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  Opinioni  
20 Giugno 2025


Il reato di femminicidio: una proposta da riformulare. Tra real politik e principi costituzionali

A proposito del d.d.l. A.S. n. 1433



Il testo qui pubblicato è stato presentato, su richiesta della Commissione Giustizia del Senato, nell'ambito di un ciclo di audizioni sul disegno di legge n. A.S. 1433.

 

Nel mio contributo mi soffermerò solo sull’articolo 1 del disegno di legge, che reca modifiche al codice penale e, in particolare, sulla proposta di inserire un nuovo delitto di “Femminicidio” nell’art.  577-bis c.p. Preciso che queste note, richiestemi a titolo personale, sono unicamente attribuibili a me e non riflettono necessariamente l’opinione dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Penale, della quale sono il Presidente.

 

1. Muovo dalla premessa che la volontà politica del Governo, espressa attraverso il d.d.l., è di configurare il femminicidio come autonoma figura di reato, sottoposta a un trattamento sanzionatorio ispirato a particolare rigore. Scelte diverse sarebbero con tutta evidenza possibili: introdurre per il femminicidio non un autonomo reato ma una circostanza aggravante dell’omicidio, che pure comporti la pena dell’ergastolo, oppure non ricorrere affatto al diritto penale e adottare misure per la prevenzione del femminicidio e della violenza nei confronti delle donne agendo, con opportuni investimenti pubblici, su piani diversi da quelli del diritto e del processo penale (es., educazione nelle scuole, servizi di assistenza sociale e di sostegno psicologico, sostegno ai centri anti-violenza, ecc.).

Puntare ulteriormente sulla prevenzione sarebbe una scelta ragionevole ed efficace, che però - è real politik - presenta almeno due ‘inconvenienti’, per così dire: in primo luogo, richiede risorse finanziarie; in secondo luogo, anche per responsabilità della politica e dei media, non ha lo stesso effetto comunicativo che invece ha la notizia dell’introduzione di un reato, che è stata diffusa, non a caso, in corrispondenza della ricorrenza dell’8 marzo, Festa della donna. Sotto il primo aspetto, faccio notare che l’art. 8 del d.d.l. stabilisce una clausola di invarianza finanziaria: dall’attuazione della legge “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. E’ previsto uno stanziamento di 900.000 euro per il 2025 e di 300.000 euro annui dal 2026, destinati a far fronte alle semplificazioni fiscali relative alle imposte di registro dovute per il risarcimento del danno da reato, ma non vi è purtroppo in questo d.d.l. alcun investimento per la prevenzione del fenomeno che si intende contrastare. Inspiegabilmente, non vi è nemmeno una copertura finanziaria per le attività formative dei magistrati (art. 4), nonostante sia noto che l’attività della Scuola Superiore Magistratura è di molto cresciuta in questi ultimi anni (anche per effetto del reclutamento di nuovi magistrati e della necessità della loro formazione iniziale) e che le risorse del Ministero della Giustizia destinate alla Scuola sono invece state ridotte da questo Governo. La Ragioneria Generale dello Stato era forse distratta quando ha messo il bollino al disegno di legge.

Ancora una volta, dunque, si propone una riforma a costo zero, inversamente proporzionale al clamore mediatico che l’effetto simbolico dell’introduzione di un reato indubbiamente ha. Un effetto analogo, sul piano comunicativo, si potrebbe produrre introducendo per il femminicidio una circostanza aggravante dell’omicidio. Senonché, da un lato, si è evidentemente voluto puntare più in alto, introducendo un autonomo reato e dando al “femminicidio” il nomen iuris, la dignità e lo stigma di un reato; dall’altro lato, si è inteso assicurare un trattamento sanzionatorio più rigoroso di quello dell’omicidio comune aggravato, in particolare nell’ipotesi, non rara, in cui ricorrono circostanze attenuanti.

