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  Opinioni  
24 Febbraio 2021


Il femminicidio e l'idealismo pervertito


 “Di chi mi lamenterò oggi? Chi odierò?

Sarebbe mai quello il mostro?

Oh, gioia! L’ho trovato.

Venite, amici, laceriamolo”

(Silvio Pellico, Le mie prigioni)

 

1. Il “femminicidio”, oltre ad essere “una parola orrenda” [1], non è qualsiasi omicidio di donna bensì, come ebbe a spiegare Diana Russell coniando il neologismo nel 1992, l’omicidio di una donna per il fatto di essere donna[2], quindi per esempio l’uccisione della partner infedele, o anche solo disobbediente, o in procinto di lasciare un marito magari dopo anni e decenni di soperchierie e di violenze.

Questo fenomeno negli ultimi anni non mostra aumenti di rilievo; rispetto ad anni fa è persino in diminuzione, anche se bisogna considerare la complessiva diminuzione degli omicidi avvenuta nel frattempo.

 

Da: Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della polizia Criminale, Servizio Analisi Criminale, Omicidi Volontari, Roma, gennaio 2021.

 

Non sono dunque cresciuti gli omicidi di donne, neppure durante le restrizioni dovute alla pandemia, come invece i criminologi temevano considerando che le donne sono nella stragrande maggioranza dei casi vittime di omicidio familiare e immaginando le situazioni in cui la coppia eventualmente in conflitto si trova chiusa nell’abitazione, senza la mediazione del lavoro, degli svaghi, degli amici[3].

Anche considerando serie storiche di maggiore consistenza, se è vero che gli omicidi di donne sono anch’essi diminuiti, la diminuzione generale degli omicidi volontari consumati ha riguardato in maniera maggiore il genere maschile, che ha beneficiato negli ultimi anni di una forte discesa dei livelli di vittimizzazione in generale. La serie storica relativa al periodo 2002-2018 mostra come le vittime di omicidio fossero circa 1,6 per centomila maschi e 0,6 per centomila femmine nel 2002 e siano rispettivamente 0,8 e 0,4 nel 2018; la diminuzione ha quindi beneficiato maggiormente gli uomini[4].

Relativamente all’ultimo anno, poi, il lockdown ha contribuito a modellare la fisionomia del fenomeno con il fatto che nei mesi di febbraio, maggio, ottobre e novembre 2020 il 100% delle donne sono state uccise in ambito familiare-affettivo[5].

Il problema, però, non è solo e non è tanto quello dell’aumento o della diminuzione degli omicidi: ce ne fosse anche uno solo, sarebbe lo stesso tragico e scandaloso, perché in questo caso sì che “uno vale uno”. Cioè a dire, si tratta dell’uccisione di una persona, “senza distinzione di sesso”, e ben consapevoli della debolezza sociale delle donne, della loro particolare vulnerabilità in questa cultura, ci si chiede se plaudire a chi ha proposto di confezionare un reato apposito per l’uccisione di una donna.

Alcuni Paesi lo hanno fatto, in altri si discute[6]; ma: è così che si difendono i più deboli? È così che si evita la discriminazione? È così che si riconosce l’uguaglianza come obiettivo? È così che si accredita un destino muliebre che non sia quello della vittima?

 

2. A parte il considerare l’uccisione di una donna come cosa diversa rispetto all’uccisione di un uomo, è certamente vero che le donne sono maggiormente oggetto di discriminazioni, violenze, soprusi, sicché ben vengano norme, protocolli, convenzioni che riconoscano tale specificità e, soprattutto, che prevengano le violenze. Però l’opinione pubblica talora trascende o almeno esprime opinioni non ben documentate, anche quell’opinione pubblica doverosamente attenta ai diritti e ai destini delle donne.

Qualche volta è accaduto per gli omicidi delle donne quel che – sempre qualche volta – è successo per gli omicidi in generale quando si sono levate voci indignate se è assolta una persona imputata di un delitto particolarmente efferato, come se non si possa essere egualmente innocenti indipendentemente dal livello di commozione suscitata dal crimine o indipendentemente dalla gravità dello stesso.

