ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Recensione  
03 Maggio 2023


I percorsi di riallineamento costituzionale della confisca “di prevenzione” nella recente riflessione dottrinale

Considerazioni a margine della lettura di A. Costantini, La confisca nel diritto della prevenzione, Torino, 2022; M. Di Lello Finuoli, La confisca ante delictum e il principio di proporzione, Torino, 2021; S. Finocchiaro, Confisca di prevenzione e civil forfeiture, Milano, 2022



*Il presente contributo riprende le considerazioni svolte nel ruolo di discussant in occasione della presentazione delle tre monografie avvenuta presso l’Università di Bologna il 29 novembre 2022 nell’ambito del ciclo di seminari del corso di Istituzioni di diritto penale tenuto dal Prof. Vittorio Manes, con l’aggiunta di note volte a precisare i riferimenti ai testi.

 

1. La sempre crescente rilevanza della confisca di prevenzione nel sistema penale è testimoniata dalla pubblicazione, a pochi mesi di distanza, di tre approfondite monografie dedicate all’istituto, con particolare riguardo alla determinazione della sua natura ed alla conseguente ricostruzione del relativo statuto costituzionale. Si può già anticipare, in proposito, che la lettura delle tre indagini conferma un profondo disagio della dottrina penalistica rispetto al volto attuale della confisca di prevenzione che, sul piano normativo, si traduce nell’individuazione di molteplici profili di incoerenza e di inadeguatezza della disciplina vigente, spesso rilevanti sul piano della sua legittimità costituzionale. E, in effetti, la circostanza che tale aspetto accomuni, seppur con varietà di accenti, le ricerche di giovani studiosi formatisi in diverse ed importanti Scuole è un dato estremamente significativo con il quale il legislatore, i giudici ordinari e la Corte costituzionale dovranno inevitabilmente confrontarsi. D’altra parte, le tre opere mostrano altresì uno sguardo propositivo, muovendo dal riconoscimento – per convinzione o per disincantato realismo – che alla confisca di prevenzione non si possa oramai rinunciare e che, pertanto, occorra comprendere quale giustificazione dell’istituto e quali soluzioni applicative, de lege lata o de lege ferenda, permettano di correggere i difetti della disciplina vigente. Negli itinerari percorsi nei tre studi, peraltro, si possono osservare diversi e significativi profili di convergenza, anche grazie alla notevole capacità di argomentazione e di dialogo – costruttivo anche quando critico – con la precedente riflessione dottrinale.

 

2. Le monografie sono anzitutto accomunate dalle coordinate metodologiche con le quali viene affrontato il problema della natura della confisca di prevenzione, ossia attraverso il riferimento all’analisi delle funzioni e, in particolare, alla fondamentale tripartizione tra finalità preventive, riparative e punitive. Come già aveva fatto la Corte costituzionale nella sentenza n. 29/1961, si osserva che rispetto alla confisca in generale tale analisi si rivela complessa poiché il contenuto privativo della proprietà che caratterizza la misura appare astrattamente riconducibile a tutte le suddette finalità, la cui realizzazione finisce spesso per dipendere da molteplici variabili del caso concreto. Ciò vale anche per la confisca prevista dal codice antimafia, tanto che si afferma che la misura si colloca «al crocevia delle funzioni preventiva, sanzionatoria e ripristinatoria»[1], versando in uno stato di “confusione interiore” che «si riverbera inevitabilmente sul discorso intorno alla sua legittimazione garantistica»[2], così da richiedere un’attenta considerazione dei presupposti e delle modalità applicative della misura alla luce dell’evoluzione della sua disciplina.