Il Parlamento deve però essere consapevole di come, studi scientifici alla mano, l’efficacia preventiva della pena sia limitata. Il femminicidio è già oggi un reato, punibile con l’ergastolo, eppure le cronache ci raccontano, purtroppo, di un fenomeno ricorrente. Dubito che sullo stato delle cose possa incidere l’introduzione del nuovo reato. Nel lungo periodo, potrà forse produrre un positivo effetto di orientamento culturale connesso alla stigmatizzazione di un fenomeno che verrebbe per la prima volta nominato nel codice penale. Ma i femminicidi, purtroppo, non si fermeranno per il solo fatto che esisterà un reato di femminicidio, pur punito severamente. Per questo sarebbe piuttosto opportuno investire risorse pubbliche per promuovere, fin dalle scuole elementari, la cultura e l’educazione ai rapporti interpersonali fondata sul rispetto per la diversità di genere e sul ripudio di ogni forma di violenza e di sopraffazione sull’altrui persona. E’ un investimento a lungo termine, vero, ma capace di produrre effetti. Viceversa, l’introduzione di un reato produce nel breve termine effetti sul piano comunicativo e dell’acquisizione di consenso, ma non promette molto sul terreno della prevenzione del fenomeno. E’ esattamente muovendo da questa prospettiva che molti studiosi hanno condivisibilmente additato la proposta del d.d.l. come espressione di populismo e di uso simbolico del diritto penale.

Il risultato – il contrasto di un fenomeno così odioso e grave – sta a cuore a tutti; la via per perseguirlo, scelta dal d.d.l., non è invece da tutti condivisa ed è anzi da molte e autorevoli voci messa in dubbio con fondati argomenti.

 

2. Fatte queste premesse, passo dal piano politico-criminale al piano tecnico della formulazione dell’art. 577-bis c.p., da parte del d.d.l. Tratterò prima i profili attinenti alla descrizione della fattispecie legale e poi quelli relativi al trattamento sanzionatorio. In via preliminare, tuttavia, sottolineo come è di tutta evidenza che la nuova fattispecie è speciale rispetto a quella di omicidio (art. 575 c.p.), ragion per cui è del tutto superfluo precisare che “fuori dei casi di cui al primo periodo, si applica l’articolo 575”. Suggerisco pertanto in primo luogo, quale possibile emendamento, di sopprimere questo inutile inciso.

 

2.1. Il primo elemento di specialità rispetto all’omicidio riguarda la persona offesa, individuata in “una donna”. A tal proposito, individuo due problemi diversi.

Primo. Il concetto di donna, associato a quello di femminicidio che compare nella rubrica, fa pensare a una nozione fondata sul sesso biologico. L’art. 577-bis c.p. sembra infatti non considerare l’identità di genere. Stante il principio di legalità in materia penale, e il divieto di analogia in malam partem, la nuova norma non potrebbe applicarsi in caso di uccisione di una persona che non sia biologicamente donna ma che si senta e sia percepita dall’autore come donna, e che sia uccisa proprio in quanto tale. Se anche poi si dovesse accogliere per via interpretativa un concetto normativo (e non descrittivo) di “donna”, ne resterebbero comunque escluse le persone transgender in fase di transizione.

Secondo. Limitare la fattispecie alla persona offesa che sia “donna” introduce una irragionevole disparità di trattamento rispetto all’uccisione, pure commessa per i motivi indicati nel proposto art. 577-bis c.p., realizzata da un uomo nei confronti di un altro uomo, nell’ambito di relazioni omosessuali, ovvero – per quanto ciò sia statisticamente raro – da una donna nei confronti di un uomo.

In considerazione di queste criticità dell’attuale formulazione, a me pare che, se proprio si vuole introdurre una disciplina speciale dell’omicidio, improntata a maggior rigore perché commesso per motivi di genere, si debba in ossequio al principio di uguaglianza evitare di limitare l’incriminazione, sul piano della persona offesa, al solo genere femminile. Senza rinunciare al valore simbolico perseguito con il nomen iuris di “femminicidio” (perché questa, ne prendo atto, è la volontà politica), un possibile emendamento potrebbe modificare la rubrica in “Femminicidio e uccisione per motivi di genere” e intervenire altresì sulla descrizione della fattispecie facendo riferimento al cagionare la morte “di una donna o di un’altra persona”. Questo emendamento, almeno per il profilo considerato, metterebbe l’incriminazione al riparo da possibili rilievi di incostituzionalità per violazione del principio di uguaglianza. Sarebbe paradossale che una norma introdotta per punire condotte di discriminazione (ai danni delle donne) risultasse a sua volta discriminatoria nei confronti di chi non è (o non è ancora) donna. Basti pensare che l’uccisione di una donna “in quanto donna” sarebbe più grave dell’uccisione di un uomo in quanto omossessuale, in quanto transgender o (per quanto ciò sia più che raro) in quanto uomo.

