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09 Luglio 2025


Il carcere nella Costituzione

Istruzioni per il volontariato



Riportiamo di seguito il testo della Prefazione del Prof. Giovanni Maria Flick al volume Per una giustizia “degna del senso ultimo dell’essere umano”. Cento anni di impegno e di presenza di Sesta opera San Fedele (1923 – 2023), a cura di G. Chiaretti, Milano, 2023, Editore Mimesis – con aggiornamento dell’A. e consenso del Curatore.

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1. Il carcere della Costituzione?

Dopo troppi anni trascorsi nel tentativo di promuovere una riforma del carcere oggi dobbiamo combattere per trasformarlo radicalmente.

Non possiamo parlare di un “carcere della Costituzione”, semplicemente perché non esiste. Non esiste un carcere che rispetti e incarni pienamente i principi costituzionali. Il carcere della Costituzione è come unisola che non c’è: un luogo ideale, un obiettivo ancora lontano, ma essenziale per affrontare seriamente questo problema. Dobbiamo piuttosto parlare del carcere di fronte alla Costituzione o fuori da essa.

Due aspetti continuano a proporre nell’indifferenza prevalente il tema del carcere. Da un lato le notizie che giungono dalle carceri italiane, dove emergono a ripetizione vicende di violenze e abusi che calpestano la dignità umana. Dall’altro e ultimamente, il libro di Papa Francesco La speranza non delude mai che traccia un cammino verso il Giubileo non solo come evento religioso, ma come un percorso di rinnovamento della fede e della speranza. Il Papa ci ricorda che le carceri devono diventare "laboratori di speranza".

Eppure, le nostre carceri sono ancora sovraffollate, colme di poveri e vittime di ingiustizie sistemiche. Come sottolinea il Papa, spesso il sistema penale preferisce imprigionare invece di affrontare le cause profonde della criminalità. Nonostante le parole e i tentativi di riforma, siamo ancora lontani dal garantire condizioni umane e dignitose. Si continua a chiedere maggiore sicurezza, ma questa viene declinata come “sicurezza pubblica” nel senso tradizionale e non come “sicurezza sociale”; senza un reale impegno per combattere esclusione e disuguaglianze. È più facile punire i deboli che affrontare i problemi strutturali.

Un recente disegno di legge per intervenire sulla situazione drammatica del carcere ad esempio include giustamente disposizioni per sostenere la polizia penitenziaria; ma introduce anche norme apparentemente scollegate, come la reintroduzione del peculato per distrazione al posto dell’abrogato delitto di abuso d’ufficio. Viene da chiedersi: ha davvero senso, in questo contesto, aggiungere un nuovo reato? È il momento di riflettere sulle vere priorità.

Il Papa ci invita a “tenere aperta la finestra della speranza”: sia per i detenuti come singoli, sia per il sistema nel suo complesso. Ma la realtà che vediamo è diversa: sovraffollamento, carceri come luoghi di esclusione sociale, mancanza di progetti di reinserimento. Non basta costruire nuove strutture: occorre cambiare il modo in cui riempiamo quelle esistenti, mettere al centro le relazioni, la dignità, laffettività. Occorre considerare accanto alle relazioni le altre due componenti dell’identità della persona: quella temporale (il suo passato e il suo futuro); e quella spaziale (la sua privacy e il suo spazio vitale) emblematizzate nella espressione paradossale di una “ora d’aria”.

Un esempio significativo è la recente sentenza della Corte costituzionale che riconosce il diritto allaffettività per i detenuti. Questo diritto non riguarda solo i legami personali, ma tutte le relazioni che possono favorire il reinserimento sociale. Tuttavia, siamo ancora lontani da una reale trasformazione: il numero di suicidi in carcere cresce, e le risposte istituzionali restano insufficienti.