Orbene, appare quanto mai significativo che nelle tre opere, proprio alla luce di tale rigorosa valutazione, si riconosca senza indugi la fragilità del paradigma stricto sensu preventivo[3], non soltanto alla luce degli specifici presupposti della misura – che da sempre illuminano la provenienza dei beni, anziché la loro destinazione – e della sua irrevocabilità – difficilmente conciliabile con una funzione genuinamente preventiva – ma soprattutto per via della nota dissociazione rispetto alle misure di prevenzione personali che ha preso forma nelle riforme del 2008 e del 2009 attraverso l’elisione del requisito dell’attualità della pericolosità del preposto. A questo proposito, puntualmente, Finocchiaro osserva come si potrebbe oggi persino abbandonare il riferimento all’idea di “fattispecie di pericolosità”, anche considerata la difficoltà a proiettare tale valutazione prognostica interamente nel passato, rilevando piuttosto l’accertamento (indiziario, ma pur sempre) diagnostico e retrospettivo circa lo svolgimento da parte del preposto delle attività illecite richiamate dagli artt. 1 e 4 del codice antimafia[4]. Nella medesima prospettiva, in effetti, si può inquadrare il riferimento alla nozione di “illecito di prevenzione” quale autentico presupposto della misura nella riflessione di Di Lello Finuoli[5], mentre Costantini osserva come si possa parlare di funzione preventiva soltanto se si decide di spostare lo sguardo dalla pericolosità sociale del preposto alla pericolosità dei beni confiscati in ottica “macro-sistemica”[6]. Tali considerazioni, nelle loro diverse sfumature, mostrano l’urgenza di una revisione degli approdi della giurisprudenza di legittimità, tuttora arroccata su una qualificazione preventiva della misura che si fonderebbe sulla “pericolosità pregressa” del preposto – formula tralatizia espressiva della fragile pretesa di ricondurre le varie misure di prevenzione ad un nucleo comune – la quale, in una dinamica quasi fantascientifica, si “trasmetterebbe” alla res al momento dell’acquisto illecito e in questa rimarrebbe perennemente impressa[7]. Per le stesse ragioni, anche laddove si intenda valorizzare il tema della funzione “macro-preventiva” (su cui si tornerà), sembra auspicabile finanche il superamento della nomenclatura “confisca di prevenzione” – autentica frode delle etichette – in favore di formule più “neutre” sul piano delle finalità (ad es. confisca “indipendente” o “autonoma”, come nella rubrica del § 76a StGB).

La critica al paradigma preventivo, d’altra parte, non è certamente nuova nel panorama dottrinale e, infatti, gli Autori segnalano come da questa si sono sviluppate nel tempo due diverse correnti di pensiero, una che ravvisa la funzione punitiva dello strumento – con ricadute dirompenti sulla sua legittimità costituzionale – ed una che rinvia ad un inquadramento compensativo-ripristinatorio, progressivamente accolta nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo[8] e infine recepita anche dalla Corte costituzionale[9]. Confrontandosi con quest’ultima impostazione, le tre indagini appaiono ancora allineate nell’evidenziare criticamente una vistosa divergenza tra l’essere e il dover essere (o “voler essere”) ripristinatorio della confisca di prevenzione. Tale questione, in effetti, non dipende tanto dal riconoscimento o meno dell’esistenza di un principio civilistico secondo cui il reato non sarebbe valido titolo di acquisto della proprietà[10], quanto soprattutto dal problema della non corrispondenza del quantum confiscabile rispetto ai beni di cui viene desunta la provenienza illecita che si deve essenzialmente alla clausola di sproporzione prevista dall’art. 24 del codice antimafia, la quale finisce per configurare un presupposto alternativo della misura rispetto all’affermazione della provenienza illecita, essendo risultati vani i tentativi di ridurla a sorta di indice probatorio di quest’ultima circostanza[11]. A questo proposito, peraltro, i tre Autori concordano sul fatto che anche il correttivo di matrice giurisprudenziale della c.d. “correlazione temporale” non sia davvero idoneo a scongiurare un’eccedenza della confisca rispetto al preteso scopo ripristinatorio[12].

 