 

2.2. Il secondo elemento di specialità della fattispecie di femminicidio, come descritta nel d.d.l., risiede nei motivi. Non ogni uccisione di una donna è un “femminicidio”, ma solo quella realizzata “come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna” oppure “per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. Entrambe le espressioni (la seconda senz'altro, ma anche la prima) valorizzano, in chiave soggettiva, motivi dell'agire. La formulazione della fattispecie, come da più commentatori è stato rilevato, è per più versi infelice e affetta da vizi di imprecisione e di indeterminatezza, che oltre a prestare il fianco a possibili questioni di legittimità costituzionale, rischiano di condannare la norma incriminatrice alla mancata applicazione.

Il numero delle aggravanti dell’omicidio comune è tale (si pensi anche solo all’esistenza di una relazione affettiva o di convivenza con l’autore) che, come avviene in alcuni paesi stranieri in cui il femminicidio è entrato nel codice penale, potrà risultare più agevole applicare la disciplina generale piuttosto che la disciplina speciale. Dimostrare l’atteggiamento psicologico del fatto dell’autore commesso contro la donna “in quanto donna” o “per reprimere la sua personalità” sarebbe difficile. Per altro verso, i margini della fattispecie sono eccessivamente ampi e non sufficientemente definiti specie quando si fa riferimento alla volontà di reprimere l’esercizio di diritti, libertà e personalità della donna.

Siamo sinceri: la norma proposta cerca di afferrare una realtà complessa, un contesto culturale e relazionale, nel quale si ambientano i femminicidi, che presenta sì caratteri ricorrenti e noti agli esperti ma che non è affatto facile fissare in una fattispecie legale sufficientemente precisa, tassativa e determinata, che descriva cioè in modo chiaro ed espresso fatti suscettibili di essere accertati nel processo, applicando un trattamento penale più grave di quello ordinario. L’attuale formulazione della norma rende a mio avviso più complesso l’accertamento probatorio e offre alla difesa dell’autore molti appigli per evitare la condanna per femminicidio in favore di quella per omicidio. Basti pensare che, mentre l’imputazione per femminicidio, reato punito con l’ergastolo, non consente il rito abbreviato, quella per omicidio, non aggravato, consente l’accesso a tale rito speciale e la riduzione di un terzo della pena. I processi per femminicidio, nella prospettiva difensiva, ruoteranno dunque attorno all’esclusione degli elementi specializzanti (così come, oggi, ruotano spesso attorno all’esclusione delle aggravanti che comportano l’ergastolo). Per questo, a mio parere, se proprio si vuole introdurre una fattispecie di femminicidio è suggeribile sul piano tecnico adottare una formulazione più semplice ed essenziale, eventualmente corredata da una norma definitoria o dall’indicazione di ipotesi ricorrenti di motivi fondanti il femminicidio, tratti dall’esperienza. Sul piano comparato esistono d’altra parte modelli in tal senso, come ad esempio quello dell’art. 390 ter del codice penale del Cile o dell’art. 325 del codice federale del Messico.

L’essenza del delitto di femminicidio, negli ordinamenti che hanno introdotto nel loro codice penale questo reato (per lo più si tratta di paesi dell’America Latina) risiede nella commissione del fatto per una motivazione di genere. Il prof. Marco Pelissero ha condivisibilmente sostenuto che “la proposta [di legge] avrebbe, più linearmente e sinteticamente, fatto meglio a riferirsi ai ‘motivi di genere’, che rinviano ad un parametro sociale di ruoli attribuiti al sesso biologico. Come ha evidenziato la Relazione finale della Commissione sul femminicidio, per motivi di genere si intendono ‘o il rifiuto della vittima del modello o del ruolo sociale impostole da un uomo per il fatto di essere una donna o la condizione di totale soggezione a cui era stata costretta”[1]. A me pare, allora, che un emendamento potrebbe così riformulare il primo comma:

“Chiunque cagiona la morte di una donna o di un’altra persona per motivi fondati sul genere è punito con l’ergastolo”[2].

