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  Scheda  
25 Novembre 2024


“Disorientamenti giurisprudenziali” sulla confisca nel riciclaggio (art. 648-quater c.p.)

Cass. Pen., Sez. V, 8 maggio 2024 (dep. 7 agosto 2024), n. 32176, Pres. Pezzullo, rel. Cavallone



1. La sentenza della Corte di Cassazione n. 32176/2024 si propone di tracciare il perimetro del provento confiscabile ex art. 648-quater c.p. nei casi di riciclaggio/illecito reimpiego ed è stata così massimata ufficialmente: «In tema di confisca per equivalente conseguente al reato di riciclaggio, il provvedimento ablatorio deve essere disposto per il valore corrispondente alle somme oggetto delle operazioni dirette a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa, anche se non corrispondenti all’utilità economica tratta dal riciclatore e non appartenenti a quest’ultimo».

Nell’ambito della sentenza annotata, la Quinta Sezione Penale si sofferma sulle nozioni di “prodotto”, “prezzo” e “profitto” nei delitti di riciclaggio e di illecito reimpiego, stabilendo che, ai sensi dell’art. 648-quater c.p., è suscettibile di confisca non solo l’effettiva utilità economica ritratta dal fatto illecito – che il Collegio qualifica come prezzo del riciclaggio – ma anche le stesse somme provenienti dal reato-presupposto, per il sol fatto di essere state impiegate per la commissione del riciclaggio (le «somme oggetto delle operazioni dirette a ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa»), qualificate queste ultime dalla Quinta Sezione come prodotto confiscabile.

 

2. Sul tema esaminato dalla Corte di Cassazione è tutt’oggi aperto un contrasto giurisprudenziale particolarmente delicato e dalle notevoli conseguenze teorico-pratiche, considerata la natura notoriamente afflittiva della confisca per equivalente.

Alcune sentenze condividono l’interpretazione estensiva fornita dal collegio di legittimità nella sentenza annotata, affermando che, «in tema di confisca per equivalente, il profitto dei reati di riciclaggio e reimpiego di denaro è rappresentato dal valore delle somme oggetto delle operazioni dirette ad ostacolare la provenienza delittuosa, poiché, in assenza di quelle operazioni, esse sarebbero destinate ad essere sottratte definitivamente, in quanto provento del delitto presupposto»[1].

In altri termini, siccome il riciclaggio/reimpiego ha natura di reato “occultante” e consente al reo di ostacolare l’individuazione della provenienza delittuosa della res riciclata, tutte le somme oggetto di condotta riciclatoria sarebbero, ipso iure, qualificabili come “provento del riciclaggio”, a prescindere dal fatto che il soggetto agente sia poi riuscito a ritrarre, dallo specifico delitto ex artt. 648-bis o 648-ter c.p., una ulteriore utilità di natura economica: in tal caso, infatti, il “prodotto” ritratto dall’autore del riciclaggio consisterebbe già solo nel mero camuffamento dell’intera somma derivante del reato-presupposto e poi riciclata, mentre l’eventuale ulteriore utilità derivante da detto investimento potrebbe al più integrare un aggiuntivo prezzo del reato, oggetto di ulteriore e separata confisca[2].

Secondo l’orientamento più restrittivo e anch’esso recente, invece, «in tema di riciclaggio, la confisca per equivalente del profitto del reato è applicabile solo con riferimento al valore del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dal “riciclatore” e non sull’intera somma derivante dalle operazioni poste in essere dall’autore del reato presupposto, poiché, non essendo ipotizzabile alcun concorso fra i responsabili dei diversi reati, la misura ablativa non può essere disposta per un importo superiore al provento del reato contestato»[3].

