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  Scheda  
25 Gennaio 2021


Confisca del profitto in assenza di una sentenza definitiva di condanna: la Cassazione nega l’applicazione della confisca facoltativa ex art. 240 co. 1 c.p. nei casi di proscioglimento per intervenuta prescrizione

Cass., Sez. V, sent. 15 ottobre 2020 (dep. 4 gennaio 2021), n. 52, Pres. Vessicchelli, Rel. Guardiano



1. Con la presente decisione la Corte di cassazione ha ritenuto non estendibili alla confisca facoltativa del profitto ex art. 240 co. 1 c.p. i principi elaborati dalle Sezioni Unite Lucci[1] in relazione alla confisca obbligatoria del prezzo del reato ai sensi dell’art. 240 co. 2 n. 1 c.p. e del prezzo e profitto ai sensi dell’art. 322 ter c.p. e, per l’effetto, ha disposto l’annullamento del provvedimento impugnato e della misura ablatoria ivi contenuta, con conseguente restituzione al ricorrente dei beni che ne erano oggetto. Nello specifico, ha stabilito che qualora, intervenuta una sentenza di condanna in primo grado, il giudice di appello pronunci nei confronti dell’imputato sentenza di proscioglimento per estinzione del reato per decorso del termine prescrizionale, la confisca facoltativa diretta del profitto del reato – inizialmente disposta – non può più essere mantenuta in vita.  

 

2. Prima di entrare nel merito del percorso motivazionale seguito dal collegio, appare particolarmente utile procedere ad un breve riassunto delle “puntate precedenti”, in ragione del complesso iter processuale che ha connotato la vicenda in esame.

2.1. Nel 2013 il ricorrente è stato condannato dalla Corte d’assise di Milano per i reati di associazione per delinquere ex art. 416 co. 1 e 2 c.p. e di rivelazione di notizie di cui sia vietata la divulgazione ex art. 262 c.p. In particolare, il giudice di primo grado lo ha ritenuto organizzatore di un’associazione per delinquere finalizzata alla commissione di una pluralità di reati, perpetrati in un contesto di sistematiche attività di spionaggio e dossieraggio illegale di svariati soggetti, tra cui personaggi politici ed appartenenti al mondo dello sport e dello spettacolo (c.d. Caso Telecom). Unitamente al riconoscimento della penale responsabilità, la Corte ha disposto la confisca ai sensi dell’art. 240 c.p. di beni costituiti da circa 14 milioni di euro presenti su conti esteri e di una villa di proprietà dell’imputato, ritenuti parte del profitto ricavato dal reato associativo, evidenziando il carattere cautelare e non punitivo della misura ablatoria, fondata sulla pericolosità derivante dalla disponibilità delle cose che costituiscono – genericamente – provento del reato.

2.2. Tre anni più tardi, la Corte d’assise di appello ha dichiarato il non doversi procedere per il reato di cui all’art. 416 c.p., estinto per intervenuta prescrizione, e ha rideterminato la pena originariamente inflitta, per il resto confermando la pronuncia impugnata. In particolare, per quello che qui rileva, ha mantenuto ferme le statuizioni relative alla confisca, in quanto – nella prospettiva del giudicante – l’estinzione medio tempore del reato per decorso del termine prescrizionale non recava alcun ostacolo all’ablazione dei beni, purché fossero rimasti inalterati gli accertamenti riguardanti la sussistenza degli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie, la sua riconducibilità all’imputato e la qualificazione della res confiscanda come profitto delle condotte delittuose.    

2.3. Successivamente, nel 2018 la Corte di cassazione ha parzialmente accolto il ricorso presentato dall’imputato, annullando la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni sulla misura di sicurezza applicata e disponendo il rinvio ad un’altra sezione della medesima Corte di appello per un nuovo giudizio sulla questione. In quella occasione, gli Ermellini hanno rilevato che il provvedimento in discussione era stato disposto dal giudice di primo grado e confermato da quello del gravame senza che fosse chiarito “lo specifico strumento ablatorio applicato nel caso concreto, avendo i giudici di merito ordinato la confisca ai sensi dell’art. 240 c.p. dei beni che costituiscono profitto dell’associazione a delinquere, senza tuttavia identificare il tipo di confisca disposta – se facoltativa (art. 240 co. 1 c.p.) o obbligatoria (art. 240 co. 2 c.p.) – nonostante la differenza esistente tra i relativi presupposti applicativi. Circostanza, questa, che rendeva le decisioni di merito inevitabilmente affette da discrasie argomentative insuperabili circa le ragioni legittimanti l’adozione della misura.