Volendo caratterizzare ancor più la fattispecie nella direzione dei motivi di genere, si potrebbe precisare che tali motivi devono avere un ruolo decisivo (esclusivo o prevalente, nel quadro di plurimi motivi):

“Chiunque cagiona la morte di una donna o di un’altra persona per motivi fondati in modo esclusivo o prevalente sul genere è punito con l’ergastolo”

Si potrebbe poi valutare, in ossequio al principio di uguaglianza, un ampliamento dell’ambito applicativo della fattispecie, che vada oltre al femminicidio. La formulazione potrebbe essere la seguente:

“Chiunque cagiona la morte di una donna o di un’altra persona per motivi fondati in modo esclusivo o prevalente sul genere o sull’identità di genere, sul sesso ovvero sull’orientamento sessuale della persona offesa o, comunque, su evidenti intenti discriminatori, o di violenza, sopraffazione o disprezzo nel contesto di una relazione interpersonale, anche se occasionale, è punito con l’ergastolo”.

Si potrebbe poi aggiungere, in un secondo comma, una disposizione che dia espresso rilievo a ricorrenti motivi alla base dei femminicidi, frutto dell’osservazione criminologica e rispondenti all’id quod plerumque accidit:

“La disposizione di cui al primo comma si applica altresì quando le ragioni che hanno determinato l’autore ad agire risultano in modo esclusivo o prevalente fondate su evidenti intenti discriminatori o di violenza, sopraffazione o disprezzo nel contesto di una relazione interpersonale, anche se occasionale, nonché quando l’uccisione è conseguenza del rifiuto della vittima di stabilire o mantenere con l’autore una relazione sentimentale ovvero di accettare, nell’ambito della relazione stessa, il ruolo di soggezione che le è stato imposto”.    

 

2.3.  La definizione qui proposta di “Femminicidio e uccisione per motivi di genere” è coerente con l’estensione dell’ambito di applicazione della fattispecie, non limitata ai fatti commessi nei confronti delle donne ma estesa a quelli perpetrati a danno di tutti gli individui, purché, appunto, per motivi di genere. Non solo, essa, per ragioni suggerite dal rispetto del principio di uguaglianza, riprende il disegno di legge Zan, presentato nella scorsa legislatura (A.S. n. 2005), che tra l’altro mirava a introdurre una circostanza aggravante comune ai reati diversi da quelli puniti con l’ergastolo (quindi, anche all’omicidio non aggravato) riferita a fatti commessi “per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”. Rispetto al d.d.l. ora in esame si conserva poi il riferimento alla discriminazione, declinata in modo più chiaro in chiave di motivo. Ancora, si aggiungono riferimenti agli intenti di violenza, sopraffazione o disprezzo nel contesto di una relazione interpersonale, anche se occasionale. Si dà inoltre rilievo a due cause spesso ricorrenti nei femminicidi: il rifiuto della vittima di stabilire o mantenere con l’autore una relazione sentimentale ovvero di accettare, nell’ambito della relazione stessa, il ruolo di soggezione che le è stato imposto. Si precisa, inoltre, che i motivi di genere posti alla base dell’uccisione devono essere esclusivi o prevalenti e che gli intenti discriminatori, o di violenza, sopraffazione o disprezzo devono risultare “evidenti” e devono ambientarsi “nel contesto di una relazione interpersonale, anche se occasionale”.

Ritengo che una simile definizione assicurerebbe alla fattispecie sufficienti margini di precisione, tassatività e determinatezza, pur restando ferme le congenite difficoltà di accertamento probatorio tipiche della prova di fatti psichici, quali sono il dolo e i motivi dell’agire delittuoso.