3. A questo punto i percorsi delle tre indagini, finora caratterizzati da traiettorie parallele, si separano.

Nell’indagine di Finocchiaro, infatti, si riconosce anzitutto che, nell’attuale assetto legislativo, la confisca di prevenzione finisce per presentare una funzione sostanzialmente punitiva ma la relativa disciplina si pone in contrasto con i vari principi che regolano la “materia penale”, da quelli sostanziali di legalità, personalità, colpevolezza e proporzionalità fino a quelli processuali della presunzione di innocenza, del giusto processo e del ne bis in idem[13]. Da queste conclusioni muove una pars costruens – in una prospettiva dichiaratamente de iure condendo che muove anche da un ampio confronto con la disciplina statunitense della civil forfeiture – in cui l’Autore si mostra fiducioso nella possibilità di riportare la confisca prevista dal codice antimafia ad un modello effettivamente ripristinatorio in un’ottica autore-centrica (ossia volta a sottrarre profitti illeciti piuttosto che a riparare un danno) che, affrancato dalle garanzie penalistiche, dovrebbe confrontarsi esclusivamente con i limiti imposti dal rango sovralegislativo del diritto di proprietà (artt. 42 Cost. e 1 Prot. n. 1 Cedu)[14]. A tal fine, la misura dovrebbe trovare fondamento in gravi attività delittuose lucrogenetiche descritte in maniera determinata (requisito che non viene ritenuto soddisfatto dall’attuale formulazione dell’art. 1, lett. b, del codice antimafia), avere ad oggetto beni di valore congruo rispetto all’arricchimento illecito ed agire in maniera sussidiaria rispetto agli altri istituti volti al recupero di tali asset[15]. Così, la confisca di prevenzione finirebbe per “ricongiungersi” sul piano degli effetti alle altre forme di ablazione dei proventi illeciti, con i quali condividerebbe per l’appunto la funzione ripristinatoria, distinguendosi per l’autonomia del procedimento da quello penale e per la differente regola di giudizio (che, però, non dovrebbe degradare al di sotto del “pieno convincimento”)[16].

Nell’indagine di Di Lello Finuoli, invece, emerge un certo scetticismo rispetto alla possibilità di ricostruire la confisca in termini meramente civilistico-ripristinatori. Si afferma, infatti, che «il reato, ancora, domina l’orizzonte teleologico della misura, lo scopo perseguito: la dissuasione (prevenzione generale) dalla commissione dei reati di criminalità organizzata e degli illeciti a scopo lucrativo; la neutralizzazione (prevenzione speciale) del proposto, nel caso in cui la pericolosità sociale sia attuale; l’ostacolo alla circolazione dei capitali di cui si sospetti la provenienza illegale, a tutela dell’ordine economico, del mercato e della concorrenza; il contenimento del fenomeno criminale, per l’impedimento delle offese all’ordinamento giuridico-penale»[17]. In questa valorizzazione della dimensione macro-preventiva della confisca, peraltro, si scorge un’allusione ad un inquadramento punitivo, tradito altresì dal riferimento alla proporzione in senso stretto (ossia nel rapporto sanzione-illecito)[18], anche se a un certo punto l’Autrice rinuncia dichiaratamente alla riconduzione della confisca di prevenzione alla “materia penale”, accettandone, quasi con una punta di riluttanza, la «descrizione (formalistica e minimale) di ‘misura meramente limitativa del diritto di proprietà’, in funzione latamente preventiva, chiamata al rispetto delle (sole) garanzie previste a tutela del diritto richiamato»[19], tra le quali ci si sofferma soprattutto sul principio di proporzione in senso ampio (ossia avendo riguardo alla relazione tra scopi e idoneità ed adeguatezza dei mezzi)[20].

Sulla base del già segnalato riferimento ad un concetto di pericolosità dei beni in ottica “macro-sistemica”, l’inquadramento macro-preventivo della confisca risulta ulteriormente valorizzato da Costantini[21] come alternativo rispetto a quello punitivo, il quale imporrebbe una revisione radicale dei suoi presupposti poiché, com’è stato osservato in dottrina, «la confisca di prevenzione non può essere una sanzione, perché se lo fosse non esisterebbe»[22]. Si osserva, in particolare, che la conformazione della misura «reca impressa la sua finalizzazione alla “lotta” alla criminalità organizzata di stampo mafioso, che si intende contrastare nella sua dimensione di “fenomeno criminale”» e che, per quanto tale funzione si sia sbiadita con l’ampliamento della misura a tipologie criminali anche molto distanti dal nucleo iniziale e la conseguente «progressiva convergenza di tale istituto verso un modello più specificamente “recuperatorio” dei proventi di illecita provenienza, cui sono riconducibili anche le altre forme di confisca del profitto previste dall’ordinamento», tale dinamica non si è mai davvero perfezionata[23]. Non essendo la confisca riconducibile ad un modello preventivo o ripristinatorio “puro”, in definitiva, la giustificazione della misura viene rinvenuta proprio nella permanenza e compresenza di tale matrice finalistica originaria, cosicché lo statuto costituzionale viene ricostruito facendo riferimento a quel significato della legalità pur sempre valido anche al di fuori della materia penale e, soprattutto, al principio di proporzione dei mezzi rispetto ai fini[24], senza però trascurare talune garanzie proprie del diritto punitivo[25].