 

3. In sede di rinvio, la Corte d’assise di appello di Milano ha ricondotto il provvedimento de quo all’ipotesi di confisca facoltativa disciplinata dall’art. 240 co. 1 c.p., confermando integralmente la misura ablatoria in virtù dell’applicazione del principio di diritto cui erano pervenute le Sezioni Unite Lucci con riferimento alle differenti ipotesi di confisca obbligatoria del prezzo del reato ex art. 240 co. 2 c.p. e del prezzo e profitto del reato ex art. 322 ter c.p.[2]. Difatti, l’intervenuta prescrizione e la conseguente sentenza di proscioglimento non dovevano considerarsi di ostacolo al mantenimento della misura, essendo a ciò sufficiente che nel corso del processo fosse rimasto inalterato il giudizio relativo alla sussistenza del fatto, alla responsabilità dell’imputato ed alla qualificazione giuridica del bene da confiscare come prezzo o profitto del reato. D’altronde, una simile conclusione – prosegue la pronuncia – trovava fondamento in considerazioni di carattere sistematico: essendo le ipotesi di confisca obbligatoria ormai molteplici all’interno dell’ordinamento ed essendone sempre più esteso l’oggetto, arrivato a comprendere beni che non rientravano inizialmente nella previsione codicistica, se ne poteva dedurre il consolidamento di una chiara scelta di politica criminale: il profitto del reato non poteva essere lasciato nella disponibilità del suo autore, dovendo al contrario sempre essere confiscato, salvo i casi contraddistinti dalla presenza di precisi elementi concreti che facciano venire meno la finalità special preventiva propria dell’istituto (prima fra tutti l’eventualità di beni di scarsissimo valore).  

3.1. Avendo la difesa dell’imputato presentato un ulteriore ricorso per Cassazione, la Suprema Corte si è trovata nuovamente a giudicare della vicenda – evidentemente circoscritta ai soli profili attinenti alla confisca –, e la Quinta Sezione ha inizialmente optato per la rimessione della questione alle Sezioni Unite[3]. In estrema sintesi, il collegio, premesso di dubitare dell’interpretazione estensiva fornita dal giudice del rinvio, ha chiesto al supremo consesso, ove avesse riconosciuto tale ambito applicativo estensivo alla sentenza Lucci, di circoscriverne i principi, specificando che solo in presenza di una sentenza definitiva di condanna il giudice avrebbe potuto disporre la confisca facoltativa del profitto del reato.

3.2. Senonché, il Presidente Aggiunto della Corte di cassazione, con provvedimento del 20 aprile 2020, ha restituito gli atti alla sezione rimettente, ritenendo – da un lato – che l’ordinanza non avesse adeguatamente valutato l’eventualità che si fosse formato un giudicato interno in ordine alla possibilità di disporre la confisca facoltativa in presenza di un reato estinto per prescrizione, circostanza che poteva costituire ex art. 618 co. 1 c.p.p. un impedimento alla stessa decisione delle Sezioni Unite; dall’altro hanno osservato che non si poteva ritenere la rimessione effettuata neppure ai sensi dell’art. 618 co. 1 bis c.p.p., dal momento che la sezione semplice non aveva contestato la sentenza Lucci in quanto tale, ma solo nella misura in cui i principi in essa affermati venivano estesi anche alle ipotesi di confisca facoltativa.

 

4. Chiariti in tal modo i termini della questione, occorre ora soffermarsi sull’iter argomentativo seguito dalla pronuncia in esame.

Preliminarmente e anche in ragione dei rilievi sollevati dall’ordinanza di restituzione del ricorso il collegio individua il thema decidendum nella verifica del superamento – da parte della corte del rinvio – delle “discrasie argomentative insuperabili in ordine alle ragioni legittimanti l’adozione della confisca”, derivanti dal mancato chiarimento circa la natura dello strumento ablatorio concretamente utilizzato, ritenendo tuttavia non condivisibili le ragioni esposte nella decisione impugnata.