Il principale argomento in favore di questa seconda tesi attiene all’impossibilità di estendere all’autore del riciclaggio l’intera confisca che, in ipotesi, sarebbe applicabile all’autore del reato-presupposto: se il “principio solidaristico” è stato, in alcuni casi, richiamato per estendere l’identica confisca a tutti i concorrenti ex art. 110 c.p. nel medesimo delitto di riciclaggio[4], la confiscabilità ex art. 648-quater c.p. dell’intero importo “investito” – e non già della sola utilità ritratta – comporterebbe, di fatto, l’estensione all’autore del riciclaggio di una confisca ipoteticamente gravante su un soggetto non concorrente, ossia – come detto – l’autore del reato-presupposto[5].

 

3. Nell’attesa che le Sezioni Unite intervengano auspicabilmente in subiecta materia, sanando il contrasto giurisprudenziale in questione, è opportuno esaminare gli argomenti spesi dalla Quinta Sezione della Cassazione nella sentenza n. 32176/2024 recentemente depositata.

 

3.1. Afferma anzitutto il Collegio che, «se davvero il legislatore avesse voluto far confiscare solo quelle utilità economiche proprie del riciclatore (ovvero, secondo quanto detto, il compenso o l’utile dal medesimo ritratto dal delitto de quo) avrebbe dovuto utilizzare, a ben vedere, proprio (e solo) la locuzione «prezzo del reato». Sicché l’avere indicato anche il prodotto ed il profitto non può che significare che l’intento del legislatore fosse quello di “colpire” l’illecito ben al di là del mero utile del riciclatore (invero solitamente scarsamente significativo, sotto il profilo economico, rispetto ai reali benefici perseguiti con il riciclaggio e ai ben più rilevanti danni da esso cagionati)» (§ 2.5).

«Indice della chiara volontà del legislatore di reprimere duramente il riciclaggio» – soggiunge la Cassazione al § 2.6 della decisione – «è la pena edittale stabilita per tale reato, particolarmente elevata, sia nel minimo che nel massimo: certamente ben più alta di molti dei reati-presupposti alla conservazione dei cui proventi illeciti il delitto in questione è funzionale (come nel caso di specie, in cui i reati-presupposti – di truffa – sono puniti di gran lunga in modo meno grave rispetto al delitto di riciclaggio).

Altro chiaro segno dell’elevata gravità che il legislatore attribuisce a tale fattispecie è l’estensione, ai delitti ex artt. 648-bis e 648-ter cod. pen., dell’ultimo comma dell’art. 648 cod. pen., che prevede la loro punibilità persino quando non possa neanche procedersi a sanzionare il reato presupposto per la mancanza di una condizione di procedibilità (ad esempio, per l’assenza di querela)».

Ebbene – tralasciando la questione se l’utilità ritratta dal riciclaggio integri il prezzo (come afferma la Cassazione) oppure il profitto del riciclaggio/reimpiego – il topos della “pena edittale” menzionato dalla Corte non sembra convincente: il sostenere che, siccome un determinato delitto risulta punito dal legislatore con pene gravi ed elevate, a questo punto anche il perimetro del provento confiscabile dovrebbe essere interpretato in chiave (altrettanto) lata ed estensiva non sembra corretto, in quanto i due piani – pena e confisca – sono ovviamente autonomi e distinti, nella ratio e nella disciplina legislativa.

Peraltro, nel nostro sistema vigente, esistono reati gravi per i quali non è contemplata alcuna speciale confisca, al di là di quanto già non preveda l’art. 240 c.p. – pensiamo, ad esempio, alla bancarotta fraudolenta – e, di converso, le confische speciali e per equivalente proliferano ormai anche in relazione a fatti illeciti di non elevata gravità.