Questo desta ancora maggiori perplessità se, oltre ai valori, sono in campo questioni scientifiche.

Per venire al nostro tema, una vicenda è quella dell’ottantenne A.G. che il 3 ottobre 2019 colpiva la moglie con un martello per poi finirla con numerose coltellate. Dopo l’omicidio tentava di uccidersi, ma non riusciva, si metteva allora a dormire, risvegliatosi vagava per casa, poi proseguiva la sua giornata “come faccio di solito” (interrogatorio avanti al PM), e di nuovo cercava senza successo di uccidersi. Nell’interrogatorio reso al PM spiegherà: “Il mio intento era quello di farla finita per entrambi e, in particolare, di uccidere mia moglie e poi di buttarmi dal balcone di casa. […] Infatti, nella mia mente avevo pianificato tutto, in quanto volevo che morissimo entrambi. […] Io non posso più vivere, ma Cristina deve venire con me”.

Una criminodinamica quindi è quella, nota, dell’omicidio-suicidio in cui l’intento è autosoppressivo e quello eteroaggressivo non è pietatis causa: “Mi voglio uccidere e ti porto con me”[7]. La criminodinamica però è “solo” la spiegazione del perché di un delitto – se c’è stato un delitto, ci sarà un motivo, che sia o non sia la malattia di mente –, e non necessariamente ha a che fare con la capacità di intendere o di volere. Piuttosto, dalle testimonianze emergeva che l’imputato accusava da qualche mese sintomi depressivi, tanto che si era recato in un ambulatorio della propria città ed era stato visitato da un medico, e che nel passato era stato in cura e anche ricoverato più volte per sintomatologia depressiva.

Di sintomi depressivi e anche psicotici scriveva lo psichiatra dell’istituto penitenziario in cui A.G. veniva rinchiuso dopo il fatto.

Veniva allora disposto un accertamento sulla capacità di intendere e di volere, che è quello che qui ci preme, e anche sull’eventuale pericolosità sociale e sulla capacità di coscientemente partecipare al procedimento.

Il consulente per il Pubblico Ministero e quello dell’imputato erano concordi nel ritenere l’omicida affetto da “Disturbo Delirante tipo Gelosia” e nel valutare la sua totale incapacità di intendere e di volere (nonché nel considerarlo socialmente pericoloso).

La I Corte d’Assise di Brescia, sezione I Penale, faceva sue le conclusioni dei consulenti, spiegando nella sentenza del 9 dicembre 2020 cosa si intende per “delirio di gelosia”, differenziando questa criminogenesi da uno stato emotivo ovvero passionale, in ciò riprendendo le parole di uno dei tecnici sentito a dibattimento: “Invitato ad approfondire il tema, il consulente ha precisato che nella impulsività patologica colui che agisce comprende di fare una cosa sbagliata, ma non riesce a controllarsi. Nel caso del delirio ‘la situazione è capovolta’ perché ad essere colpita primariamente dalla visione distorta della realtà è invece la capacità di intendere; quella di volere ne risulta viziata di conseguenza”[8]. Con ancora maggiore chiarezza invita a distinguere “i profili del delirio con quello della passionalità tracimante […] Appare necessario, dunque, non confondere i disturbi cognitivi con le episodiche perdite di autocontrollo sotto la spinta di impellenti stimoli emotivi; la liberazione dell’aggressività in situazioni di contingenti crepuscoli della coscienza con la violenza indotta dalla farneticazione nosologica; il ‘movente’ con il ‘raptus’ e ‘l’allucinazione’; il femminicidio con l’uxoricidio. […] la profonda differenza tra la gelosia delirante, quale sintomo di una patologia psichiatrica, dalla gelosia come stato d’animo passionale”[9]. La Corte insisterà nel “ricordare che uxoricidio e femminicidio non sono termini equivalenti”, il secondo riferendosi a “situazioni di patologie relazionali dovute a matrici ideologiche misogine e sessiste e/o ad arretratezze culturali di stampo patriarcale”[10].