4.1. In primo luogo, la Suprema Corte ricostruisce il percorso interpretativo che aveva visto coinvolte, tra l’altro, tre pronunce delle Sezioni Unite, e che, a partire dalla sentenza Carlea del 1993[4], passando per quella De Maio del 2008[5], era approdato all’elaborazione dei principi enunciati dalla sentenza Lucci[6], per poi interrogarsi se con riferimento alla confisca facoltativa del profitto del reato – materia non omogena a quella oggetto dell’ultima decisione citata – sia possibile ravvisare un qualche fondamento giuridico che legittimi l’ulteriore applicazione estensiva, operata dal giudice a quo, di una precedente interpretazione già essa estensiva.

4.2. Orbene, a tale quesito il collegio fornisce risposta negativa, fornendo una motivazione prevalentemente incentrata sul necessario rispetto del principio di legalità.

Infatti, nella prospettiva della Corte l’istituto della confisca non può essere ricondotto ad una dimensione unitaria, se non sotto il profilo dell’effetto concreto che la sua applicazione produce, vale a dire la privazione della proprietà di alcuni beni precedentemente parte del patrimonio del reo. Al contrario, i presupposti applicativi e le finalità di volta in volta perseguite dipendono necessariamente dalla disciplina legislativa predisposta per le singole ipotesi di confisca, che possono quindi assumere – alternativamente – natura e funzione di pena, misura di sicurezza, misura giuridica civile o amministrativa. Con la conseguenza, in definitiva, che l’unico principio davvero trasversale alle singole ipotesi in cui si sostanzia lo strumento ablativo può essere individuato nella loro necessaria previsione legislativa.

Ciò vale, peraltro, anche rispetto alla confisca quale misura di sicurezza prevista dall’art. 240 c.p., in virtù della espressa statuizione contenuta nell’art. 25 co. 3 Cost. Per di più, ai giudici appare evidente che, benché non sia equiparabile ad una pena, la confisca comporti una grave limitazione dei diritti fondamentali dell’individuo, su tutti il diritto di proprietà e il diritto di iniziativa economica, espressamente riconosciuti e tutelati sia dalla Costituzione (artt. 41 e 42) sia dalle Carte sovranazionali (art. 1 Protocollo addizionale CEDU). Per cui, come evidenziato dalla Consulta nella sentenza n. 24/2019[7], l’applicazione della misura deve necessariamente tenere conto del compendio di garanzie ivi contenute, tra cui spicca, per l’appunto, la tutela offerta dalla legalità.

Quest’ultima, in particolare, precludendo operazioni ermeneutiche estensive o analogiche delle norme interne a danno dell’imputato, nel caso di confisca facoltativa del profitto del reato impone di fornire un’interpretazione tassativa del concetto di condanna, quale presupposto del provvedimento ablativo

4.3. Inoltre – prosegue la sentenza – l’estensione operata dal giudice del rinvio non può trovare giustificazione neppure ricorrendo ad una accezione sostanzialistica, invece che formalistica, della nozione di condanna.

Sul punto, occorre ribadire come uno degli argomenti che avevano portato le Sezioni Unite Lucci a legittimare l’applicazione della confisca in assenza di un provvedimento definitivo di condanna era individuabile nel parallelismo tracciato con la figura della confisca urbanistica ex art. 44 d.P.R. n. 380/2001.

Questo in estrema sintesi il ragionamento seguito dalla pronuncia del 2015: nonostante le differenze di disciplina riscontrabili nelle tre ipotesi di confisca in esame (vale a dire: confisca dei terreni oggetto di lottizzazione abusiva o dell’immobile abusivo costruitovi, del prezzo ex art. 240 co. 2 c.p. e del profitto e prezzo ex art. 322 ter c.p.), individuabili nel fatto che nel primo caso la legge subordinava l’applicazione della confisca urbanistica al solo “accertamento” soggettivo ed oggettivo in tema di lottizzazione abusiva, mentre nel secondo, almeno con riferimento all’art. 322 ter c.p.[8], richiedeva espressamente un provvedimento “di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p.”, si riteneva possibile giungere in via ermeneutica ad un trattamento quasi unitario in ragione della comune finalità special preventiva degli istituti e di una lettura, per l’appunto, prevalentemente sostanzialistica del requisito della condanna, sulla scia delle pronunce emesse dalla Corte EDU[9] e dalla Consulta[10] in tema di confisca urbanistica.