 

3. Il disegno di legge mira a punire il femminicidio con l’ergastolo, la più dura delle pene previste nel nostro ordinamento. Tale pena è già oggi comminata dal codice penale per l’omicidio quando ricorre almeno una tra le numerose circostanze aggravanti riferibili all’uccisione di una donna inquadrata secondo le categorie socio-criminologiche come femminicidio. In base agli artt. 576 e 577 c.p., l’omicidio è già oggi punito con l’ergastolo se commesso: 1) contro il coniuge, anche legalmente separato, o la parte di un’unione civile tra persone dello stesso sesso; 2) contro persona stabilmente convivente; 3) contro persona legata da relazione affettiva; 4) contro l’ascendente (madre, nonna) o il discendente (figlia, nipote); 5) per motivi abietti o futili; 6) con crudeltà; 7) con sevizie; 8) con premeditazione; 9) in occasione del delitto di maltrattamenti contro familiari o conviventi; 10) in occasione del delitto di sfregio permanente del volto; 11) in occasione dei delitti di prostituzione e pornografia minorile; 12) in occasione dei delitti di violenza sessuale, anche di gruppo, e di atti sessuali con minorenne; 13) dall’autore del delitto di stalking.

In questi e negli altri casi di omicidio aggravato, eventuali circostanze concorrenti attenuanti, se ritenute prevalenti, escludono l’applicazione dell’ergastolo e rendono punibile l’omicidio con la reclusione da 21 a 24 anni e la possibilità di fruire della riduzione di un terzo della pena in caso di condanna con rito abbreviato (rito che, invece, è escluso per i delitti puniti con l’ergastolo). Questo esito è precluso dall’art. 577, ult. co. c.p. in rapporto all’aggravante per il fatto commesso contro ascendenti, discendenti, coniuge, parte dell’unione civile, persona stabilmente convivente o legata da relazione affettiva: le attenuanti non possono infatti essere considerate prevalenti e la pena dell’ergastolo non può essere evitata. Senonché la Corte costituzionale (sent. 197/2023) – in un caso di parricidio (vicenda di Alex Cotoia, già Alex Pompa) – ha dichiarato illegittimo tale vincolo al giudizio di bilanciamento consentendo al giudice, tra l’altro, di ritenere prevalenti le attenuanti generiche.

Ecco allora che il d.d.l. all'esame del Parlamento, comminando per il femminicidio l’ergastolo, mira ad assicurare l’applicazione di tale pena in casi (verosimilmente limitati) nei quali, per effetto del giudizio di bilanciamento), potrebbe oggi risultare esclusa.  

Non solo, si rende punibile con l’ergastolo l’uccisione della coniuge divorziata, dell’ex convivente o della partner legata a relazione affettiva che sia cessata, o della sorella: tutte uccisioni punite oggi ex art. 577, co. 2 c.p. con la reclusione da 24 a 30 anni.

Una così estesa applicazione della pena fissa dell’ergastolo, che non consente al giudice di graduare la risposta sanzionatoria in rapporto alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto concreto, può comportare l’applicazione di una pena sproporzionata e disparità di trattamento con omicidi per i quali non è comminato l’ergastolo.

Il d.d.l. si preoccupa poi di contenere l’effetto di elisione della pena dell’ergastolo attraverso una disciplina delle circostanze del reato di femminicidio che, per diversi aspetti, appare problematica e di dubbia compatibilità con i principi costituzionali.

Anzitutto, si prevede l’applicabilità delle circostanze aggravanti dell’omicidio (artt. 576 e 577 c.p.). Si tratta, a mio parere, di una previsione irragionevole, che un emendamento potrebbe opportunamente sopprimere: non solo per evitare esiti di possibile sproporzione in concreto della risposta sanzionatoria ma, ancor prima, perché il femminicidio è un’ipotesi speciale di omicidio diversa e ulteriore rispetto alle sottofattispecie risultanti dalle aggravanti di cui agli artt. 576 e 577 c.p. Il femminicidio è una sottofattispecie di omicidio come lo è l’omicidio per motivi abietti o futili. Si tratta di due ipotesi speciali rispetto all’omicidio, l’una rilevante come figura autonoma di reato, l’altra come aggravante. Che senso ha costruire sottofattispecie aggravate di femminicidio (es., femminicidio per motivi abietti o futili) se la pena massima conseguente alle aggravanti speciali del femminicidio – l’ergastolo – è già comminata per l’ipotesi non aggravata? Le aggravanti non potrebbero aggravare la pena, già massima, ma verrebbero in rilievo solo per pesare nel giudizio di bilanciamento qualora ricorrano anche circostanze attenuanti. Il rilievo dato dalla proposta governativa alle aggravanti di cui agli artt. 576 e 577 c.p., insomma, è un modo per blindare la pena dell’ergastolo riducendo le ipotesi in cui il giudice possa considerare prevalenti le attenuanti, escludendo così l’applicazione dell’ergastolo. Ancora una volta, pare evidente la possibile frizione con il principio di proporzionalità della pena; ancor più se si considera la sostanziale duplicazione sanzionatoria possibile in certi casi di femminicidio “aggravato”: ad es., perché commesso ai danni di persona legata da relazione affettiva o per motivi abietti o futili.

