di revisione, evoca "in maniera altrettanto generica la figura del condannato", atteso che non si può dubitare del fatto che la decisione che accoglie l'azione civile esercitata nel processo penale è una "pronunzia di condanna che presuppone l'accertamento della colpevolezza dell'imputato per il fatto di reato e che il giudice dell'appello può essere chiamato a valutare in maniera inedita ed esclusiva in favore della parte civile, senza essere contestualmente investito agli effetti penali della questione relativa alla responsabilità del presunto autore del fatto di reato, le Sezioni Unite hanno sostenuto che è ammissibile (anche agli effetti penali) la revisione della sentenza dichiarativa dell'estinzione del reato per prescrizione (o per amnistia) che, decidendo, ai sensi dell'art. 578 c.p.p., anche sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni l'imputato al risarcimento del danno (od alle restituzioni) in favore della parte civile.

Ne discende che l'imputato prosciolto per estinzione del reato, ma al tempo stesso ingiustamente condannato agli effetti civili, non potrebbe ricorrere all'istituto della revocazione civile, impraticabile proprio in ossequio al principio di tassatività dei mezzi di impugnazione in difetto di una espressa previsione normativa che legittimi la revoca della sentenza pronunziata dal giudice penale da parte del giudice civile, fuori dai casi previsti dall'art. 622 c.p.p.

D’altro canto, la revisione trova esplicito riconoscimento anche in plurime fonti sovranazionali poste a tutela dei diritti umani ( l'art. 4, 7^ Protocollo addizionale alla Convenzione edu che prevede una deroga al divieto di bis in idem e l’art. 14, § 6, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici).

L’istituto della revisione è mezzo straordinario di difesa del condannato ed è preordinato alla riparazione degli errori giudiziari, mediante l'annullamento delle sentenze di condanna riconosciute ingiuste posteriormente alla formazione del giudicato. Il meccanismo risponde all'esigenza, di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell'innocente, nell'ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità.

Seppur subordinata a condizioni, limitazioni e cautele, nell'intento di contemperarne le predette finalità con l'interesse, fondamentale in ogni ordinamento, alla certezza e stabilità delle situazioni giuridiche ed all'intangibilità delle pronunzie giurisdizionali di condanna, che siano passate in giudicato, l'evoluzione subita dall’istituto lascia trasparire una graduale estensione delle categorie dei soggetti in favore dei quali la revisione dei giudicati penali è stata ammessa, sul riflesso di un sempre più accentuato favor per la tutela degli interessi materiali e morali di chi sia stato a torto condannato.

Il rimedio tutela non solo la libertà o il patrimonio del soggetto, ma anche ad altri diritti fondamentali come quello della onorabilità ed alla dignità morale e sociale dei soggetti: beni morali che devono essere tutelati di fronte alla riprovazione sociale, oggetto ai sensi dell’ art. 185 c.p. delle restituzioni e del risarcimento del danno, nei casi in cui il fatto accertato ne abbia arrecato a terzi.

Il fondamento costituzionale della revisione è individuato dalle Sezioni Unite nella disposizione contenuta nell’art. 24, comma 4 Cost.: sulla scia della condivisa giurisprudenza costituzionale, la funzione della revisione è stata, dunque, ricollegata non soltanto all'interesse del singolo, ma anche all'interesse pubblico e superiore alla riparazione degli errori giudiziari, facendo prevalere la giustizia sostanziale sulla giustizia formale.

 

4. Ciò premesso, è chiaro, tuttavia, come nell’ambito di un sistema sempre più orientato alla semplificazione e snellezza del rito, il problema della permanenza e della riconosciuta facoltà della parte civile di impugnare agli effetti civili la sentenza assolutoria davanti al giudice penale ha, in ragione del principio di economia processuale, posto il problema della sua razionalità e ragionevolezza, nonostante l'irrevocabilità dell'esito assolutorio penale.

Il venir meno dell'interesse penalistico alla vicenda, la ultrattività della deroga allo statuto civilistico posta dall'art. 74 c.p.p. e, soprattutto, la necessità che l'accertamento del reato generatore del danno avvenga nel rispetto dell’intero statuto e dei canoni del giusto processo (art. 111 Cost.), hanno comportato la censura dell’art. 576 c.p.p. nella parte in cui prevede che l’impugnazione della parte civile ai soli effetti risarcitori avverso la sentenza di proscioglimento debba essere proposta, innanzi, al giudice penale e non a quello civile.

Sul punto è stata chiamata a pronunciarsi la Corte costituzionale (v., S. Martelli, Alla Consulta l’art. 576 c.p.p.: continuano e ostilità sul fronte fra azione civile e processo penale, in Dir. pen. cont., 13 marzo 2018).