Con la sola differenza che, per evitare possibili profili di illegittimità costituzionale, la confisca diretta obbligatoria del prezzo e del profitto nei casi citati poteva essere disposta, in ipotesi di provvedimento definitivo di proscioglimento per intervenuta prescrizione, solo se almeno all’esito del giudizio di primo grado la responsabilità dell’imputato e la natura di prezzo/profitto dei beni ablati fossero stati accertati in un provvedimento formale di condanna e tale accertamento si fosse poi mantenuto immutato all’esito delle successive impugnazioni. Non così invece per le ipotesi di confisca urbanistica: alla luce dell’intervento della Corte costituzionale, quand’anche la prescrizione fosse stata dichiarata all’esito del primo grado di giudizio, il giudice – in presenza degli accertamenti sopra descritti – avrebbe comunque potuto infliggere la misura sanzionatoria.

 

5. Ebbene, se queste erano le argomentazioni spese dalla sentenza Lucci, appare evidente alla Corte di Cassazione come le stesse non possano in alcun modo essere estese alla confisca facoltativa del profitto ex art. 240 co. 1 c.p., a ciò ostando sia il tenore letterale della disposizione – che richiede una specifica conclusione processuale che connota di sé la fattispecie come riconoscibile dal destinatario del precetto – sia la peculiare motivazione che in questo caso il giudice è tenuto a fornire.

In particolar modo, si osserva che in tema di confisca facoltativa del profitto il giudice è tenuto a fornire una valutazione prognostica circa l’idoneità incentivante al delitto che possa riconoscersi nel mantenimento di beni non caratterizzati da intrinseca pericolosità in cui il bilanciamento tra il diritto di proprietà e la finalità special preventiva della confisca (non operato ex ante e in via generale dal legislatore) si connota di una valenza anche punitiva. Ragion per cui, esso deve necessariamente effettuarsi all’interno di una sentenza formale di condanna.

In aggiunta, l’accertamento della responsabilità dell’imputato in ordine al reato e alla relazione di pertinenzialità del profitto, una volta che sia stato collegato dal legislatore alla condanna, non può essere sostituito dall’accertamento raggiunto in primo grado e rimesso in discussione da motivi di appello – anche vertenti su profili di natura istruttoria – che l’ormai maturata prescrizione sacrifica lasciando al giudice il solo potere di motivazione approfondita in relazione alla misura di sicurezza. A ciò ostano, nello specifico, i principi di legalità e di prevedibilità.

 

6. Un’ulteriore conferma della non accoglibilità della tesi relativa alla portata generalizzante delle conclusioni raggiunte dalla sentenza Lucci viene individuata nei recenti interventi normativi che dapprima hanno introdotto il nuovo art. 578 bis c.p.p. e successivamente ne hanno esteso l’ambito applicativo. Come noto, tracciando un parallelismo con la previsione di cui all’art. 578 c.p.p.[11], il legislatore ha espressamente recepito alcuni dei principi di elaborazione giurisprudenziale in tema di applicazione della confisca a fronte dell’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, imponendo al giudice dell’impugnazione il dovere di decidere sulla stessa ai soli fini della confisca, previo accertamento della responsabilità dell’imputato.

Nel fare ciò, tuttavia, è stata adottata una tecnica redazionale improntata al criterio della specialità con cui il contenuto della prescrizione è stato circoscritto – allo stato attuale – alla sola confisca in casi particolari prevista dall’art. 240 bis co. 1 c.p. (non ricomprendendosi invece la confisca per equivalente di cui al secondo comma), a quelle contenute in altre disposizioni di legge, e alla particolare fattispecie di confisca obbligatoria ex art. 322 ter c.p.