Non possiamo dimenticare limportanza del volontariato, che rappresenta quella "finestra" attraverso cui chi sta fuori può vedere e comprendere il carcere, e chi sta dentro può prepararsi al ritorno nella società. Ricordo i miei primi passi da ministro, quando affrontai i conflitti tra volontariato e personale di custodia. Fu chiaro allora, come ancor più oggi, che senza volontari il carcere rischia di perdere quella dimensione umana indispensabile per la rieducazione e prima ancora per la sopravvivenza.

Occorre promuovere la cultura in carcere: laccesso al sapere, alla formazione, al patrimonio storico-artistico. Non possiamo accettare logiche che negano questi diritti, come è accaduto in un caso che ho segnalato come avvocato alla Corte di Strasburgo. Un detenuto si era visto negare la detenzione domiciliare non solo per mancanza dei presupposti di essa, ma con la motivazione aggiuntiva che, avendo conseguito una laurea e un master, era diventato "più pericoloso". Una logica aberrante, che rischia di scoraggiare ogni percorso di crescita.

Il Papa ci ricorda che non c’è giustizia senza misericordia. La solidarietà, luguaglianza e la valorizzazione della diversità sono i principi su cui deve fondarsi il volontariato. Non si tratta solo di tamponare le carenze del sistema; ma di mediare, proporre e cooperare per costruire percorsi concreti di riforma. Tuttavia, non possiamo limitarci a belle parole: abbiamo sprecato troppe occasioni, come gli “Stati generali” del carcere, che si sono dilatati in discussioni accademiche senza portare a veri cambiamenti.

Dobbiamo trovare un equilibrio tra sicurezza, prevenzione e rieducazione. Eliminare gli automatismi legislativi che ostacolano il trattamento personalizzato. Imparare dalle lezioni della pandemia, che ha messo in luce quanto sia fragile il sistema attuale. Non basta aumentare lo spazio fisico delle carceri; serve costruire un tessuto relazionale che promuova dignità e speranza.

Il carcere deve essere un luogo dove si coltiva il futuro, non un limbo dove si soffoca la vita. La sfida è enorme, ma non possiamo permetterci di perdere la speranza. Il Giubileo può essere unoccasione per ripensare il nostro sistema penitenziario, partendo dai principi della Costituzione e dallappello del Papa: fare del carcere un vero "laboratorio di speranza". Il volontariato è chiamato a collaborare alla realizzazione di questo “laboratorio”.

 

2. Il volontariato in carcere: testimonianza di carità, solidarietà e sussidiarietà.

La sfida per la liberazione dalla necessità del carcere, per dare attuazione e concretezza all’articolo 27 della Costituzione, è una delle più impegnative ma anche delle più urgenti cui è chiamato il volontariato, di fronte alla realtà del carcere di oggi.

È una sfida che si fonda su molte altre parole da riconquistare anche esse, prima di giungere alla parola liberazione: giustizia, verità, carità, misericordia, eguaglianza, pari dignità, solidarietà, sussidiarietà. Sono parole che appartengono al lessico cristiano come a quello sociale e costituzionale, senza soluzione di continuità. Sono parole che esprimono il significato del volontariato ed il suo impegno di testimonianza e di azione; la concretezza del percorso dal carcere alla libertà; la necessità, importanza e insostituibilità del ruolo del volontariato come strumento per realizzare la sussidiarietà orizzontale e la solidarietà.

La giustizia, come il bene comune, è un principio orientativo dell’azione morale; ma deve essere inglobata in una concezione più completa, la carità. Quest’ultima eccede la giustizia perché amare è donare, offrire del “mio” all’altro; ma non è mai senza giustizia, che è dare all’altro ciò che è “suo”.

La giustizia è la “misura minima” (Paolo VI) della carità. Però la carità supera la giustizia e la completa.

Il pensiero paolino è chiarissimo sul punto. Per rendersene conto è sufficiente rileggere uno dei suoi passi più intensi (e letterariamente più belli), l’Inno alla carità (1Cor., 13, 1-13): «E se anche distribuisco tutte le mie sostanze, e se anche do il mio corpo per essere bruciato, ma non ho la carità, non mi giova a nulla. La carità è magnanima, è benigna la carità, non è invidiosa, la carità non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine…».