 

4. Come si vede, dopo avere intrapreso percorsi diversi, le tre indagini si ricongiungono infine sulla centralità del principio di proporzione, con specifico riguardo alla versione del medesimo che rinvia ad un giudizio relazionale tra mezzi e scopi, al quale viene affidata la determinazione dei limiti costituzionali della confisca per via della sua incidenza sulla proprietà privata[26]. Da tale superiore istanza, quindi, vengono distillati precisi limiti costituzionali rispetto all’operatività della confisca di prevenzione tanto sul piano sostanziale (ragionevole congruenza rispetto ai profitti illeciti, sussidiarietà rispetto agli altri strumenti ripristinatori, divieto di eccessiva onerosità in concreto, ecc.)[27], quanto su quello processuale (in cui viene prospettato un innalzamento dello standard probatorio, seppur non ai livelli dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”)[28], al cospetto dei quali, come accennato nelle premesse, vengono evidenziati diversi profili di illegittimità della disciplina vigente.

D’altra parte, la varietà degli itinerari argomentativi si riflette nella diversa individuazione del punto di equilibrio tra funzioni della confisca di prevenzione e tutela della proprietà privata, come emerge soprattutto con riguardo al tema fondamentale dell’estensione “orizzontale” della misura, ossia del novero di fenomeni delittuosi che possono autorizzare il ricorso a tale strumento. In una dimensione prettamente ripristinatoria (pur sempre de iure condendo, conviene ricordarlo), Finocchiaro ammette infatti un utilizzo allo strumento alquanto diffuso, ossia rispetto a qualsiasi grave fenomeno delittuoso lucrogenetico[29]. Proprio ritenendo che la confisca di prevenzione non possa giustificarsi esclusivamente in questa prospettiva e che rimanga pur sempre intimamente legata alla sua originaria matrice macro-preventiva, e considerata altresì la “concorrenza” con le altre ipotesi di ablazione dei profitti maggiormente “garantite” (tra cui la confisca c.d. “allargata”, che se non altro richiede la condanna per uno dei reati presupposto), nonché con gli strumenti della prevenzione economica “mite” (amministrazione e controllo giudiziario), una decisa restrizione dell’ambito operativo della misura è invece auspicata nelle monografie di Di Lello Finuoli[30] e Costantini[31], la quale sottolinea anche il requisito dell’idoneità dei beni ad essere impiegati o reinvestiti in attività delittuose, eventualmente attraverso l’introduzione di una soglia di valore minima del quantum confiscabile[32].

 

5. In definitiva, come si è accennato nelle premesse, le tre indagini finiscono per mostrare molteplici profili di incoerenza tra la disciplina della confisca e le funzioni che lo strumento dovrebbe assolvere, i quali si traducono in diversi profili di illegittimità costituzionale. L’operatività della misura, infatti, da un lato eccede la finalità di recupero dei proventi di origine illecita e, dall’altro, abbraccia fenomeni delittuosi che non giustificano davvero, neanche in un’ottica macro-preventiva, un “processo al patrimonio” caratterizzato da schemi presuntivi, per quanto questo possa essere temporalmente delimitato. In assenza di rilevanti correttivi – in una direzione o nell’altra – residua così l’immagine di uno strumento che, nella sua polifunzionalità, si espone fatalmente alla compenetrazione di logiche eminentemente punitive, senza tuttavia conformarsi allo statuto costituzionale della pena. Trova conferma, allora, l’impressione che la sentenza della Consulta n. 24 del 2019 sia soltanto un punto di partenza di un percorso di riallineamento costituzionale che la prevenzione patrimoniale dovrà necessariamente affrontare.