Una simile scelta, agli occhi della Corte, consente di ricavare due distinte conclusioni: in primo luogo, l’assenza – in capo al legislatore – dell’intenzione di procedere alla formalizzazione di un principio di portata generale, estensibile anche ad ipotesi sostanzialmente diverse da quelle prese in considerazione, come deve ritenersi la confisca facoltativa del profitto ai sensi dell’art. 240 c.p. In secondo luogo, l’insufficienza – nelle fattispecie espressamente menzionate – della sentenza di condanna pronunciata in primo grado a costituire soddisfacente “titolo” per l’accertamento della responsabilità dell’imputato (prodromico al provvedimento ablativo), essendo invece necessario che sia il giudice dell’impugnazione a compiere autonomamente una simile valutazione.

Quest’ultima considerazione, poi, permette altresì di ribadire l’eccezionalità della previsione contenuta nell’art. 578 bis c.p.p. Al contrario, la regola generale nel caso di prescrizione del reato continua a impedire al giudice che ne dichiari l’estinzione di applicare o di confermare la confisca facoltativa del profitto derivante dalla condotta delittuosa. Solo nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge, infatti, il contenuto di una sentenza di proscioglimento per estinzione del reato può sostituire – ai fini della confisca – una sentenza di condanna divenuta definitiva, in considerazione del particolare contenuto di tale pronuncia, normativamente vincolato ex art. 578 bis c.p.p. all’accertamento della responsabilità dell’imputato.

 

7. Da quanto fin qui esposto la Cassazione giunge ad un’ulteriore statuizione, vale a dire che, nei casi di confisca facoltativa del profitto, ai fini della decisione sulla misura ablatoria la pronuncia con cui il giudice dell’impugnazione dichiara l’estinzione del reato non può essere equiparata – per quel che riguarda l’accertamento della responsabilità dell’imputato – ad una sentenza di condanna definitiva. La prima, difatti, deve considerarsi ontologicamente diversa dalla seconda e, per questo motivo, può avere una simile efficacia nei soli casi tassativamente previsti dalla legge.

La strutturale differenza tra le due tipologie di provvedimento – di condanna in un caso, di proscioglimento per intervenuta prescrizione nell’altro – è stata di recente confermata dalla pronuncia della Suprema Corte a Sezioni Unite Massaria (n. 28911/2019), la quale – intervenendo su una questione inerente all’affine art. 578 c.p.p. – ha implicitamente negato che la sentenza di estinzione del reato per prescrizione sia in qualche modo qualificabile alla stregua di una condanna sostanziale. Al contrario, essa appartiene al novero delle pronunce di proscioglimento, tenute dal codice di rito ben distinte da quelle di condanna. 

 

8. Il collegio, infine, mette in evidenza un ulteriore argomento che depone in favore della necessità di ancorare la confisca facoltativa del profitto ad una sentenza di condanna definitiva: il dettato normativo contenuto nella Direttiva 2014/42/UE relativa al congelamento e alla confisca dei beni strumentali e dei proventi del reato, il cui articolo 4 fa espresso riferimento al presupposto di una “condanna penale definitiva per poter procedere all’applicazione della misura. Recepita dal d.lgs. n. 202/2016, essa vincola il giudice nazionale ad interpretare la disciplina domestica, per quanto possibile, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva stessa, come più volte affermato dalla Corte di Lussemburgo[12].

 

9. All’esito, dunque, di tale ricostruzione teorica la Corte di cassazione marca il proprio dissenso rispetto ad un’interpretazione generalizzante della pronuncia Lucci, da considerarsi limitata a peculiari tipologie di confisca (obbligatoria), fortemente connotate dalla funzione special preventiva di “sterilizzazione” di tutte le utilità prodotte dal reato in capo al suo autore, ritenuta in quei casi prevalente all’esito del bilanciamento con i diritti di proprietà e di iniziativa economica dell’imputato. Tuttavia, essa non può divenire criterio univoco di interpretazione in malam partem, anche laddove quel bilanciamento sia operabile partendo da presupposti diversi. Senza tralasciare che è lo stesso legislatore a riconoscere espressamente alcune differenze di disciplina tra le ipotesi di confisca facoltativa del profitto ed obbligatoria del prezzo del reato: si pensi alla previsione di cui all’art. 460, co. 2, c.p.p., secondo cui solo quest’ultima risulta compatibile con il decreto penale di condanna.