La questione, sollevata dalla Corte d’Appello di Venezia (App. Venezia, ord. 9 gennaio 2018, Zoppas, in Dir. pen. cont., 13 marzo 2018, 2), più per motivi strutturali ( riforma del giudice unico del 1998, che determinò il passaggio dal sistema pretorile a quello del tribunale in composizione monocratica, senza alcun intervento, tuttavia, sul versante del rito di secondo grado; fallimento dei riti alternativi e incremento delle attività probatorie imposte) che su quelli normativi (così, S. Martelli, Il giudizio di impugnazione promosso dalla parte civile nei confronti della sentenza di proscioglimento resta appannaggio del giudice penale. Note a margine della sentenza n. 176 del 2019, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1724), pone in discussione la scelta discrezionale operata del codificatore del 1988 di attribuire alla corte d’appello penale la competenza per la domanda di impugnazione ai soli effetti civili. Più ragionevole sembrerebbe l’attribuzione della competenza in materia al giudice civile, quale giudice naturale.

L’opzione attuale supera gli ambiti della fisiologia tecnico/politica propria delle scelte del legislatore, assumendo – secondo la Corte d’Appello di Venezia remittente connotati di palese e grave irrazionalità, privi di giustificazione, determinando direttamente ulteriori significativi ed emblematici contesti di denegata tempestiva giustizia, dovendo il giudice penale d’appello scegliere se trattare un processo con reato prossimo alla prescrizione ovvero dare spazio alla trattazione della pendenza ormai di mero interesse civile rinunciando alla propria essenziale funzione di giudice che definisce pendenze penali.

In ordine alla fattibilità di tale, diversa, scelta soccorre l’art. 622 c.p.p. che consente il passaggio del processo dal settore penale a quello civile ogniqualvolta in cassazione l’ oggetto residuo riguardi la sola responsabilità a fini civilistici.

La Consulta, ribadito il carattere accessorio e subordinato dell'azione civile rispetto a quella penale, ha ritenuto che il sistema approntato dal legislatore è coerente con il complessivo regime che regola l'impugnazione della parte civile, per il quale essendo stata la sentenza di primo grado pronunciata da un giudice penale con il rispetto delle regole processual-penalistiche, anche il giudizio d'appello è devoluto a un giudice penale (quello dell'impugnazione) secondo le norme dello stesso codice di rito. Il giudice dell'impugnazione, lungi dall'essere distolto da quella che è la finalità tipica e coessenziale dell'esercizio della sua giurisdizione penale, è innanzi tutto chiamato proprio a riesaminare il profilo della responsabilità penale dell'imputato, confermando o riformando, seppur solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado (Corte cost., n. 176 del 2019, in Dir. pen. cont., 24 settembre 2019, con nota di B. Monzillo, La Corte costituzionale “salva” l’art. 576 c.p.p.: legittima la facoltà per la parte civile di impugnare il proscioglimento ai soli effetti civili). D’altro canto, secondo il giudice costituzionale, in tal senso indirizzano le stesse Sezioni Unite che hanno riconosciuto la ricorrenza dell’interesse all’impugnazione della parte civile nei confronti della sentenza di primo grado che dichiari l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come contro la sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, ove con la stessa si contesti l’erroneità dell’affermazione di avvenuta prescrizione ( Cass. Sez. Un., 3 luglio 2019, n. 28911, p.c. M. F. in c. P.C., in Dir. pen. proc., 2020, 642, con nota di G. Dalia, Le Sezioni Unite sulla legittimazione ad impugnare la sentenza di prescrizione: verso una disciplina unitaria ? ).

Di qui, dunque, la razionalità – a legislazione invariata – dell’impianto del codice di rito per il quale, una volta esercitata l'azione civile nel processo penale, la pronuncia sulle pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile deve avvenire in quella sede: pertanto, anche quando l'unica impugnazione proposta sia quella della parte civile non è irragionevole che il giudice d'appello sia quello penale con la conseguenza che le regole di rito siano quelle del processo penale.

Inconferente appare il richiamo all’art. 622 c.p.p., in quanto, il paradigma nel caso del giudizio di rinvio a seguito dell'annullamento, pronunciato dalla Corte di cassazione, della sentenza ai soli effetti civili, trova la sua giustificazione nella particolarità della fase processuale – essendo i gradi di merito esauriti – collocata all'esito del giudizio di cassazione, dopo i gradi (o l'unico grado) di merito, senza che da ciò possa desumersi l'esigenza di un più ampio ricorso alla giurisdizione civile per definire le pretese restitutorie o risarcitorie della parte civile che abbia, fin dall'inizio, optato per la giurisdizione penale.