In questa prospettiva, il principio di proporzionalità sembra effettivamente destinato ad avere un ruolo centrale, anche considerata la valorizzazione di tale canone come limite dell’intervento sulla proprietà privata che si è manifestata nella recente giurisprudenza costituzionale ed in quella di legittimità[33]. E, in effetti, qualsiasi funzione si voglia riconoscere alla confisca di prevenzione, considerato che uno dei passaggi principali del test di proporzione è rappresentato dalla valutazione della possibilità di raggiungere determinati scopi attraverso un “mezzo più mite” (mildestes Mittel), non si può evidentemente trascurare la “concorrenza” della confisca di prevenzione con altri strumenti (ulteriori ipotesi di confisca dei proventi illeciti, oltreché istituti del diritto civile o tributario, in ottica ripristinatoria; amministrazione, controllo giudiziario e misure interdittive in quella macro-preventiva). Non si deve infatti dimenticare che l’estrema sensibilità della confisca di prevenzione, se anche determina una particolare efficacia “generale” dello strumento, si riflette inevitabilmente nella maggiore probabilità di errori giudiziari nelle applicazioni concrete che, anche volendo valorizzare la dimensione ripristinatoria, non possono essere tollerati come se si trattasse di una questione fra privati, laddove il procedimento di prevenzione chiama in causa direttamente il rapporto tra Stato e cittadini.

 

 

 

 

[1] Di Lello Finuoli, p.185.

[2] Costantini, p. 298.

[3] Costantini, pp. 128 ss.; Di Lello Finuoli, pp. 186 ss.; Finocchiaro, pp. 345 ss.

[4] Finocchiaro, pp. 60 s., secondo cui «quel che rileva ai fini della confisca non è che, nel momento in cui risulta avvenuto l’incremento patrimoniale, la persona fosse “pericolosa”: sottendendo per definizione la pericolosità sociale una valutazione prognostica sulla probabile commissione in futuro di altre condotte illecite, e difficilmente immaginabile che possa essere svolta in una dimensione del tutto proiettata nel passato. A rilevare piuttosto è che nel periodo di acquisto del bene, quel soggetto svolgesse attività integranti una delle fattispecie di cui agli artt. 1 e 4 del codice antimafia, ma la verifica di tali fattispecie implica unicamente un accertamento diagnostico retrospettivo».

[5] Di Lello Finuoli, pp. 115 ss. e 214 ss., in cui si conclude che «la confisca-misura ante delictum non si aggancia, quantomeno in via esclusiva, alla violazione di un precetto esterno alla norma che la prevede. È l’art. 24 a descrivere, sotto forma di requisiti soggettivi e oggettivi, a un tempo la condotta vietata e l’oggetto dell’ablazione. Le due categorie, nel loro insieme, sostanziano gli elementi costitutivi di un autonomo ‘illecito di prevenzione’, accertato (anche grazie all’ausilio di schemi presuntivi) nel corso del procedimento».

[6] Costantini, pp. 141 ss.

[7] Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2014 (dep. 2 febbraio 2015), n. 4880.

[8] Cfr. ad esempio Corte EDU, 12.5.2015, Gogitidze e altri c. Georgia, § 101 ss. e 124 ss.; Corte EDU, 11.10.2016, Devadze e altri c. Georgia, § 26 ss.; Corte EDU, 2.2.2021, Ulemek c. Serbia, § 50 ss.

[9] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 24 del 2019, § 10.4, in cui si afferma che «l’ablazione di tali beni costituisce non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione» e che «la finalità dell’ablazione patrimoniale ha, in tale ipotesi, carattere meramente ripristinatorio della situazione che si sarebbe data in assenza dell’illecita acquisizione del bene».

[10] Si tratta, come noto, di un argomento valorizzato dalla Corte costituzionale nella già citata sentenza n. 24 del 2019, cui aderisce Finocchiaro, p. 393, secondo cui «il reato non è titolo di acquisto della proprietà, né una valida giustificazione di spostamenti patrimoniali» cosicché, anche laddove non si ritenga de iure condito che esso determini l’invalidità dell’acquisto della proprietà «è ben possibile – de iure condendo – immaginare che le regole in materia di confisca dei proventi da rato vengano concepite come regole civilistiche sull’invalidità originaria dell’acquisto di denaro o beni, che come tali si affianchino alle regole già oggi previste dal codice civile». In chiave critica, invece, osserva Di Lello Finuoli, p. 217, che «la presentazione della confisca in parola, quale naturale conseguenza di un’acquisizione illecita di beni sui quali il proposto non può vantare un valido titolo proprietario, è fortemente riduttiva della ratio e degli scopi dell’art. 24, d.lgs. n. 159/2011. Per queste ragioni non può condividersi l’esaltazione della sola funzione livellatrice (certamente compresente) e della diretta legittimazione dall’art. 42 Cost. La confisca di prevenzione si traduce senz’altro in una limitazione del diritto di proprietà. Ma le norme di cui si discute, artt. 42 Cost. e 1 Prot. n. 1 CEDU, non bastano da sole a giustificare l’intervento patrimoniale e a sostanziarne lo statuto garantistico, almeno nei termini (severissimi) dell’apprensione descritti dal c.d. codice antimafia, o a escludere la derivazione penalistica della disposizione (argumentum libertatis). I due articoli dettano le condizioni per la limitazione dei beni legittimamente detenuti dalla persona, allorquando si manifesti l’esigenza di soddisfare, per il loro tramite, interessi generali e/o cause di pubblica utilità. Sganciati dalle norme costituzionali e convenzionali sui diritti dell’indagato/imputato, non valgono a legittimare l’apprensione dei profitti illeciti (della criminalità comune o organizzata), né tantomeno il risarcimento del danno, l’arricchimento senza giusta causa o altro istituto riguardante le relazioni tra privati. Chiamano in causa lo Stato, nei suoi rapporti con i cittadini».