 

* * *

 

10. La sentenza in commento, con il forte richiamo al necessario rispetto del principio di legalità, sembra aver adeguatamente risposto alle perplessità che la decisione annullata aveva suscitato all’interno della dottrina[13]. L’incidenza delle misure ablatorie – indipendentemente dalla loro specifica connotazione – sui diritti fondamentali dell’imputato non può tollerare eccessive deviazioni dalle garanzie riconosciute dalla Costituzione e dalle fonti sovranazionali, nonostante il perseguimento di un obiettivo certamente meritorio e condivisibile quale la neutralizzazione dei proventi del reato. E, quando ciò avviene, è assolutamente necessario che sia il legislatore a prevederlo, non potendo il formante giurisprudenziale sostituirsi attraverso un indebito ampliamento del dettato normativo.

Sul punto, può considerarsi condivisibile – almeno nelle intenzioni – il recente intervento operato con l’introduzione dell’art. 578 bis c.p.p., volto per l’appunto a trasformare in testo di legge principi inizialmente elaborati in via pretoria. Senonché, il risultato pratico lascia alquanto a desiderare: da un lato, perché la nuova disposizione si applica all’intero art. 322 ter c.p., comprensivo delle ipotesi sia di confisca diretta sia per equivalente (sebbene dottrina e giurisprudenza prevalenti siano concordi nel riconoscere a quest’ultima carattere eminentemente sanzionatorio[14]), senza che nulla venga precisato in merito all’art. 240 co. 2 n.1, nonostante l’equiparazione operata dalla sentenza Lucci. Dall’altro, per la sostanziale abrogazione implicita della norma (e dell’art. 578 c.p.p.) che la riforma della prescrizione introdotta con la c.d. “legge spazza-corrotti” andrà presumibilmente ad operare[15].

Da ultimo, proprio la mancata menzione della confisca diretta del prezzo ex art. 240 co. 2 n.1 all’interno della recente diposizione processuale potrebbe indurre a considerare superata la regola ricavabile dalla decisione a Sezioni Unite del 2015. Dal momento, infatti, che quest’ultima è stata formalizzata – nei termini sopra indicati – in un’apposita previsione normativa, appare verosimile ritenere che la stessa sia applicabile alle sole fattispecie espressamente richiamate, anche perché, in caso contrario, se ne produrrebbe un’estensione in malam partem contrastante con il principio di legalità. Nondimeno, deve riconoscersi che l’argomento ubi voluit dixit, ubi noluit tacquit risulta spesso assai scivoloso, in quanto ben potrebbe sostenersi che, non avendo la legge espressamente vietato la confisca obbligatoria del prezzo ex art. 240 c.p., questa sia comunque applicabile in giudizio. Ad ogni buon conto, la questione è presumibilmente destinata a non sollevare – in concreto – particolari difficoltà operative, poiché la misura ablatoria di cui si discute viene solitamente disposta a fronte della commissione di reati di corruzione, il cui prezzo può comunque essere neutralizzato ricorrendo alla particolare fattispecie di cui all’art. 322 ter c.p.

 

 

[1] Cass., Sez. Un. pen., sent. 26 giugno 2015 (dep. 21 luglio 2015), n. 31617, in Dir. pen. cont., 30 luglio 2015. Per un commento alla sentenza si rimanda a F. Lumino, La confisca del prezzo o del profitto del reato nel caso di intervenuta prescrizione, in Cass. pen., 2016, p. 1384 e ss.; S.M. Melodia, Prescrizione del reato e confisca: il “nodo” dell’accertamento processuale, in Arch. nuova proc. pen., 2016, p. 407 e ss..

[4] Cass., Sez. Un. pen., sent. 25 marzo 1993 (dep. 23 aprile 1993), n. 5, in Mass. CED Cass.

[5] Cass., Sez. Un. pen., sent. 10 luglio 2008 (dep. 15 ottobre 2008), n. 38834, in Mass. CED Cass.