La giustizia resta imperfetta, monca, se non è unita alla carità: una dimensione regolativa che scivola progressivamente nel legalismo. La sua “finitudine”, che risalta al cospetto della grandezza infinita della misericordia, è resa bene in due parabole evangeliche.

La prima parabola è quella del debitore spietato (Matteo, 18, 23). Il suo comportamento è ineccepibile in punto di “giustizia”; dal condono del suo debito verso il padrone non deriva per lui alcun obbligo di condonare a sua volta il proprio debitore. Nessun giudice lo potrebbe condannare per aver fatto gettare quest’ultimo in carcere perché inadempiente a sua volta nei suoi confronti. 

A condannare il debitore spietato è invece la misericordia che gli è stata usata e che egli non è stato capace di interiorizzare. La misericordia arriva dove la giustizia non potrebbe e lascia un segno che nessuna decisione “di giustizia” mai potrebbe lasciare. Il debitore spietato sceglie di scivolare nel legalismo e cade a sua volta nella rete della giustizia.

La seconda parabola è quella degli operai nella vigna (Matteo, 20, 1-16). Quale legge, quale principio di giustizia, quale giudice potrebbe mai prevedere che lavori diversi per durata, fatica ed intensità, siano retribuiti allo stesso modo? Eppure, il padrone della vigna – rispondendo agli operai della prima ora, che mormorano per essere stati trattati ingiustamente – mette in crisi lo stesso concetto umano di giustizia, fondata sulla scala ordinata dei valori e dei meriti («Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi»).

Il principio di sussidiarietà rappresenta una manifestazione particolare della carità. È un criterio guida per la collaborazione fraterna di tutti (credenti e non credenti); un’espressione della inalienabile libertà umana.

Esso si traduce in un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi, quando le persone e i soggetti sociali non riescono a fare da sé. Persegue una finalità di emancipazione perché favorisce la libertà e la partecipazione, in quanto assunzione di responsabilità e al tempo stesso riconoscimento della responsabilità nell’altro.

La sussidiarietà si fonda sul rispetto della dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri; riconosce nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano. La sussidiarietà è perciò l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista che umilia il portatore di bisogno, quando essa si risolva soltanto in una solidarietà non connessa con la sussidiarietà. Mentre la sussidiarietà senza la solidarietà rischia di scadere nel particolarismo sociale.

Il riferimento alla sussidiarietà apre la via all’applicazione della carità alla società civile, come entità non più soltanto residuale rispetto allo Stato e al mercato. Ad essa non può essere attribuita soltanto in negativo la quota di solidarietà “pubblica” venuta meno per la crisi del welfare e per la mancanza di risorse. La società civile va riscoperta in positivo, per la ricchezza potenziale delle forme di solidarietà in cui la comunità può manifestarsi.

La solidarietà, espressione tipica della società civile, consente di superare la logica dello scambio che informa gran parte dell’economia globale; la integra con le logiche della politica, del dono e della gratuità, proprie della società civile.

 

3. Pari dignità sociale, prossimità e volontariato.

È importante raccogliere, interpretare e applicare questo messaggio nella prospettiva laica, attraverso una parola-chiave della nostra esperienza giuridica costituzionale: la dignità umana, nel suo duplice e convergente significato universale (la dignità dell’uomo in quanto tale) e particolare (la dignità di ogni persona, nel rapporto con gli altri, nella concretezza e nella parità).

Al percorso della dignità nella dottrina sociale della Chiesa sembra di poter affiancare quello della dignità umana: sia nell’ordinamento giuridico internazionale, soprattutto dopo le catastrofi della seconda guerra mondiale e della Shoah e la loro ripetizione nel presente; sia negli ordinamenti costituzionali nazionali fra cui il nostro.