Semmai, il principio di proporzionalità, oggi ritenuto come cardine della materia penale, sembra raccomandare il contrario rispetto a quanto argomentato dalla Sezione Quinta: quanto più la sanzione edittale detentiva (nel caso di specie, la reclusione da quattro a dodici anni) e pecuniaria (nella specie, la multa da euro 5.000 a euro 25.000) risulti già particolarmente gravosa per il reo, tanto più il perimetro del provento confiscabile dovrebbe essere interpretato in modo stringente (a fortiori, nel caso di confisca per equivalente), proprio al fine di evitare l’irragionevole moltiplicazione di sanzioni (si tratta dell’argomento speso dalla stessa Corte di Cassazione[6] per rimettere alla Consulta la questione della legittimità costituzionale dell’art. 2641, co. 1 e 2, c.c., in tema di aggiotaggio e ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza).

 

3.2. In secondo luogo, al § 2.7 della sentenza, si afferma che, «dal punto di vista sistematico, se il legislatore (nonostante la detta lata formula legislativa) avesse inteso colpire solo l’utile conseguito dal riciclatore, la norma, introdotta dall’articolo 72, comma 4, d.lgs. 231/2007 (Attuazione della direttiva 2005/60/CE […] nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure di esecuzione) avrebbe avuto una ben modesta portata innovativa, limitandosi, di fatto, ad estendere la previsione della confisca obbligatoria per il prezzo del reato (già imposta dall’articolo 240, comma 2, n. 1, cod. pen. nei casi di condanna) anche alle ipotesi di patteggiamento della pena».

Anche tale argomento di voluntas legis non appare dirimente: è assai frequente che le disposizioni normative – specie in tema di confisca – si affastellino in modo talvolta disorganico e che il legislatore sovrapponga nuove confische alle misure ablative già previste aliunde.

Peraltro, nel caso di specie, la natura innovativa dell’art. 648-quater c.p. rispetto all’art. 240 c.p. è evidente: la prima disposizione, a differenza della seconda, prevede (anche) la confisca per equivalente dei proventi del reato, e in ciò consiste anzitutto la sua dirompente novità, più che nella natura obbligatoria della confisca del prodotto e del profitto.

Ad ogni modo, il tentativo di estendere il perimetro dell’art. 648-quater c.p. argomentando che, in caso contrario, quest’ultima disposizione risulterebbe superflua rispetto a quanto già previsto dall’art. 240 c.p., per quanto possa essere suggestivo, non appare di per sé convincente poiché, rispetto alla citata voluntas legis, sembrano prevalere gli argomenti tecnico-giuridici che verranno di seguito accennati.

 

3.3. Ancora: per la Sezione Quinta della Cassazione, un’interpretazione estensiva dell’art. 648-quater c.p. sarebbe, altresì, giustificata dal raffronto con la “confisca allargata” prevista dall’art. 240-bis c.p.: anche in relazione ai c.d. “reati-spia” del riciclaggio e dell’illecito reimpiego, infatti, quest’ultima disposizione prevede la confisca «del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito».

«Di fronte alla latitudine ablatoria prevista da tale ultima disposizione» – sostiene la Corte – «un’interpretazione “abrogante” (più che restrittiva) delle ipotesi di confisca (oltre al prezzo) previste dall’articolo 648-quater cod. pen. apparirebbe davvero scarsamente coerente con l’ordinamento giuridico».

Ebbene, l’argomento impiegato dalla Cassazione consisterebbe nel confronto “sistematico” tra la confisca ex art. 648-quater c.p. e la confisca allargata ex art. 240-bis c.p.; come noto, tuttavia, si tratta di istituti che, nonostante l’identico nomen iuris, appaiono radicalmente distinti per la ratio, la portata e la loro struttura sostanziale e processuale.

Infatti, l’art. 648-quater c.p. contempla, come noto, una misura di sicurezza (la confisca diretta del primo comma) analoga a quelle di cui all’art. 240 c.p. e una confisca para-penale (la confisca per equivalente del secondo comma); di contro, l’art. 240-bis c.p. disciplina una confisca “ibrida”, intesa come misura di prevenzione o comunque di para-prevenzione, fondata sulla diade “reato spia/sproporzione”.