La Pubblico Ministero non concordava, in virtù di un convincimento maturato attraverso un personale approfondimento della materia; “Mi ero documentata, guardando proprio su internet”, dichiarerà[11].

Reprimo un brivido, ricordo che il “suo” consulente aveva concluso per l’incapacità in una pregevole consulenza che spiegava molto bene cosa fosse un delirio, che quindi internet era superfluo ed era fors’anche superfluo aggiungere: “l’organo della accusa ha un compito molto più importante che limitarsi a dire: è un caso di letteratura, ci sono i criteri diagnostici […] c’è una persona che chiede giustizia […] la povera M. che è stata ammazzata! Massacrata! […] un omicidio efferato, cruento”[12].

A.G. fu dunque assolto per totale incapacità di intendere e di volere, e allora: apriti cielo!

I commentatori, come d’abitudine, sono stati i social, i media, gli “esperti”.

Già all’indomani – letteralmente – della sentenza i commenti sui social si sono scatenati. I social, si sa, hanno il vantaggio che lo schermo del computer diviene schermo anche in senso metaforico favorendo la disinibizione, il che comporta poter sfuggire alla ritrosia a esprimersi senza filtri e senza tener conto della desiderabilità sociale[13], sicché in essi troviamo di tutto. Per esempio, a proposito del caso descritto, nei social possiamo leggere: “si ritorna al delitto x onore”; “La sentenza non sembra solo emessa con una logica 70 anni fa, ma stupida e pericolosa”; “Non capace di intendere e di volere ma capace di uccidere il che è ancora peggio. Queste persone vanno mese in cella buttando via la chiave, non per strada ad uccidere ancora. Ma che giustizia è mai questa?”; “Ancora una assoluzione per infermità mentale per un omicida di femminicidio”[14]. Eccetera. Ricordiamo però anche che quello che troviamo nei social non è necessariamente rappresentativo di quello che tutti pensano ma talora di quello che pensano i più esagitati e magari frustrati perché inascoltati altrove (la frustrazione genera aggressione, ricordano i criminologi).

La risonanza è tale che il Ministro della Giustizia invia gli ispettori, prima ancora che vengano depositati i motivi della sentenza.

Venendo ai media, c’è chi scrive di un caso di “femminicidio”[15]: a nulla sono valsi i chiarimenti della Corte, magari perché chi ha commentato la sentenza non l’ha letta proprio.

Questo è il punto, anche per gli “esperti” quando vengono inseguiti e talora stanati dagli intervistatori.

La logica della cronaca e quella del sapere esperto sono diverse: il giornalismo, o almeno la cronaca abbisogna frequentemente di commenti “a caldo”, la sua logica è la logica dell’emergenza, dell’illico et immediate, il sapere scientifico si fonda sulla riflessione e su affermazioni ipotetiche e mai apodittiche. La scena, di solito è la seguente: il cronista telefona mentre l’esperto, a seconda dell’ora, è al consiglio di dipartimento, è in udienza, o sta mescolando il ragù; comunque è in tutt’altre faccende affaccendato. Salvo che non abbia appena consultato internet, magari non sa neppure qual è il caso su cui si vuole il suo illuminato parere, ed evidentemente nel nostro caso non ha letto la sentenza che si vuole che commenti.