[11] Cfr. le ampie considerazioni svolte in Costantini, pp. 217 ss.; Di Lello Finuoli, pp. 275 ss.; Finocchiaro, pp. 370 ss. e 405 ss..

[12] Finocchiaro, pp. 373 s., secondo cui «nonostante quest’ultimo accorgimento, non si esige di dimostrare che l’attività illecita fonte di arricchimento che la confisca colpisce sia quella che è stata accertata al fine di integrare la fattispecie presupposto, bensì una e diversa attività illecita lucro genetica, attività che però rimane del tutto esclusa dal thema probandum e decidendum del procedimento. Se tale ulteriore attività lucro genetica non è oggetto di alcun accertamento, è evidente che neppure può essere determinata l’entità dell’effettivo arricchimento illecito da essa prodotto. Difetta pertanto il parametro di riferimento per condurre quel vaglio sull’entità del’impatto della confisca sulla sfera patrimoniale del destinatario della misura, parametro che abbiamo individuato come indispensabile per segnare il confine tra una misura meramente ripristinatoria e una misura punitiva”. Nella stessa direzione, osserva Costantini, pp. 222 ss., che la correlazione temporale «risulta coerente, sul piano logico, soltanto nella misura in cui si possa ritenere che la specifica tipologia criminologica di cui il soggetto risulta indiziato consenta di fondare una ragionevole presunzione che i beni siano stati acquistati per effetto della perpetrazione di reati: in altri termini, all’interno del requisito soggettivo della confisca di prevenzione dovrebbero rilevare soltanto le fattispecie indiziarie costruite attraverso il richiamo a reati di carattere lucro-genetico. Non solo, ma poiché si consente comunque di prescindere dalla prova del nesso causale tra i singoli beni confiscati e i singoli reati da cui gli stessi derivano, ammettendosi quindi la confiscabilità di ricchezze provenienti da fatti diversi rispetto a quelli di cui sussistono gli indizi, il presupposto soggettivo dovrebbe essere circoscritto alle fattispecie di criminalità economica organizzata o, quantomeno, a ipotesi di strutturata e sistematica commissione di reati lucro-genetici, con esclusione delle categorie criminologiche estranee alle logiche di accumulazione di proventi illeciti». Sempre in questa prospettiva, quindi, conclude Di Lello Finuoli, p. 289, che la chiave per riportare la confisca allargata, ante e post delictum, al rispetto del principio di proporzione è «nel senso di richiedere una ragionevolezza non solo temporale ma anche relazionale tra la commissione di un reato/manifestazione di pericolosità sociale e l’arricchimento illecito, sì da assicurare la razionalità intrinseca della previsione astratta ossia la proporzione tra fatto e confisca (nel quid e nel quantum)».

[13] Finocchiaro, pp. 375 ss.

[14] Finocchiaro, pp. 398 ss.

[15] Finocchiaro, pp. 405 ss.

[16] Finocchiaro, pp. 416 ss.