Pertanto, sostenere che, siccome per il reato-spia del “riciclaggio” il legislatore già prevede una confisca allargata particolarmente ampia, allora anche l’art. 648-quater c.p. dovrebbe poi essere interpretato in chiave altrettanto estensiva appare come un “salto logico” non condivisibile.

Anche il tal caso, sembrerebbe valere il contrario: proprio il fatto che il legislatore, per gli stessi fatti illeciti, abbia via via aggiunto sempre nuove forme di sanzione o di para-sanzione (la pena detentiva, la pena pecuniaria, la confisca di sicurezza diretta, la confisca per equivalente, la confisca allargata “diretta”, la confisca allargata per equivalente…) dovrebbe raccomandare all’interprete una particolare prudenza e non già il ricorso alla menzionata vis expansiva, soprattutto nella parte in cui l’art. 648-quater, co. 2, c.p. prevede una confisca per equivalente.

 

3.4. Aggiunge ancora la Suprema Corte che, per giurisprudenza pacifica, «affinché sia emessa condanna per i delitti di ricettazione, riciclaggio e autoriciclaggio, non è necessario l’accertamento definitivo del delitto presupposto, essendo sufficiente che lo stesso non sia stato giudizialmente escluso in via definitiva e che il giudice procedente (per la ricettazione, per il riciclaggio, per l’autoriciclaggio) abbia avuto la prova logica della provenienza illecita delle utilità oggetto delle operazioni compiute, senza che sia necessario, cioè, ricostruire tutti gli estremi storici e fattuali e individuare i responsabili».

Da ciò deriverebbe che, «in tali (non rari) casi, la lettura prospettata dal ricorrente garantirebbe al riciclatore (ed al beneficiario del delitto di cui si discute) di mantenere il reale (e, come detto, solitamente molto più consistente, rispetto al prezzo del delitto) utile illecito perseguito con l’attività delittuosa posta in essere (essendovi certezza della loro provenienza da delitto, ma senza che esso sia accertato, e sanzionato, nello specifico): il che, oltre che scarsamente logico in sé, sarebbe anche in palese contrasto con la detta (chiara) voluntas legis, di reprimere duramente tali fenomeni economici, causa di rilevantissime distorsioni del libero mercato ai danni di chi vi opera lecitamente».

L’argomento “prasseologico-criminologico” richiamato dalla Quinta Sezione appare peculiare.

In esso sembra implicitamente sostenersi che, siccome nella prassi è spesso difficile accertare i fatti di reato-presupposto e, dunque, diventa arduo confiscarne i relativi proventi, allora sarebbe necessario estendere la portata dell’art. 648-quater c.p. in quanto proprio la confisca speciale prevista per il riciclaggio/reimpiego consentirebbe di colmare tale “lacuna ablatoria” e di requisire ricchezze che, altrimenti, l’ordinamento non sarebbe in grado di rimuovere efficacemente.

A fronte di questo ulteriore topos, appare necessario rammentare che è lo stesso orientamento prevalente – quello cioè per il quale, ai fini di una condanna ex artt. 648, 648-bis e 648-ter c.p., sarebbe sufficiente accertare il reato-presupposto anche solo «per sommi capi»[7] – ad apparire non condivisibile: per quale motivo, infatti, per tutti i reati è necessario accertarne i relativi elementi essenziali (oggettivi, soggettivi, di punibilità, etc.) oltre ogni ragionevole dubbio e in modo puntuale, mentre nei soli delitti di ricettazione, riciclaggio e illecito reimpiego sarebbe sufficiente “accontentarsi” di una blanda ricostruzione approssimativa e «per sommi capi» (sic), seppur con riferimento al solo reato-presupposto?

Al netto di ciò, non sembra che l’argomento de quo possa giustificare, in tema di riciclaggio, un’interpretazione estensiva della confisca per equivalente; anzi, proprio nei casi in cui non sia stato possibile accertare oltre ogni ragionevole dubbio – nell’an e nel quantum – l’entità del provento del reato-presupposto dovrebbe allora imporsi, a questo punto, un’applicazione “parsimoniosa” e restrittiva dell’art. 648-quater c.p.