La dignità è un ponte tra l’eguaglianza di tutti e la diversità di ciascuno. Non può comprimere il diritto alla diversità, alla libertà e alla propria identità; non può alimentare il conformismo e la sopraffazione in nome dell’eguaglianza. La dignità deve essere affermata come principio, ma deve altresì essere garantita e rispettata in concreto, soprattutto verso i soggetti deboli.

Ciò può concretizzarsi anche grazie alla solidarietà che si realizza attraverso la sussidiarietà, particolarmente quella orizzontale; grazie alla sinergia tra pubblico, privato e sociale, di cui sono espressione le esperienze del terzo settore e del volontariato.

Questo messaggio è stato ampiamente sviluppato dalla Costituzione italiana. La sua permanente attualità e vitalità nascono dal fatto che essa è profondamente radicata sulla pari dignità sociale; sulla centralità della persona umana; sul valore universale e al tempo stesso concreto della dignità e dei diritti fondamentali. La pari dignità si fonda anche sulla solidarietà e sulla sussidiarietà; entrambe sono esplicitamente contemplate dalla Costituzione come strumenti essenziali per riconoscere in concreto la dignità.

La concretezza e l’effettività dei diritti inviolabili dell’uomo sono legate nell’art. 2 della Costituzione all’«adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Il godimento dei diritti da parte di ciascuno è condizionato all’adempimento dei doveri da parte degli altri.

Quei diritti sono legati nell’art. 3 non soltanto alla pari dignità sociale ed alla eguaglianza di tutti di fronte alla legge; ma altresì al «compito della Repubblica [di] rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza… impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione… all’organizzazione politica, economica e sociale…».

Tutte le componenti della Repubblica (art. 114) - articolate nella sussidiarietà verticale e istituzionale (Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni) - «favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà» (art. 118 ultimo comma). La sussidiarietà orizzontale, introdotta esplicitamente con la riforma costituzionale del 2001, è una parola-chiave per la valorizzazione della società civile, del terzo settore e del volontariato.

La sussidiarietà orizzontale è importante al fine di calare il discorso dei diritti fondamentali nella realtà locale, la più vicina e la più percepibile per ciascuno di noi; è essenziale per la difesa e l’attuazione concreta di quei diritti in un contesto di prossimità, a livello della città. Quest’ultimo deve essere affiancato agli altri livelli (universale, europeo, statale) che già esistono (almeno in teoria) per l’affermazione e la tutela di quei diritti.

La prospettiva dell’accoglienza attraverso il riferimento ai diritti fondamentali (e quindi alla loro dimensione irrinunciabile di universalità) vale ad impedire che il “ritorno al locale” – in sè necessario, di fronte alle inquietudini della globalizzazione - si traduca in una prospettiva di chiusura, di isolamento, di rifiuto nei confronti di chi è fuori dalla comunità e ha bisogno o chiede di inserirsi in essa, accettandone le regole.

A favore di una valorizzazione dei diritti fondamentali nell’ottica locale sta la constatazione che quest’ultima è il primo terreno di confronto dell’individuo con la realtà. È quindi su questo terreno che si misurano in termini immediatamente percepibili il tasso di solidarietà e la capacità di dare effettiva promozione ed attuazione a tutti i diritti fondamentali; soprattutto a quelli economici e sociali. È su questo terreno che si avverte concretamente la ragione della loro indivisibilità con i diritti civili e politici.

Si può e si deve chiedere protezione per i diritti fondamentali allo Stato, all’Europa ed alla giustizia sopranazionale. Ma contemporaneamente si può e si deve chiedere alla amministrazione e alle comunità locali il primo sforzo, il primo impegno - politico, amministrativo, organizzativo e gestionale, umano - perché si realizzino condizioni di vivibilità e di esercizio dei diritti fondamentali nel contesto locale ed urbano.

L’effettività dei diritti - di fronte alle innumerevoli situazioni di “minorità” e di povertà dei “diversi” sempre più numerosi e fragili, fra i quali i detenuti - deve fare i conti soprattutto con il territorio; quindi con il principio di prossimità, che a sua volta si realizza nella sussidiarietà orizzontale e verticale.