Per esempio: “La sentenza del tribunale di Brescia ci lascia esterrefatte. Aspetteremo di leggere le motivazioni [ecco, appunto. N.d.A.]. Ma a caldo ci sembra che con questa sentenza la gelosia e la depressione diventino condizioni legali per compiere impunemente un femminicidio, una sentenza che dice in sostanza che se si è depressi e gelosi si possono anche ammazzare le proprie compagne, colpirle nel sonno con un martello e poi finirle a coltellate, tanto poi si viene assolti”[16]. Per esempio ancora, una senatrice: “Nel 2020 si può assolvere un uomo che ha compiuto un femminicidio nei confronti della moglie per ‘delirio di gelosia’? È sempre necessario aspettare le motivazioni di una sentenza [e dàgli], ma se venissero confermate le notizie di stampa il senso di quella di oggi preannuncerebbe un fatto gravissimo: un marito può essere assolto dal femminicidio della moglie perché il delitto è stato commesso ‘in preda ad un delirio di gelosia’, che ha reso l’uomo incapace di intendere e di volere. Se davvero l’uomo fosse stato incapace di intendere e di volere avremmo dovuto avere una pronuncia diversa. Noi crediamo invece che né la gelosia, né altri sentimenti di possesso possano in alcun modo giustificare la violenza contro una donna o addirittura la sua uccisione. Anzi, che proprio tali giustificazioni siano il prodotto della cultura patriarcale di cui il delitto d’onore era il simbolo e dalla quale vogliamo emancipare l’Italia”[17]. Un’altra senatrice: “Non sono solita commentare le sentenze, ma di fronte a un’assoluzione di un femminicidio per ‘delirio di gelosia’ credo non si possa tacere. Sembra purtroppo un déjà vu, un terribile ritorno al passato, invece è la triste realtà. Aspetteremo ovviamente di leggere le motivazioni di questa sentenza, ma il senso sembra purtroppo chiaro e terribile: questo femminicidio non è stato riconosciuto come tale e un marito in preda alla gelosia può uccidere la moglie senza essere condannato all’ergastolo”[18]. Ergastolo, niente meno.

Zai.Net, infine, intitola: “Uccide la moglie e viene assolto. La sentenza del patriarcato”, e ricorda il precedente caso di M.C. per il quale, secondo la rivista, la pena fu ridotta perché egli aveva ucciso in preda a una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”[19].

Vediamolo.

Il 5 ottobre 2016 M.C. strozzava, uccidendola, la donna con cui da circa un mese intratteneva una relazione. Immediatamente dopo il fatto assumeva farmaci e whisky in un tentativo di suicidio piuttosto maldestro e senza particolari conseguenze.

Tre anni prima M.C. si era rivolto a un centro di salute mentale per ansia, attacchi di panico, insonnia, pensieri intrusivi; l’anno dopo aveva tentato il suicidio mediante ingestione di benzodiazepine e alcool ed era stato anche sottoposto a TSO.

Per l’omicidio era condannato a trenta anni di reclusione dal GUP, con l’aggravante dei motivi abietti e futili. Il motivo addotto dall’omicida era la gelosia, con le sue parole: “Le ho detto che lei doveva essere mia e di nessun altro”[20], e appunto tale gelosia, “espressione di un intento meramente punitivo”, veniva considerata motivo futile dal primo giudice[21]. In secondo grado però gli venivano anche concesse le attenuanti generiche e la pena rideterminata in anni sedici di reclusione. A questa sentenza proponeva ricorso il Procuratore Generale presso la Corte di Appello; il ricorso veniva accolto e la Corte di Cassazione annullava la sentenza della Corte d’Assise d’Appello in relazione al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

In primo grado era stata disposta perizia sulla capacità di intendere e di volere che aveva concluso nel senso che il delitto fosse stato frutto di una “soverchiante tempesta emotiva e passionale” al di là della quale non era possibile scorgere “alcuna alterazione rilevante in termini di psicopatologia ai fini della capacità di intendere e di volere”. Il consulente della difesa concordava con tale conclusione.

Siccome la “battaglia legale” verteva soprattutto sul punto delle aggravanti e delle attenuanti, è da rimarcare che se la gelosia era stata considerata motivo futile dal GUP, la stessa gelosia, ribattezzata “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, in Corte d’Assise d’Appello appariva invece quale attenuante generica. Nel 2020, la successiva sentenza della Corte d’Assise d’Appello a cui la Cassazione rinviava il caso confermava la sentenza del GUP, la gelosia come motivo futile e i trent’anni di reclusione.  