Per tali ragioni a mio parere andrebbe soppresso il riferimento all’applicabilità delle aggravanti di cui agli artt. 576 e 577 c.p. Non si può logicamente e ragionevolmente aggravare la pena più grave, per definizione, prevista nell’ordinamento.

 

4. Il secondo e il terzo comma dell’art. 577-bis c.p. disciplinano l’ipotesi in cui siano applicabili, rispettivamente, una sola o più circostanze attenuanti: vuoi perché non ricorrono le aggravanti di cui agli artt. 576 e 577 c.p., vuoi perché queste sono state ritenute subvalenti. In deroga alla disciplina di cui, rispettivamente, agli artt. 65 e 67 c.p., la pena per il femminicidio ‘attenuato’ (ad es., dalle attenuanti generiche) è quella di 24 anni di reclusione (anziché della reclusione da 20 a 24 anni) in caso di una sola attenuante, ed è quella della reclusione da 15 a 24 anni (anziché della reclusione da 10 a 24 anni) in caso di più attenuanti. Il d.d.l. non blinda il giudizio di bilanciamento impedendo la prevalenza delle attenuanti (analogamente a quanto, si è detto, fa l’ultimo comma dell’art. 577 c.p in rapporto a talune aggravanti dell’omicidio, oggi riferibili anche a casi di femminicidio): esso inasprisce però la pena risultante dall’applicazione delle attenuanti, diminuendone così gli effetti rispetto a quanto normalmente accade. Tale disciplina appare problematica sotto due profili. In termini generali, perché introduce disparità di trattamento, rispetto ad altri casi di omicidio, di dubbia ragionevolezza. Con riferimento specifico all’ipotesi in cui ricorre una sola attenuante, invece, perché viene comminata di fatto la pena fissa di 24 anni di reclusione, incostituzionale perché contraria al ‘divieto di pene fisse’ e ai principi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale a partire dalla sentenza n. 50 del 1980, nella quale si affermò che “in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono... in armonia con il ‘volto costituzionale’ del sistema penale”. I proponenti il d.d.l. non hanno infatti considerato, nel prevedere nel secondo comma dell’introducendo art. 577-bis c.p. la reclusione “non inferiore a 24 anni”, che il massimo della reclusione, ai sensi dell’art. 23 c.p., è in via ordinaria pari a 24 anni! Ecco introdotta una pena fissa, destinata con ogni probabilità a essere dichiarata incostituzionale. Ritengo pertanto necessario un emendamento che sostituisca il secondo e il terzo comma dell’art. 577-bis c.p. con il seguente:

Quando ricorre una sola circostanza attenuante, anche se ritenuta prevalente rispetto a concorrenti circostanze aggravanti, la pena non può essere inferiore ad anni ventidue; quando ricorrono più circostanze attenuanti, anche se ritenute prevalenti rispetto a concorrenti circostanze aggravanti, la pena non può essere inferiore ad anni quindici.     

L’emendamento proposto non prevede più, per le ragioni di cui si è detto, un richiamo alle aggravanti di cui agli artt. 576 e 577 c.p. e fa invece generico riferimento alle aggravanti, da intendersi operato a quelle comuni (es., art. 61 c.p.). Per l’ipotesi in cui ricorra una sola circostanza attenuante, si individua una cornice di pena da 22 a 24 anni che, da un lato, evita la comminatoria di una pena fissa di 24 anni e, dall’altro lato, rispetta la volontà del Governo di derogare alla disciplina ordinaria di cui all’art. 65 c.p.  