[6] Quest’ultimo arresto, come noto, ha costituito un revirement giurisprudenziale fondato principalmente sulla “rivisitazione in senso sostanzialistico dei concetti di pena e di condanna” ricavabile dalla giurisprudenza della Corte EDU in tema di confisca urbanistica ex art. 44 d.P.R. n. 380/2001 e dalle conclusioni sul punto raggiunte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 49/2015. Tale operazione ermeneutica ha portato ad affermare che, avendo le ipotesi di confisca obbligatoria del prezzo ex art. 240 co. 2 n. 1 c.p. e del prezzo e profitto ex art. 322 ter c.p. natura non sanzionatoria ed essendo contraddistinte da una finalità special preventiva, le considerazioni che valevano per le ipotesi di confisca-sanzione (qual è la confisca urbanistica) dovevano essere ritenute a fortiori valide per quelle situazioni in cui lo strumento ablatorio poteva qualificarsi alla stregua di una misura di sicurezza, in ragione di una sorta di rapporto di continenza ravvisabile tra le due. Per un approfondimento si veda il recente lavoro di T. Trinchera, Confiscare senza punire? Uno studio sullo statuto di garanzia della confisca della ricchezza illecita, Torino, Giappichelli, 2020, p. 50 e ss..

[7] Per un commento alla decisione (e alla gemella n. 25/2019) si rinvia a S. Finocchiaro, Due pronunce della Corte costituzionale in tema di principio di legalità e misure di prevenzione a seguito della sentenza De Tommaso della Corte EDU, in Dir. pen. cont., 4 marzo 2019.

[8] Maggiori dubbi, invece, sussistono in merito ai presupposti applicativi della confisca obbligatoria ex art. 240 co. 2 n. 1 c.p. Nello specifico, la presenza dell’avverbio “sempre” è da alcuni commentatori interpretata nel senso di legittimare l’adozione del provvedimento anche in assenza di una decisione di condanna. Al contrario, altra parte della dottrina ritiene che tale avverbio abbia il solo scopo di contrapporre la confisca obbligatoria alla confisca facoltativa, le quali, ad ogni modo, presupporrebbero entrambe una sentenza di condanna. Ad avviso dei commentatori, infatti, questa sarebbe la sola interpretazione coerente con l’intero impianto della disposizione, in particolar modo alla luce della formulazione dell’art. 240 co. 2 n. 2, che, con riferimento alle cose obiettivamente illecite, ne ammette la confisca anche se non è stata pronunciata condanna. Tale indicazione risulterebbe invece del tutto superflua ove si aderisse alla prima delle interpretazioni ora richiamate. Si veda sul punto T. Trinchera, Confiscare senza punire?, cit., p. 45 e la bibliografia ivi richiamata.  

[9] Ci si riferisce a Corte EDU, Grande Camera, sent. 29 ottobre 2013, Varvara c. Italia, ric. n. 17475/09, con nota di F. Mazzacuva, La confisca disposta in assenza di condanna viola l’art. 7 CEDU, in Dir. pen. cont., 5 novembre 2013.

[10] Il riferimento è a Corte costituzionale, sent. 14 gennaio 2015 (dep. 26 marzo 2015), n. 49, in Cass. pen., 2015, pp. 2195 ss., con nota di V. Manes, La “confisca senza condanna” al crocevia tra Roma e Strasburgo: il nodo della presunzione di innocenza, in Dir. pen. cont., 13 aprile 2015.

[11] L’art. 578 c.p.p. recita: “Quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare il reato estinto per amnistia o per prescrizione, decidono sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili”.

[12] Si fa riferimento alle pronunce dell’allora Corte di Giustizia della Comunità Europea C-443/98, Unilever, del 26.9.2000 e C-287/98, Linster, del 19.9.2000.  

[13] Si vedano in particolare i rilievi sollevati da T. Trinchera, Confisca del profitto in caso di prescrizione del reato: la Corte d’assise di appello di Milano estende il principio affermato dalle S.U. Lucci anche alla confisca del profitto ex art. 240 co. 1 c.p., cit.

[14] T. Trinchera, Confiscare senza punire?, cit. p. 82.