Infine, l’interpretare estensivamente (o analogicamente) la confisca per equivalente ex art. 648-quater c.p. adducendo come ratio il fatto che l’ordinamento, de facto, non sia in grado di perseguire adeguatamente i reati-presupposto e di confiscarne i relativi proventi sembra integrare una sorta di sviamento di potere, vale a dire il ricorso a un determinato istituto sanzionatorio (o para-sanzionatorio) al di fuori dei suoi limiti normativi e delle finalità che gli sono proprie; e ciò, peraltro, a carico di un soggetto che, non essendo autore o concorrente nel reato-presupposto, non ha nemmeno generato o concorso a generare il relativo provento.

 

3.5. Al § 2.9 della sentenza commentata si legge ancora: «davvero inequivoca appare, allora, l’estensione della confisca (oltre che al prezzo del riciclaggio, anche) al prodotto: laddove non si vede ragione per escludere, da tale nozione, anche la trasformazione che ogni bene riciclato (ivi incluso il denaro) subisca in virtù dell’opera mistificatoria del riciclatore. Anzi, è proprio l’oggettiva essenza del delitto in esame (insito nel compiere «operazioni» di trasformazione od occultamento di beni di origine delittuosa, «in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa») che dà “corpo”, ex se, alla nozione di prodotto, così come definita dalla giurisprudenza».

In definitiva, dopo avere correttamente ribadito che è «prodotto del reato il risultato empirico del reato (ovvero le cose create, trasformate, adulterate mediante esso» (§ 2.4), la Cassazione sostiene che, nel riciclaggio, l’intera somma proveniente dal reato-presupposto e impiegata illecitamente – ad esempio, investita in borsa o in una attività imprenditoriale – rappresenterebbe eo ipso il prodotto del riciclaggio stesso, a prescindere dalla concreta utilità poi ritratta dal reato.

Si tratta di una tesi che si ricollega alla recente tendenza ad interpretare estensivamente il concetto di “prodotto”, tesi per la quale costituirebbero «prodotto dei reati di riciclaggio, di reimpiego e di autoriciclaggio non solo i beni oggetto di trasformazione per effetto della condotta illecita, che, in quanto tali, presentano caratteristiche identificative alterate, modificate o manipolate, ma anche i beni e i valori che, pur non avendo subito modificazioni materiali, risultano diversamente attribuiti in termini di titolarità ed ai fini delle regole di circolazione, per effetto di operazioni negoziali»[8].

Nella presente sede e nell’ambito di una semplice “scheda giurisprudenziale”, non è possibile approfondire l’argomento; tuttavia, non può tacersi che un’interpretazione estensiva del concetto di “prodotto” – un tempo relegato ai soli proventi materiali ed empirici del reato – potrebbe condurre all’ulteriore “virtualizzazione” dell’oggetto della confisca, istituto che presenta oggi una vis expansiva la quale dovrebbe essere in qualche modo attenuata e non ulteriormente aggravata.

Sostenere che le somme di denaro, provenienti dal reato-presupposto e “investite” in una attività ex art. 648-bis o 648-ter c.p., costituiscano di per ciò solo prodotto del riciclaggio o del reimpiego, per il sol fatto di essere state impiegate illecitamente, appare una tesi che dovrebbe essere rimeditata, tenendo ferma la nozione strettamente materiale ed empirica del concetto di “prodotto” e limitando al solo “prezzo” e “profitto” i proventi di natura non già materiale bensì puramente economica o “nominale”.