In tempo di crisi riflettere sulla pari dignità sociale e sul suo stretto rapporto con la dimensione locale è un’occasione per reagire e per superare le paure che ci turbano. Per tenerne conto al momento di definire nuovi modelli e regole di comportamento – guardando anche al privato-sociale e all’impresa sociale – di fronte alla crisi finanziaria, economica e sociale che ci coinvolge tutti.

È un’occasione per superare le contrapposizioni tra Stato e mercato, tra pubblico e privato, che hanno “giustificato” lacune e dimenticanze di ciascuno di questi mondi in tema di diritti fondamentali, come è ampiamente dimostrato dalla crisi che stiamo subendo. È infine un’occasione per rafforzare gli spazi di intervento sul territorio, utilizzando come una leva il mix di sussidiarietà orizzontale e verticale.

Il coinvolgimento del territorio nell’attuazione dei diritti è il modo migliore per radicarli, perché vengano assimilati anche sul piano culturale e del consenso sociale, anziché essere percepiti come forme di assistenzialismo o, peggio, come sprechi da sottoporre a tagli e riduzioni. Alla lunga anche in tema di diritti l’impegno e il controllo da parte del territorio accrescono la sicurezza.

Perfino i meno sensibili alle questioni dei diritti umani dovrebbero trarne buone ragioni per investire sulla dignità e per occuparsi (anzi, preoccuparsi) del rispetto di quest’ultima, ad esempio e specificamente nel mondo della giustizia, della pena e del carcere.

 

4. La rivoluzione “promessa” e poi “tradita” del carcere.

Un settore di elezione – certamente uno dei primi – per coinvolgere il territorio e la società civile nell’attuazione dei diritti fondamentali è quello del carcere; delle misure alternative ed ora finalmente delle pene sostitutive di esso; della sfida per trasformare la pena detentiva in un’occasione di accoglienza. È una sfida per passare dalla giustizia alla liberazione attraverso la pari dignità, la solidarietà e la sussidiarietà (le varianti “laiche” della carità e della misericordia); una sfida che ripropone sul piano costituzionale il pressante invito evangelico a visitare i carcerati.

Il sovraffollamento, i suicidi e le morti in carcere, i casi - provati o sospetti - di maltrattamenti e torture dei detenuti, riportano quotidianamente in primo piano il problema carcerario. L’attualità e l’urgenza delle denunzie non dovrebbe mai far perdere di vista l’analisi e la sostanza delle questioni, proprio per evitare di accantonarle di nuovo non appena le acque si placano, per ritrovarle intatte a distanza di anni. Lo so bene anche per esperienza personale, quando da ministro della giustizia venticinque anni addietro chiamai ai vertici del dipartimento penitenziario un emblema del modello costituzionale della finalità rieducativa della pena, nonché esperto giudice di sorveglianza, come Alessandro Margara.

Le troppo numerose denunzie dovrebbero essere almeno l’occasione per riflettere sulla rivoluzione tradita del sistema penitenziario. La rivoluzione promessa è rappresentata dall’articolo 27 4° comma della Costituzione («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»); dalla giurisprudenza costituzionale e dalla CEDU; dalle carte internazionali; dall’ordinamento penitenziario con le successive modifiche e applicazioni, fino al regolamento penitenziario del 2000 e alle più recenti raccomandazioni del Consiglio d’Europa. La rivoluzione tradita è dimostrata dalla realtà quotidiana del nostro sistema penitenziario, nonostante alcune eccezioni e l’impegno di molti che in quel sistema lavorano con sacrifici certo maggiori delle soddisfazioni.