Già è interessante la discussione in merito al fatto che la gelosia sia motivo futile ovvero, scatenando tempeste emotive, possa attenuare la responsabilità penale, anche in questo caso però mi soffermerò piuttosto sulle sguaiatezze di certi commenti. Può darsi che l’espressione “tempesta emotiva” e soprattutto l’aggettivo “soverchiante” non fossero particolarmente felici, ma a chi appena appena conosca le norme relative all’imputabilità è subito chiaro che l’aver ascritto il delitto a una condizione emotiva significa che non si è imboccata la strada dell’indulgenzialismo psicopatologico. Ciò non di meno sul cartello inalberato da una manifestante dopo la sentenza della Corte d’Assise d’Appello si leggeva “Tempesta emotiva non giustifica il femminicidio”; ad una manifestazione davanti al tribunale si sentiva “Vergogna, l’ha uccisa un uomo non un raptus”[22]; taluni hanno parlato di “surrentizia reintroduzione del delitto d’onore”[23].

 

3. Ben venga l’indignazione. Se non abbiamo perso la capacità di indignarci potrebbe voler dire che abbiamo valori e fors’anche speranze in un futuro migliore.

I commenti sopra riportati però evidenziano (almeno) un limite, che è quello di considerare tutti i rei uguali e tutti solo disumani, vili, perfidi.

Alcuni anni fa, nominata in una Commissione ministeriale per occuparmi di violenza in famiglia, mi concessi un anno sabbatico che trascorsi nelle patrie galere a conoscere uxoricidi e soggetti che avevano commesso gravi violenze nei confronti delle partner. In seguito, ho varato e diretto un progetto di trattamento criminologico per partner abusanti inviatimi mentre scontano una misura alternativa alla detenzione (il S.A.Vi.D – Stop Alla Violenza Domestica).

Quel che ho trovato dopo averne conosciuti molti è che costoro possono essere suddivisi in “sottocategorie”:

  • Cronache di morti annunciate: quei casi in cui l’omicidio è il dramma finale di una lunga teoria di maltrattamenti, prepotenze, violenze, accompagnate da una salda sottocultura di discriminazione di genere e di sostegno alla violenza.
  • Non posso vivere senza di te: chi ha ucciso o comunque è stato violento sulla base di un serio problema di dipendenza dalla partner, senza la quale non riesce a concepire di poter vivere. Talora in questi casi l’intento è in un primo tempo autosoppressivo, ma vi è poi un viraggio dall’auto all’eteroaggressività.
  • Cose da matti: coloro che hanno commesso il reato perché fortemente sollecitati da o a causa di malattia mentale[24].

Le tipologie possono trovarsi mescolate, ed è difficile trovare qualcuno che sia tutto e solo mascalzone, senza che sia anche un po’ sofferente.

L’elaborato del consulente del PM del caso di A.G. spiega bene come in questo caso siamo davanti a un insieme di criminogenesi, follia e disperazione, racconta l’omicidio con le parole di chi lo ha commesso, il suo stare più di un giorno nella casa in cui c’è il cadavere della moglie “trastullandosi” con il proposito autosoppressivo, riferisce in modo drammatico l’uccisione, con toni strazianti il sentire dell’autore del crimine, spiega come egli avesse perso il contatto con il reale (un esempio solo: dopo aver cercato di tagliarsi i polsi si coricò, e “avevo cura di tenere il braccio fuori dal letto per evitare di sporcare le lenzuola”[25]). Il consulente prende in esame le diverse testimonianze, univoche nell’escludere maltrattamenti pregressi da parte dell’omicida, cosicché possiamo escludere la prima tipologia che è quella a cui evidentemente hanno pensato coloro che hanno fornito i giudizi sopra riportati (e che è effettivamente quella più frequente). Il consulente, infine ma non da ultimo, spiega bene che di delirio si tratta, cioè di una malattia. Sfortunatamente questo tipo si chiama “Disturbo delirante – Tipo di gelosia”, forse se A.G. fosse stato affetto dal “Tipo di grandezza”, o da quello “di persecuzione” non avrebbe scatenato la bagarre di commenti.