 

3.6. Infine, si giunge all’argomento “europeo”: la decisione-quadro 2001/500/GAI del Consiglio dell’Unione Europea del 26 giugno 2001, la decisione-quadro 2005/212/GAI del Consiglio dell’Unione Europea del 24 febbraio 2005 e la recente Direttiva UE 2024/1260 del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 aprile 2024 imporrebbero, a parere della Quinta Sezione, un’interpretazione estensiva dell’art. 648-quater c.p.

Siccome il legislatore, in quest’ultima disposizione dalla «non felicissima formulazione», adopera indifferentemente i termini “prodotto”, “prezzo” e “profitto”, e siccome le predette fonti europee definiscono il “provento” come «ogni vantaggio economico derivato, direttamente o indirettamente, da reati», anche se a seguito di «reinvestimento o trasformazione di proventi diretti», da ciò dovrebbe dedursi «la volontà del legislatore di assoggettare a confisca qualsivoglia ricchezza illecita generata dal delitto di cui si tratta, ove pure non più nella disponibilità del riciclatore o, comunque, ove pure corrisponda all’originario profitto (o prezzo o prodotto) del reato presupposto» (§§ 2.9 ss.).

Ebbene, è pur vero che la nozione “europea” di confisca – peraltro così ampia da abbracciare potenzialmente tutte le forme di ablazione penale o para-penale come le misure di sicurezza, le sanzioni pecuniarie lato sensu sanzionatorie e, con certi limiti, le stesse misure di prevenzione – appare, come osservato dalla Suprema Corte, come particolarmente lata e onnicomprensiva; pur tuttavia, anche laddove il legislatore euro-unitario richiama i concetti di «reinvestimento o trasformazione» delle cose provenienti da fatto illecito, il susseguente provvedimento di confisca rimane pur sempre connesso a «ogni vantaggio economico derivato, direttamente o indirettamente, da reati» e deve, in ogni caso, coordinarsi con la normativa nazionale di volta in volta interessata.

La stessa Quinta Sezione, nel passaggio motivazionale appena citato, afferma che, dalla corretta interpretazione della normativa europea, si dedurrebbe «la volontà del legislatore di assoggettare a confisca qualsivoglia ricchezza illecita generata dal delitto di cui si tratta»: la dicitura appare in sé corretta e presuppone, per l’appunto, la generazione di nuova ricchezza in sede di riciclaggio; qualora, invece, il fatto di riciclaggio o reimpiego non abbia creato alcun provento ulteriore, limitandosi a trasformare “a parità di bilancio” o persino “in perdita” il provento del reato-presupposto, appare a questo punto improprio il ricorso alla confisca ex art. 648-quater c.p., poiché non si è in presenza di alcun ulteriore provento da confiscare, se non il provento già generato dal fatto-presupposto.

 

3.7. Qui si giunge all’ultima considerazione suscitata dalla sentenza n. 32176/2024 della Cassazione.

Come sopra anticipato, la Suprema Corte afferma che, siccome i delitti di riciclaggio e reimpiego hanno, quale elemento essenziale del fatto tipico o comunque quale effetto giuridico-materiale, il «camuffamento della provenienza delittuosa della res impiegata», a questo punto l’intera res provento del reato-presupposto e poi riciclata meriterebbe di essere confiscata ai sensi dell’art. 648-quater c.p., per il sol fatto di essere stata utilizzata nell’attività di riciclaggio/reimpiego e a prescindere dalla creazione ex novo di nuovo profitto in capo al soggetto riciclatore.

Ad esempio: se un imprenditore ritrae, dal reato-presupposto di natura fiscale, un provento di € 100.000 e il suo consulente finanziario impiega interamente tale somma in un investimento bancario ex art. 648-ter c.p., questo stesso importo costituirà di per sé il prodotto del fatto riciclatorio e potrà essere interamente confiscato per equivalente al consulente, persino nel caso in cui dall’investimento fosse derivata la perdita integrale del capitale: infatti, si afferma, proprio tramite la condotta riciclatoria si sarebbe generata l’utilità di occultare la provenienza delittuosa del denaro, provento del reato tributario.

