ISSN 2704-8098
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  Recensione  
29 Aprile 2024


Una proposta rieducativa basata sul dare fiducia e responsabilità ai ragazzi "difficili"

Prefazione al libro di Don Claudio Burgio, Non vi guardo perché rischio di fidarmi. Storie di cadute e di resurrezione, San Paolo Edizioni, 2024



(N.d.r.) Con l'autorizzazione della casa editrice, pubblichiamo di seguito il testo della prefazione della Prof.ssa Marta Cartabia al libro di Don Claudio Burgio, "Non vi guardo perché rischio di fidarmi. Storie di cadute e di resurrezione", San Paolo Edizioni, 2024. L'Autore del libro è Cappellano dell'Istituto Penale Minorile "Cesare Beccaria" di Milano e Presidente/Fondatore dell'Associazione Kayros, che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti con l’obiettivo di offrire supporto e alloggio a minori in difficoltà segnalati dal Tribunale per i Minorenni, dai Servizi Sociali e dalle forze dell’Ordine. 

 

 Partiamo da un fatto. Poco più di un anno fa, il pomeriggio di Natale del 2022, sette ragazzi evadono dall’Istituto penitenziario minorile Cesare Beccaria di Milano. Nella concitazione del momento, alcuni appiccano il fuoco nelle celle e nel cortile. In pochi giorni i ragazzi saranno rintracciati e rientreranno in carcere, ma quel 25 dicembre 2022 resterà una pietra di inciampo, anche per il valore simbolico del momento prescelto. Un fatto così induce a interrogarsi sulle ragioni della fuga e, soprattutto, a pensare a risposte adeguate. Ma la vera notizia è quella che don Claudio Burgio riporta senza alcuna enfasi in una pagina di questo libro: « B., uno dei sette “babbi Natale” evasi, nel corso dell’anno è venuto ad abitare in Kayròs dove i cancelli sono aperti giorno e notte: nei mesi in cui è stato con noi, non si sono registrate fughe».

È paradossale, ma sorprendentemente reale: i ragazzi ribelli che riescono a evadere, sfuggendo a tutti i controlli e alle misure di sicurezza, non si allontanano da una comunità che lascia le porte aperte. Un ragazzo che evade dall’istituto penitenziario sa bene di correre rischi seri, ma la minaccia dell’inasprimento della sua condizione non riesce a frenarlo; eppure, quello stesso ragazzo, non fugge dalla comunità a cui è stato affidato, anche se sa di poterlo fare senza difficoltà. Questo contrasto suscita interrogativi ineludibili. Perché restare se te ne puoi andare? Perché l’attrattiva della vita normale della città, che si svolge a pochi passi dai cancelli della comunità, non prevale su quella della vita insieme agli altri ragazzi in difficoltà che risiedono a Kayròs? Gli interrogativi diventano ancor più pressanti se si considera che la scelta di B., di rimanere pur potendosene andare, non è un’eccezione isolata. Molte sono le storie di ragazzi che sono arrivati nella comunità Kayròs dopo tante peregrinazioni, fughe, fallimenti anche in altre realtà educative. Tuttavia, chi arriva a Kayròs tendenzialmente rimane.

Questo fatto mi ha evocato l’esperienza brasiliana delle Apac, Associazione di protezione e assistenza ai condannati: una rete di realtà carcerarie dove i detenuti hanno le chiavi delle celle e dell’istituto. Il modello di detenzione delle Apac è riconosciuto tra i più riusciti al mondo. Per l’Onu rappresenta il più efficace sistema di recupero in assoluto. Qual è il punto comune di forza di queste esperienze? Una proposta educativa, o rieducativa (per richiamare il senso della pena come descritto nella nostra Costituzione), basata sul dare fiducia.

Dare fiducia e responsabilizzare i ragazzi. « Il nostro tentativo è quello di puntare più sulla libertà che sulle regole»: così si legge nel sito di presentazione della comunità Kayròs. E in effetti, se un ragazzo decide di rimanere per scelta, e non per costrizione, il suo percorso sarà più convinto e fruttuoso. Ho visto con i miei occhi cosa possa significare questa scommessa sulla fiducia in varie occasioni e in particolare durante le vacanze della comunità Kayròs a Valles, in val Pusteria, la scorsa estate. Poche regole essenziali e giornate dense, piene di proposte attraenti: rafting, mountain bike, piscina, biliardo, parco avventura. Per i più tenaci un trekking verso le cime più belle. La sera, dopo cena, del tempo per lavorare su sé stessi, che replica in qualche misura un momento centrale della proposta educativa di Kayròs: l’appuntamento settimanale della koinè, in cui si condividono esperienze, scoperte, fatiche, delusioni.