[17] Di Lello Finuoli, pp. 215 s., in cui si aggiunge come le esigenze di “macro-prevenzione” «risaltino con nettezza nei requisiti normativi (artt. 1, 4, 16, 20, 24 e 25, d.lgs. n. 159/2011), e comunichino la giustificazione dell’intervento patrimoniale preventivo (anticipato, allargato, di valore, non-conviction based, ecc.): non tanto la naturale conseguenza di un acquisto invalido, ma la eccezionale conseguenza del coinvolgimento in attività delittuose gravi e allarmanti, le cui diramazioni nel circuito economico siano idonee a destabilizzare l’ordine pubblico e il mercato, sì da richiedere l’inflizione di una misura patrimoniale diversa dalla confisca del profitto. Sul punto occorre intendersi: ancorché presuntivo, lo schema dell’‘illecito di prevenzione’ trova nel reato la sua legittimazione; da qui la costruzione normativa di una confisca (allargata e per equivalente) svincolata dall’accertamento processuale della responsabilità penale, ma non anche dal diritto penale”»

[18] Di Lello Finuoli, pp. 275 ss., la quale peraltro osserva come analogo riferimento a quest’accezione del principio di proporzione emergerebbe anche nella giurisprudenza costituzionale (ancorché, in effetti, come osservano Costantini, pp. 326-328, e Finocchiaro, p. 387, essa dovrebbe rilevare esclusivamente in ambito punitivo).

[19] Di Lello Finuoli, pp. 318 s.. Anche più avanti si conclude per l’accoglimento di «una visione poli-funzionale della confisca di prevenzione, in ragione della diversità delle situazioni fattuali sulle quali è chiamata a intervenire: una funzione general-preventiva, di dissuasione dei consociati dall’illecito; special-preventiva, nelle occasioni in cui operi su una condizione di pericolosità sociale attuale; reattivo-sanzionatoria, nell’ipotesi in cui l’ablazione inglobi (per eccesso) il patrimonio sproporzionato posseduto dal proposto, incapace di giustificarne la provenienza; compensativo-ripristinatoria, nel senso dell’azzeramento dei profitti illeciti; strategica, per la macro-prevenzione dei fenomeni criminali più allarmanti» (Di Lello Finuoli, p. 346).

[20] Di Lello Finuoli, pp. 317 ss.

[21] Costantini, pp. 154 ss.

[22] Costantini, p. 316.

[23] Costantini, pp. 241 ss.

[24] Costantini, pp. 336 ss. e in ptc. 341 ss.

[25] Costantini, pp. 363 ss., in cui, dopo aver fatto riferimento al principio di legalità “preventiva”, ossia a quei corollari validi anche all’infuori della materia penale, vengono richiamati i canoni del ne bis in idem e della presunzione di innocenza, prospettandone una certa rilevanza quali “distillati” del principio di proporzione e, quindi, con una portata non del tutto coincidente a quella che assumono nella “materia penale”, nel senso che il primo imporrebbe essenzialmente una considerazione di quanto confiscato nel procedimento di prevenzione in sede di commisurazione della pena applicata per il medesimo reato presupposto, oltreché un divieto di duplicazioni confiscatorie e di cumulo con altri istituti di carattere ripristinatorio, mentre il secondo uno standard probatorio superiore a quello meramente indiziario (in effetti, così come nel riferimento di Di Lello Finuoli alla proporzione in senso stretto, in questi argomenti sembra scorgersi un retropensiero rivolto proprio ad una funzione punitiva, almeno compresente, dello strumento).

[26] Il discorso, in effetti, vale più in generale per le varie ipotesi di confisca dei proventi, soprattutto se si evidenzia la convergenza funzionale dei medesimi (v. Finocchiaro, pp. 411 ss.).

[27] Costantini, pp. 345 s. e 348; Di Lello Finuoli, pp. 336 ss.; Finocchiaro, pp. 426 ss.

[28] Costantini, pp. 346 s. e 369 s.; Finocchiaro, pp. 419 ss.

[29] Finocchiaro, pp. 401 ss., secondo cui “poiché la pretesa ablatoria dello stato si fonda sulla sussistenza di un arricchimento illecito che si intende neutralizzare, la confisca in tanto pare giustificarsi in quanto siano individuate condotte delittuose ritenute fonte dell’arricchimento illecito. Ciò implica che le fattispecie-presupposto della confisca dovrebbero fare riferimento esclusivamente a “reati gravi, che tipicamente producono ricchezza illecita”.