Considerazioni analoghe possono essere fatte per la perizia su M.C., anche qui si spiega bene – e spiegare bene è uno dei compiti di consulenti e periti, non basta avere ragione, occorre saperla ottenere.

Leggere uno dopo l’altro i due elaborati relativi a un crimine dello stesso tipo, ma effettuato in condizioni così diverse è un ottimo esercizio criminologico (e umano). Mentre A.G. si comporta in modo incomprensibile secondo gli abituali parametri di razionalità (non dico ragionevolezza), M.C. agisce in maniera che ci è comprensibile (non condivisibile): “lei mi diceva di andare via […] allora abbiamo litigato. Lei non mi dava ascolto, avevamo bevuto vino (io dopo due bicchieri vado subito fuori). Io ho perso la testa perché lei non voleva stare più con me. Le ho detto che lei doveva essere mia e di nessun altro”[26].

Le descrizioni sono quelle di due persone molto differenti anche da un punto di vista psicopatologico, e infatti il perito di M.C. chiarisce dopo aver illustrato il fatto e lo psichismo del periziato: “Il gesto omicida non appare sostenuto da una condizione psicopatologica documentabile capace di inficiare la capacità di percepire la realtà, bensì sgorga al culmine di una sequenza di avvenimenti e di relativi stati d’animo che attengono alla sfera delle emozioni, dei sentimenti, delle passioni e delle frustrazioni. […] Il ‘perdere il controllo’ in quei momenti concitati attiene a stati d’animo certamente perturbati, ma ‘comprensibili’, soprattutto se inscritti in uno stato di forte esasperazione”. Infine ci ricorda saggiamente che: “Efferatezza e sproporzione del gesto non sono sufficienti a derivare, ex-post, una condizione di infermità”[27]

Non sempre si vedono consulenti tutti d’accordo. Non sempre si vedono perizie e processi fatti così bene. Non sempre si vedono consulenti che coraggiosamente non si appiattiscono sui desiderata dei committenti.

 

4. I disordinati commenti suscitati da queste due vicende fanno pensare da più punti di vista, ognuno dei quali meriterebbe un’ampia riflessione a sé.

Anche solo per enunciarli, un primo punto riguarda l’opportunità che le sentenze si spostino dalla loro sede idonea per essere “riformulate” a livello pubblico. Non si vuol dire naturalmente che anche le sentenze non siano “discutibili”, che siano intangibili da parte dell’opinione pubblica, ma per arrivare alla pronuncia giudiziale occorrono una serie di passaggi che il commento a caldo rischia di scavalcare. A cominciare da una laurea in Giurisprudenza, fino all’escussione dei testimoni e alla lettura di centinaia di pagine di atti. I nostri tempi ci hanno abituati ai “tormentoni” televisivi che ci ammanniscono commenti sui processi che mettono in discussione la colpevolezza e l’innocenza con gli stessi modi, lo stessa fervore, ma minor competenza di quando decenni fa si discuteva sul confronto fra Gino Coppi e Fausto Bartali. Che nostalgia quando gli Italiani si ritenevano, e forse erano, esperti di ciclismo e non di diritto penale o di fisiognomica, infallibilmente riconoscendo nelle fattezze dell’accusato le stigmate della colpa.

Un altro punto su cui riflettere concerne l’assunzione del ruolo supplente e simbolico del diritto penale. C’è un problema sociale, una “patologia culturale”[28], si invoca l’ergastolo. Lo si è chiamato anche populismo penale: “intendendo per populismo penale la tendenza e la pratica di delegare al codice penale (e alla pena) il fronteggiamento di questioni sociali complesse, quali appunto quelle di genere, facendo inoltre prevalere una funzione simbolica del penale […] Definisco questo slittamento verso un penale simbolico un rischio perché, per la mia esperienza e il mio vissuto, il movimento delle donne è un movimento delle libertà per tutte e tutti, che mal si coniuga con la domanda autoritaria, law&order che sta alla base del populismo penale. […] non è dal penale che la lotta alla violenza di genere riceverà le sue conferme e le sue vittorie”[29].