 

5.  Riporto, conclusivamente, la possibile formulazione dell’art. 577-bis c.p. in linea con quanto proposto in queste note:

(Art. 577-bis) (Femminicidio e uccisione per motivi di genere)

“Chiunque cagiona la morte di una donna o di un’altra persona, per motivi fondati in modo esclusivo o prevalente sul genere o sull’identità di genere, sul sesso ovvero sull’orientamento sessuale della persona offesa o, comunque, su evidenti intenti discriminatori, o di violenza, sopraffazione o disprezzo nel contesto di una relazione interpersonale, anche se occasionale, è punito con l’ergastolo.

La disposizione di cui al primo comma si applica altresì quando le ragioni che hanno determinato l’autore ad agire risultano in modo esclusivo o prevalente fondate su evidenti intenti discriminatori o di violenza, sopraffazione o disprezzo nel contesto di una relazione interpersonale, anche se occasionale, nonché quando l’uccisione è conseguenza del rifiuto della vittima di stabilire o mantenere con l’autore una relazione sentimentale ovvero di accettare, nell’ambito della relazione stessa, il ruolo di soggezione che le è stato imposto.

Quando ricorre una sola circostanza attenuante, anche se ritenuta prevalente rispetto a concorrenti circostanze aggravanti, la pena non può essere inferiore ad anni ventidue; quando ricorrono più circostanze attenuanti, anche se ritenute prevalenti rispetto a concorrenti circostanze aggravanti, la pena non può essere inferiore ad anni quindici.    

 

6.  In linea con la proposta di riformulazione dell’art. 577-bis c.p., e con le ragioni ad essa sottese, andrebbero presentati a mio avviso emendamenti all’art. 1, lett. b-g) del d.d.l. volti a sostituire le parole da “come atto di discriminazione” a “espressione della sua personalità” con le parole “per i motivi e nei casi di cui all’articolo 577-bis”. .

 

7. Una possibile soluzione alternativa, come si è premesso, è dare rilievo al femminicidio come circostanza aggravante. Si potrebbe aggiungere con un emendamento nell’art. 577 c.p. un numero 5 così formulato:

5) “per motivi fondati, in modo esclusivo o prevalente, sul genere o sull’identità di genere, sul sesso ovvero sull’orientamento sessuale della persona offesa o, comunque, su evidenti intenti discriminatori, o di violenza, sopraffazione o disprezzo nel contesto di una relazione interpersonale, anche se occasionale, ovvero contro una donna o un’altra persona che si sia rifiutata di stabilire o mantenere con l’autore una relazione sentimentale ovvero di accettare, nell’ambito della relazione stessa, il ruolo di soggezione che le è stato imposto”.

L’inserimento di una circostanza aggravante, in luogo di una autonoma figura di reato, è soluzione a mio parere preferibile perché più coerente con l’attuale sistema della disciplina dell’omicidio e, soprattutto, non problematica rispetto al principio di proporzionalità della pena. Se proprio non si volesse rinunciare a ‘dare il nome alle cose’, l’aggravante potrebbe d’altra parte essere inserita in un art. 577-bis c.p. con questa rubrica: (Altre circostanze aggravanti. Femminicidio).

 

8. Due notazioni finali. Sul piano investigativo, per non indebolire l’azione di accertamento e prevenzione dei femminicidi, sarebbe opportuno inserire un emendamento che preveda, in materia di intercettazioni di comunicazioni, l’applicabilità della disciplina speciale dell’art. 13 d.l. n. 152/1991 escludendo che operi il limite massimo complessivo di durata delle operazioni (45 giorni) introdotto dalla legge n. 47/2025 (c.d. legge Zanettin) nell’art. 267, co. 3 c.p.p.

Sarebbe altresì opportuno, con un altro emendamento, prevedere che ogni anno il Ministro della Giustizia riferisca con una relazione al Parlamento sullo stato dell’applicazione della nuova incriminazione, fornendo i dati delle condanne e delle assoluzioni per femminicidio nonché quelli per omicidio, disaggregati in base al genere della persona offesa e alle circostanze aggravanti.

 

[1] M. Pelissero, Il nuovo reato di femminicidio: una proposta di puro populismo penale che distoglie dalle vere questioni culturali di genere, in Dir. Pen. Proc. 2025 (editoriale in corso di pubblicazione).

[2] La formulazione sarebbe analoga, ad esempio, a quella del codice penale cileno: “l’uomo che uccide una donna a causa del suo genere…”.