[30] Di Lello Finuoli, pp. 345 s., secondo cui, sul terreno della necessarietà, occorrerebbe «subordinare il ricorso alla confisca di prevenzione ai casi in cui la confisca penale allargata non sia altrimenti attivabile (sostituibilità), nonché di regolarne lo spettro ablativo laddove la vicenda non corrisponda al modello criminologico che giustifichi l’attivazione di un procedimento ante delictum, con conseguente allargamento della sottrazione a cespiti estranei agli illeciti-presupposto del sistema prevenzionale; ovvero di contenerne il quantum in misura tendenzialmente ‘congruente’ con il profitto degli illeciti contestati nella fase cognitiva del giudizio di pericolosità (modulazione giudiziale)» (ribadendo a pagg. 407 che «ciò significa, anzi tutto, porre un freno alla generalizzazione del sistema, ossia all’espansione delle categorie soggettive dei destinatari; preso atto del fatto che il c.d. codice ‘antimafia’ non è più riservato all’azzeramento dei profitti illegali della associazioni criminali riconducibili all’art. 416-bis c.p., una prima forma di contenimento va senz’altro ricercata nella selezione delle fattispecie di pericolosità cui riservare l’intervento patrimoniale (ragionevolezza della presunzione di svolgimento di ulteriori attività illegali lucrative e di illecito arricchimento, ‘meritevolezza’ e ‘bisogno’ di misure derogatorie). Parallelamente, pare opportuno un ridimensionamento – pure d’iniziativa giurisprudenziale, magari su indicazione della Corte costituzionale o della Cassazione – dell’ambito oggettivo dell’apprensione, sia in prospettiva interna (modulazione della confisca-misura di prevenzione in relazione alle caratteristiche del fatto-presupposto cui accede) sia in prospettiva esterna, in relazione agli altri istituti confiscatori rispetto ai quali dovrebbe operare secondo criteri di proporzionalità, residualità ed extrema ratio»).

[31] Costantini, pp. 342 ss., secondo cui «pare dubbio che la necessità di contrastare gravi forme di criminalità economica possa di per sé sostenere la possibilità di incidere sui diritti individuali al di fuori dei limiti del diritto penale. Il punto debole di tale ricostruzione teleologica, infatti, consiste nell’equiparare fenomeni criminali che presentano basi criminologiche molto diverse: la generica finalità di contrasto a fenomeni criminali lucro-genetici, infatti, non impone criteri distintivi a seconda della tipologia criminale; e anche il riferimento alla “gravità” non è risolutivo, perché inevitabilmente aperto a valutazioni discrezionali. (…) Il risultato sarebbe allora quello di infiltrare nelle maglie dell’ordinamento – dietro la copertura di una finalità recuperatoria che non può mai davvero realizzarsi – un meccanismo ablatorio che, da eccezionale, si presta a divenire sempre più ordinario e “regolare”, senza tuttavia che a questa normalizzazione faccia riscontro il venir meno dei suoi tratti derogatori (quindi, ancora eccezionali) rispetto ai postulati garantistici del diritto penale liberale. Il limite di legittimazione di una confisca estesa non punitiva, quindi, potrebbe essere meglio individuato nell’integrazione della ratio (tendenzialmente) recuperatoria con una più specifica finalità di neutralizzazione dei capitali illeciti delle organizzazioni criminali, nella prospettiva di tutela preventiva c.d. macro-economica che si era illustrata nel cap. II. La confisca, in altre parole, sarebbe sostenuta oltre che da un fine di recupero dei proventi illeciti, anche dall’esigenza di colpire le basi economiche di gravi forme di criminalità organizzata, impedendo al contempo che i proventi di (presunta) origine illecita possano infiltrarsi nei circuiti dell’economia legale e turbare gli equilibri del mercato e della lecita concorrenza».

[32] Costantini, p. 348.

[33] Si pensi, ad esempio, alla sentenza della Corte costituzionale n. 112 del 2019 in cui, pur essendo stata esclusa l’operatività dell’art. 27 Cost., la rilevanza del principio di proporzionalità è stata desunta dall’art. 42 Cost. ed ha portato a circoscrivere l’ambito applicativo di un’ipotesi di confisca amministrativa prevista in materia di abusi di mercato. Ancora, il principio di proporzionalità è stato ampiamente valorizzato nella recente sentenza delle Sezioni Unite sui presupposti del sequestro preventivo di cose destinate ad essere confiscate: Cass., Sez. un., sent. 24 giugno 2021 (dep. 11 ottobre 2021), n. 36959.