Ci sarebbe da interrogarsi in chiave psicologica sul desiderio di pene esemplari che sgorga da taluni commenti, dalla rabbia non arginata. Viene alla mente l’inflessibilità di chi si ritiene nel giusto, una sorta di idealismo pervertito che mette il dito sul paradosso della conversione, in taluni casi, da garantisti a forcaioli. Simile all’idealismo pervertito è quello che Oakley, Knafo e McGrath chiamano “altruismo patologico”, il “lato oscuro” dell’altruismo, che definiscono il comportamento in cui lo scopo dichiarato è promuovere il benessere, ma i cui esiti sono sostanzialmente negativi per gli altri[30].

Todorov cita Germaine Tillion: “Le nobili cause non sono eterne. Eterna (o quasi) è la povera carne sofferente dell’Umanità”[31]. Fa loro eco Camus: “il dottore chiese a Tarrou se aveva un’idea di quale strada occorresse prendere per giungere alla pace. ‘Sì, la compassione’”[32].

Dopo di che, rimane il dato dei più di 100 omicidi con vittima femminile ogni anno in Italia; l’aumento della loro percentuale sul totale degli omicidi; il Garante regionale vittime di reato della Lombardia ha affermato nel corso di un’audizione in Commissione femminicidio del Senato che, anche senza arrivare alle violenze letali, le chiamate telefoniche al numero anti violenza 1522 nel periodo compreso tra marzo e ottobre 2020 sono notevolmente cresciute (+71,7%), passando da 13.424 a 23.071 e le richieste di aiuto tramite chat sono più che triplicate (da 829 a 3.347 messaggi)[33]; nel 2018 sono state denunciate all’Autorità giudiziaria 4.887 violenze sessuali (si calcola che in media le vittime donne di questo reato siano almeno il 90%). Venendo alla quotidianità, secondo il Censis il nostro Paese è l’ultimo in Europa per il tasso di occupazione femminile, poi c’è il cosiddetto gender pay gap, e, per avvicinarci alla nostra categoria, nel 70% dei casi i professori ordinari sono uomini, eccetera.

Come dire, motivi di indignazione effettivi e sostanziosi ce ne sono a bizzeffe.

 

 

[1] Tanzini S., Conosci l’estate?, Sellerio editore, Palermo, 2020, p. 55.

[2] Fra i molti che ne hanno scritto: Baldry A.C., Dai maltrattamenti all’omicidio. La valutazione del rischio di recidiva e dell’uxoricidio, Milano, Franco Angeli, 2008; Baldry A.C., Porcaro C., Ferraro E., Donne uccise e donne maltrattate. Stesso passato ma anche stesso destino?, Rassegna Italiana di criminologia, 4, pp. 13-21, 2011; Gino S., Freilone F., Biondi E., Ceccarelli D., Veggi S., Zara G., Dall’intimate partner violence al femminicidio: relazioni che uccidono, Rassegna Italiana di Criminologia, 2, XIII, pp. 131-148.

[3] In compenso sembrano aumentati i casi di violenza non letale.

[4] ISTAT, Delitti, imputati e vittime di reati, La criminalità in Italia attraverso una lettura integrata delle fonti sulla giustizia, Roma, 2020.

[5] Ministero dell’Interno, Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della polizia Criminale, Servizio Analisi Criminale, Omicidi Volontari, Roma, gennaio 2021.

[6] Corn E., Il “femminicidio” come reato. Spunti per un dibattito italiano alla luce dell’esperienza cilena, in Dir. pen. cont., 14 settembre 2017. L’Autore commenta: “Bisogna decisamente affermare che lavorare per un’effettiva uguaglianza tra uomini e donne davanti alla giustizia penale è un obiettivo improcrastinabile per delle società che pretendono di definirsi democratiche. E con più forza ancora bisogna dire che l’attuale struttura dei reati contro la persona e la loro applicazione pratica sostengono situazioni di disuguaglianza inaccettabili. […] E questo perché il ‘fenomeno’ da combattere non è direttamente il femminicidio, bensì la persistente disuguaglianza” (p. 17).