La tesi giuridica del camuffamento come “provento” di reato – nella specie, prodotto del riciclaggio – suscettibile come tale di autonoma confisca non appare condivisibile.

Lo stesso sostantivo “provento”, nella lingua italiana e poi nel linguaggio giuridico-penalistico, sta a indicare univocamente una res – bene mobile o immobile, denaro o altro valore – che prima della commissione del reato – nella specie, prima del riciclaggio – non esisteva e che proviene, per l’appunto, dal reato stesso.

L’espediente retorico-argomentativo della “manipolazione”, della “trasformazione” o del “camuffamento” del denaro o di altro bene, pur potendo sembrare convincente, non appare idoneo a superare il dato logico-giuridico: è provento di reato – qualificabile come prodotto, prezzo o profitto – solo una qualche entità economica venuta alla luce, creata, generata dal reato.

Una res o una somma di denaro che preesistesse già al fatto di riciclaggio, in quanto proveniente da altro fatto illecito (il reato-presupposto, per l’appunto), non può dirsi tecnicamente “provento” del riciclaggio e, dunque, non appare confiscabile a mente dell’art. 648-quater c.p.; semmai, essa potrà essere confiscata quale provento del reato-presupposto, ammesso che in relazione a quest’ultimo sia prevista dalla legge la relativa forma di confisca.

Seguendo, invece, la tesi espressa dalla Corte di Cassazione, si giungerebbe a qualificare come provento (e, in particolare, prodotto) di reato la somma di denaro che preesisteva al fatto di riciclaggio, vale a dire la somma che era stata generata dal reato-presupposto. Ma tale affermazione appare sprovvista di fondamento giuridico, in quanto detto denaro, semmai, rientra nella nozione di «cose che servirono o furono destinate a commettere il reato», la quale è menzionata dall’art. 240, co. 1, c.p. ma non certo dall’art. 648-quater c.p.

La stessa Suprema Corte[9], nella già citata ordinanza di rimessione alla Consulta della questione di legittimità costituzionale dell’art. 2641, co. 1 e 2, c.c., ha dato per pacifico che le somme di denaro preesistenti ad un certo fatto di reato e impiegate (in quel caso) per la commissione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza rientrano nel genus dei «beni utilizzati per commettere [il reato]», e non certo nella nozione di provento o di prodotto del reato.

In ipotesi, la tesi qui criticata potrebbe essere sostenuta solo se l’art. 648-quater c.p. consentisse la confisca di una qualsiasi utilità derivante da reato, impiegando così il sostantivo “utilità” di cui, ad esempio, al peculato, alla corruzione, alla concussione e all’induzione indebita: infatti, il “camuffamento” di una cosa proveniente da reato potrebbe essere intesa, lato sensu, come una “utilità” (salvo, poi, la difficoltà di quantificarne il relativo valore ai fini dell’ablazione); di contro, la predetta disposizione continua a richiamare le sole categorie “tradizionali” del prodotto, prezzo e profitto – species del genus “provento” – le quali non possono essere estese fino a ricomprendere, al loro interno, il concetto iper-generico di “utilità”.

Peraltro, la confiscabilità per equivalente e per intero del denaro riciclato può condurre a inaccettabili moltiplicazioni sanzionatorie: nell’esempio sopra riportato, seguendo la tesi annotata, la stessa identica somma di € 100.000 dovrebbe essere confiscata due volte e per l’intero, la prima volta a carico dell’imprenditore evasore del fisco, la seconda volta al consulente “riciclatore”, per il sol fatto che quest’ultimo abbia reinvestito la somma, in ipotesi non ricavando un solo euro dall’investimento. In tal modo, l’Erario incamererebbe due volte lo stesso e identico importo di € 100.000.