In montagna, per stimolare il dialogo, si proietta ogni giorno un breve brano di un docufilm che racconta la storia di don Pino Puglisi, il sacerdote del quartiere Brancaccio di Palermo, assassinato dalla mafia a cui sottraeva, per attrazione, i ragazzi di strada. Al netto delle dovute differenze di contesto, le dinamiche sono le stesse che questi ragazzi vivono nelle periferie delle grandi metropoli, dove nella desolazione sociale si fa strada la possibilità di guadagno facile attraverso lo spaccio, i furti e le rapine. Dopo la proiezione, don Claudio non commenta, non fa prediche, non snocciola regole morali. Si rivolge a loro con una domanda soltanto: « Perché don Puglisi ha rifiutato i soldi che gli volevano “donare”? Non ne aveva forse bisogno? Perché dire “no” a quel regalo?». Una sola provocazione, per far pensare, per attivare il senso critico. Don Claudio è così: provoca continuamente la responsabilità di ciascun ragazzo. Non li trattiene con regole, minacce e sanzioni. Ma neppure lascia correre: li pone continuamente davanti alle loro responsabilità.

Questo è lo stile della vita a Kayròs. Lo racconto con un episodio, piccolo ma emblematico, che si è svolto sotto i miei occhi. Durante le vacanze a Valles, la casa è autogestita e c’è da cucinare per un centinaio di persone: colazione, pranzo e cena. In cucina c’è Davide, del carcere di Opera, ora in semilibertà. Un metro e novantacinque, napoletano, viso aperto e allegro, sempre autorevole e accogliente con tutti. Con lui tanti volontari, mentre i ragazzi entrano ed escono in continuazione, per dare una mano o per chiedere qualcosa da mangiare.

Uno di loro, A., sembra un bambino, eppure ha a suo carico imputazioni pesanti, per lesioni gravi e, credo di capire, tentato omicidio. 15 o 16 anni a malapena e l’indomani una udienza del processo. È teso, si apparta, non sta con gli altri ragazzi: Davide lo vede, lo chiama e si rivolge a lui non senza una certa ironia: «Tu che sai maneggiare così bene i coltelli [sic!], vieni ad aiutarci con le patate». Si mette accanto a me e tagliamo venti chili di patate. Poi, quando abbiamo finito, Davide si rivolge a me e mi dice: «Dai, contiamo i coltelli per essere sicuri che siano rimasti tutti in cucina».

Ci sono tutti. Dare fiducia. Il primo frutto si vede nel fatto che questi ragazzi si aprono, raccontano il loro vissuto, il loro dolore, la desolazione e l’abbandono che li abita. Nel dialogo con don Claudio superano la diffidenza che istintivamente nutrono nei confronti di tutti gli adulti. Dare fiducia fa guadagnare fiducia: di don Claudio i ragazzi si fidano, perché sa trovare la chiave di accesso alle loro personalità ermetiche, e sa trovare il modo per consentire a ciascuno di “dirsi”. Se non riescono a farlo con le parole, don Claudio li invita a farlo con la musica: con il rap e il trap.

Don Claudio è un musicista raffinatissimo, per anni responsabile del coro di voci bianche nel Duomo di Milano, ma non esita a misurarsi con le espressioni musicali più consone ai ragazzi, per noi adulti così ostiche. I ragazzi si riconoscono nei testi di Marracash e allora, perché non sperimentare un laboratorio musicale, in cui i ragazzi possano esprimere il loro vissuto? Marracash è il loro modello. Ma loro stessi si cimentano in prima persona e diventano autori di testi e di canzoni.

Durante la cena di Natale 2023 don Claudio ha invitato alcuni dei suoi ex ragazzi: alcuni di loro ora sono sposati e giovani padri, altri si sono laureati e lanciati nella loro vita professionale, altri ancora sono tornati a Kayròs in veste di educatori. Vederli lì sul palco a parlare ai ragazzi più giovani, a condividere il loro cambiamento e la loro seconda vita è davvero un segno di speranza per tutti. Don Claudio chiosa con poche parole: « Il bene esiste, e la vita di questi ragazzi ne è la prova».

Ed è proprio così: puntare sulla fiducia e sulla possibilità di cambiamento dei ragazzi “difficili” non è per sognatori, come siamo tentati di pensare. Sono le vite cambiate di questi ragazzi a vincere la nostra incredulità. Occorrono adulti autentici e credibili agli occhi dei ragazzi, capaci di rischiare tutto sulla loro libera decisione di stare alla proposta educativa che viene loro offerta.