Infatti, innovando profondamente la disciplina previgente, il codice del 1988 ha attribuito a quest’ultimo il monopolio sulla scelta della sede in cui vedere accertate le proprie pretese: l’opzione implica l'accettazione delle regole proprie del rito opzionato.

Ora, se è condivisibile la soluzione raggiunta dalla Consulta, sicuramente la questione devoluta meriterebbe una maggiore riflessione da parte del legislatore, anche in ragione del progressivo aggravio dei carichi pendenti dinanzi alle sezioni penali delle corti d’appello e allo sviluppo che ha interessato – opportunamente – il giudizio di seconde cure, seppur in maniera antitetica: alle riforme finalizzate all’accelerazione del rito (l. n. 103 del 2017 e d. lgs. n. 11 del 2018) si contrappone il “congelamento” della decorrenza della prescrizione che consentirebbe al rito d’appello di perdurare nel tempo.

A trent’anni di vigenza del codice v’è da chiedersi, anche alla luce delle molteplici critiche che hanno investito il nuovo regime della prescrizione dopo la fase di primo grado (l. n. 3 del 2020), se sia coerente strutturalmente imporre al giudice penale di secondo grado la conduzione di un processo, volto non più alla deliberazione nel merito sul contenuto della pretesa punitiva pubblica, ma, piuttosto, alla sola cognizione su meri interessi civili, per la quale vi è già sede autonoma adeguata efficace e propria [diversamente, A. Cabiale, La parte civile nei giudizi penali di impugnazione: una presenza sempre gradita (almeno per la Corte costituzionale), in Legisl. pen., 15 gennaio 2020, 16].

Facendo convergere il tema della prescrizione con quello relativo alle pretese civilistiche avanzabili ex art. 185 c.p. nel processo penale sarebbe necessario porre lo sguardo sull’intero assetto dell’azione civile esercitabile, seppur in una posizione ancillare, nell’ambito del processo penale destinato per natura ad assicurare, in primo luogo, l’interesse punitivo dello Stato.

Per concludere, il tema non è tanto quello dell’interesse della parte civile ad impugnare la sentenza che abbia dichiarato l’estinzione del reato caduto in prescrizione, per contestare la fondatezza di tale declaratoria, correttamente riconosciuto dalle Sezioni Unite, quanto piuttosto, alla luce dell’attuale disciplina della prescrizione, quello di ristrutturare il giudizio d’appello affinché questo sia chiamato a riesaminare il (solo) profilo della responsabilità penale dell’imputato, piuttosto che a coltivare il rito per confermare o riformare, seppur solo agli effetti civili, la sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado, allungando, in tal modo, oltremodo i tempi di definizione del rito d’appello, mantenendo “ferma” la qualità d’imputato del soggetto già assolto.

Il tema, come si comprende, coinvolge l’aggravio nei ruoli d’udienza dei giudici penali dell’impugnazione in una situazione di elevati carichi di lavoro, che importa non soltanto – o non più solo – l’impegno da parte del legislatore di «approntare – a maggior ragione, oggi, dopo il lockdown dovuto alla pandemia, opportune (e necessarie) risorse di personale e materiale adeguato, ma anche quello di compiere più coraggiose scelte normative circa i rapporti esistenti fra pretese civili e processo penale, al fine d’attuare una reale deflazione del giudizio di secondo grado.

È chiaro, allora, che per realizzare un tale obiettivo occorrerebbe agire su versanti diversi dalla prescrizione, in senso stretto, e, per mantenere maggior fede all'assetto del codice di rito penale «ispirato all'idea della separazione dei giudizi, penale e civile», far prevalere «l'esigenza di speditezza e di sollecita definizione del processo penale, rispetto all'interesse del soggetto danneggiato di esperire la propria azione nel processo medesimo», strutturando – anticipatamente – il trasferimento in sede civile.

La soluzione qui prospettata consentirebbe, peraltro, il superamento degli essenziali problemi legati al contrasto esistente circa la natura e le regole da applicare al giudizio susseguente l’annullamento con rinvio innanzi al giudice civile (v., per tutti, G. Canzio – G. Iadecola, Annullamento della sentenza penale agli effetti civili: quale giudice e quali regole di giudizio?, in questa Rivista, 20 aprile 2020).

In tal modo non solo si  eviterebbe che l’imputato, benché prosciolto, mantenga –ancorché agli effetti civili – quella qualità, ma, soprattutto, la maturazione di quell’alto numero di prescrizioni che affligge anche la fase del giudizio d’appello.