Gli obiettivi di rieducazione, legalità e rispetto della dignità, dovrebbero produrre proprio la tanto reclamata sicurezza; restituire alla società persone “libere”, una volta espiata la pena. Ma prevale la rimozione del problema (e dell’obiettivo), con l’esclusione del diverso (clandestino, tossicodipendente) attraverso un carcere divenuto “discarica sociale”. Prevale l’illusione di una pax carceraria patogena e criminogena, i cui unici obiettivi (più volte mancati) sembrano solo l’assenza di fughe, rivolte, autolesionismi, suicidi; o almeno il loro contenimento.

Le misure alternative – ora finalmente pene sostitutive – sono vissute con sospetto e paura, nonostante gli “incidenti di percorso” siano statisticamente non frequenti. I circuiti penitenziari differenziati non esistono ancora, nonostante siano previsti dalla legge e resi indispensabili dalle differenze non solo di pericolosità nella popolazione carceraria, che riflettono e amplificano le tensioni della società multirazziale.

La realtà è fatta di promiscuità fra imputati e condannati definitivi; di strutture che oscillano fra nanismo e gigantismo; che in buona parte risalgono all’800, quando non al medioevo. Sullo sfondo vi è una politica criminale che indulge alla domanda di carcere (spesso solo annunciata) come risposta mediatica all’insicurezza.

 

5. Sovraffollamento del carcere: dalla “pena sostitutiva” alla “giustizia riparativa”, attraverso i “residui di libertà”.

Quella del carcere è una situazione di illegalità conclamata del nostro paese, dove il sovraffollamento ha carattere non contingente, bensì strutturale ed è legato alla identificazione quasi assoluta fra pena e carcere. Quella identificazione è invece esclusa dall’articolo 27 della Costituzione, che parla esplicitamente di “pene”.

La situazione di illegalità del nostro sistema carcerario e della condizione dei detenuti (come dei migranti “irregolari”) è stata denunziata ampiamente ed esplicitamente dalla Corte costituzionale e dalla Corte EDU per la tutela dei diritti umani. Prima ancora, a denunziarla si sono levate e continuano a levarsi moltissime voci, fra cui quelle autorevoli (da ultimo) di Benedetto XVI, di Francesco I, di Giorgio Napolitano e di Sergio Mattarella.

È paradossale l’alternativa cui ci troviamo di fronte, dopo una serie di condanne della Corte EDU. Da un lato il potere politico - nonostante gli ultimi tentativi non riusciti di diminuzione della popolazione carceraria - risponde all’emergenza carcere pressochè soltanto con il programma di costruire nuove carceri.

Dall’altro lato il potere giudiziario cerca di rispondere con la richiesta di non eseguire la condanna che ha appena pronunziato, in assenza di posti e spazi regolamentari per i detenuti. È una ennesima riprova della necessità di ricorrere alla supplenza giudiziaria, per cercare di risolvere problemi che si trascurano da troppo tempo e che non vengono affrontati in modo radicale, come si dovrebbe.

Per sfuggire a una simile alternativa è indifferibile esplorare seriamente e concretamente una terza via: il passaggio dal carcere alla libertà; il coinvolgimento della società civile per rendere concreta una simile possibilità; il rafforzamento delle potenzialità dell’articolo 27 Cost. con il richiamo alla tutela effettiva e operante dei c.d. “residui di libertà” compatibili con la privazione delle libertà personali e le esigenze di sicurezza, mediante il richiamo agli articoli 2 e 3 della Costituzione.

Lo studio dei molteplici problemi ed effetti negativi della pena attraverso quella privazione (con un’analisi approfondita dei problemi e delle possibilità di soluzione nei c.d. “stati generali” sul carcere del 2016) si risolse in una panoramica solo teorica per ragioni politiche. Si sviluppò allora e comunque la ricerca di soluzioni concrete e operative per migliorare la vita nella quotidianità del carcere senza dover ricorrere a modifiche legislative che erano osteggiate dalla gran parte dell’opinione politica e sociale. Si sono affermati esigui interventi di riforma con le pene sostitutive.