[7] Merzagora Betsos I., Pleuteri L., Mi voglio uccidere e ti porto con me; ti devo uccidere ma vengo con te, Rivista Italiana di Medicina Legale, 3-4, maggio-agosto 2004, pgg. 603-639; Merzagora Betsos I., Pleuteri L., Odia il prossimo tuo come te stesso – L’omicidio-suicidio a Milano e Provincia, Franco Angeli, Milano, 2005.

[8] I Corte d’Assise di Brescia, sezione I Penale, Sentenza del 9 dicembre 2020, p. 17.

[9] I Corte d’Assise di Brescia, sezione I Penale, Sentenza del 9 dicembre 2020, pp. 23, 24-25.

[10] I Corte d’Assise di Brescia, sezione I Penale, Sentenza del 9 dicembre 2020, p. 25.

[11] I Corte d’Assise di Brescia, sezione I Penale, Sentenza del 9 dicembre 2020, p. 22.

[12] I Corte d’Assise di Brescia, sezione I Penale, Sentenza del 9 dicembre 2020, pp. 22-23.

[13] Ziccardi G., L’odio online. Violenza verbale e ossessione in rete, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2016.

[16] Antonella Veltri, presidente della Rete D.i.Re, in: www.gaynews.it, 10 dicembre 2020.

[17] Valeria Valente, senatrice e presidente della Commissione d’inchiesta sul femminicidio, in: www.gaynews.it, 10 dicembre 2020

[18] Monica Cirinnà, in: www.gaynews.it, 10 dicembre 2020.

[20] Corte d’Assise d’Appello di Bologna, Sezione I penale, sentenza 14 novembre 2018.

[21] Corte d’Assise d’Appello di Bologna, Sezione I penale, sentenza 14 novembre 2018.

[22] bologna.repubblica.it, 8 novembre 2019.

[23] Citato da: Iannucci M., L’omicidio di Olga Mattei e il delitto d’onore, www.ristretti.it/commenti/2019/marzo

[24] Merzagora I., Uomini violenti – I partner abusanti e il loro trattamento, Cortina, Milano, 2009; Merzagora I., Prevenzione e trattamento in ambito criminologico: il Progetto S.A.Vi.D. (Stop alla Violenza Domestica), in: Raffaele Bianchetti (a cura), Il contributo della criminologia al sistema penale, Atti dell’incontro di studio in ricordo del Prof. Ernesto Calvanese, Dipartimento di Scienze Giuridiche “Cesare Beccaria”, Università degli Studi di Milano, Milano, 4 dicembre 2014, Diritto Penale Contemporaneo, marzo 2015, pp. 59-67; Merzagora I., La violenza in famiglia, in: O. Fumagalli Carulli, A. Sammassimo, Famiglia e matrimonio di fronte al Sinodo, Vita e Pensiero, Milano, 2015, pp. 295-315.

[25] Sergio Luca Monchieri, Relazione di consulenza tecnica psichiatrico forense sulla persona di A.G., p. 19.

[26] Renato Ariatti, Relazione di perizia psichiatrica sulla persona di M.C., p. 9.

[27] Renato Ariatti, Relazione di perizia psichiatrica sulla persona di M.C., pp. 29 e 31

[28] Merzagora Betsos I., Uomini violenti. I partner abusanti e il loro trattamento, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2009.

[29] Ronconi S., Femminicidio. Le donne rischiano il populismo penale?, in dirittiglobali.it, 1/1/2021.

[30] Oakley B., Knafo A., Madhavan B., Wilson D.S., (eds), Pathological Altruism, Oxford University Press, Oxford, 2012.

[31] In Todorov T., Resistenti. Storie di donne e uomini che hanno lottato per la giustizia, Garzanti, Milano, 2015, p. 70.

[32] Camus A., La peste, ed. Bompiani, Firenze, 2019.

[33] Audizione del garante regionale vittime di reato, 20 gennaio 2021.