Anche su tale potenziale bis in idem in senso lato si fonda il condivisibile e già citato orientamento opposto, per il quale «in tema di riciclaggio, la confisca per equivalente del profitto del reato è applicabile solo con riferimento al valore del vantaggio patrimoniale effettivamente conseguito dal “riciclatore” e non sull’intera somma derivante dalle operazioni poste in essere dall’autore del reato presupposto, poiché, non essendo ipotizzabile alcun concorso fra i responsabili dei diversi reati, la misura ablativa non può essere disposta per un importo superiore al provento del reato contestato»[10].

L’equivoco sembra consistere, in definitiva, nel sovrapporre il concetto di “prodotto del reato” alla semplice “utilità” derivante dall’occultamento o camuffamento di una determinata res: il fatto che quest’ultima venga occultata non fa trasformare la stessa in prodotto del riciclaggio, come si auspica le Sezioni Unite possano prossimamente chiarire, dirimendo l’attuale contrasto giurisprudenziale.

 

[1] Cass. Pen., Sez. F, 1 agosto 2019, n. 37120, Rv. 277288-01; analogamente Cass. Pen., Sez. II, 23 gennaio 2024, n. 10218, Rv. 286131-01; Cass. Pen., Sez. II, 4 novembre 2020, n. 34218, Rv. 280238-01; Cass. Pen., Sez. II, 7 dicembre 2021, n. 7503, Rv. 282957-01.

[2] Cass. Pen., Sez. II, 23 gennaio 2024, n. 10218, motivazioni.

[3] Cass. Pen., 6 dicembre 2022, n. 2166, Rv. 283898-01; Cass. Pen., Sez. II, 26 novembre 2021, n. 2879, Rv. 282519-01; Cass. Pen., Sez. II, 15 luglio 2020, n. 30899, Rv. 280029-01; Cass. Pen., Sez. II, 12 aprile 2022, n. 19561, Rv. 283194-01.

[4] Su tale punto, come noto, le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono recentemente espresse il 26 settembre 2024 (https://sistemapenale.it/it/notizie/confisca-per-equivalente-del-profitto-del-reato-e-possibile-ripartizione-tra-i-concorrenti-linformazione-provvisoria-della-pronuncia-delle-sezioni-unite), a seguito dell’ordinanza di rimessione n. 22935 del 5 marzo 2024 (dep. 6 giugno 2024), con decisione della quale si attendono a breve le motivazioni (cfr. https://sistemapenale.it/it/articolo/bianchi-confisca-e-correita-responsabilita-in-solido-o-per-quote-individuali, con commento di Manuel Bianchi).

[5] «[…] Se il principio della solidarietà è condivisibile per il vantaggio derivato dalla commissione di un reato in concorso (sul cui profitto ogni concorrente può vantare, in astratto, la disponibilità esclusiva), così non è nel caso in cui il concorso sia escluso e l’esclusione del concorso sia anzi la precondizione per rispondere del delitto “derivato”» (Cass. Pen., Sez. II, 12 aprile 2022, n. 19561, § 3.6 delle motivazioni).

[6] Cass. Pen., Sez. V, 14 dicembre 2023, n. 8612; la questione dovrebbe essere decisa la Consulta nelle prossime settimane.

[7] Così si legge, ad esempio, in Cass. Pen., Sez. II, 28 settembre 2011, n. 36913, Rv. 251151-01.

[8] Cass. Pen., Sez. II, 28 febbraio 2024, n. 18184, Rv. 286323-02.

[9] Cass. Pen., Sez. V, 14 dicembre 2023, n. 8612, cit.

[10] Cfr. le già citate Cass. Pen., 6 dicembre 2022, n. 2166, Rv. 283898-01; Cass. Pen., Sez. II, 26 novembre 2021, n. 2879, Rv. 282519-01; Cass. Pen., Sez. II, 15 luglio 2020, n. 30899, Rv. 280029-01; Cass. Pen., Sez. II, 12 aprile 2022, n. 19561, Rv. 283194-01.