Soprattutto si è avviata una riflessione – tradotta con alcune iniziative timide di riforma – sulla “giustizia riparativa”, per supplire alle carenze del sistema penale e penitenziario tradizionale attraverso la ricostruzione del rapporto fra condannato e vittima; con tutti i dubbi, i problemi e le difficoltà, che si propongono rispetto alla realtà del carcere e alle perplessità, se non all’ostilità, dell’opinione pubblica e politica.

Realisticamente occorre evitare che il richiamo alla “giustizia riparativa” e ai suoi sperati vantaggi diventi una sorta di “bacchetta magica” per continuare a ignorare e nascondere le drammatiche disfunzioni del sistema carcerario del nostro paese.

Di fronte a questa situazione l’atteggiamento della politica come della società civile continua ad essere in prevalenza - al di là delle parole di circostanza - l’indifferenza, quando non la paura e il rifiuto del nuovo.

 

6. Gli ostacoli e gli obiettivi della “rivoluzione” promessa.

La tentazione di guardare al carcere come ad un luogo separato è molto forte persino in chi, pur cercando di guardarlo nell’ottica della Costituzione, si limita a confrontarlo soltanto con l’articolo 27 di essa. Beninteso, se le cose andassero effettivamente come prescrive quell’articolo; se la duplice affermazione della Costituzione sulla pena fosse attuata concretamente, già questo sarebbe un risultato significativo e il carcere segnerebbe un passo avanti epocale.

Ma non basta. Guardare alla pena ignorando il collegamento inscindibile con gli altri princìpi fondamentali – a cominciare dai diritti inviolabili e dalla pari dignità sociale (articoli 2 e 3) – è pur sempre espressione di un atteggiamento diffuso, che vede nel carcere un mondo chiuso e separato.

Per sprigionare tutte le potenzialità di quei principi e di quei diritti occorre riempirli concretamente: con i doveri di solidarietà di chi è fuori e di chi è dentro; con la pari dignità sociale anche e soprattutto dei detenuti in quanto soggetti deboli, nonostante i limiti che derivano dalla restrizione della libertà personale e dalle esigenze di organizzazione e di sicurezza della convivenza carceraria.

Occorre integrare quei diritti con la loro garanzia, effettività e giustiziabilità per la parte “residua” di libertà e di dignità rispetto a tale restrizione e perciò ancora più “preziosa” (se possibile); con il compito della Repubblica (quindi di ognuno di noi) di rimuovere gli ostacoli di fatto all’eguaglianza e al pieno sviluppo della persona umana; con la sussidiarietà orizzontale anche per i “cittadini singoli e associati” e la loro autonoma iniziativa secondo l’articolo 118 della Costituzione.

La tendenza alla rieducazione è considerata l’essenza della pena: non ci può essere pena senza finalità rieducativa. Non si può strumentalizzare l’individuo a fini di prevenzione generale e di soddisfazione del bisogno di sicurezza, attraverso l’esemplarità di una pena che prescinda dalla rieducazione.

Ciò non toglie nulla all’afflittività e all’esigenza di sicurezza. Ma si traduce nel diritto-dovere del detenuto a un percorso rieducativo; a un recupero dei valori di convivenza sociale (non solo di ossequio alla legalità formale) che però deve svolgersi in un contesto di rispetto dei suoi diritti inviolabili. La Corte costituzionale lo ha ricordato in più occasioni, dopo aver ribadito la priorità ed essenzialità della finalità rieducativa della pena.

È un percorso che richiede il passaggio graduale dalla detenzione alle misure alternative ora divenute pene sostitutive. Deve tradursi in un accertamento e in un trattamento individuali e personalizzati; non consente né automatismi, né valutazioni generali e astratte; non può essere azzerato in toto per esigenze di sicurezza. Anche perché la sicurezza in carcere e fuori si raggiunge attraverso la responsabilizzazione e il recupero graduale della libertà (come dimostra la modesta percentuale di recidiva fra i detenuti che godono di misure alternative - il 19% circa - rispetto al 68% circa di chi non ne gode).

Un percorso come quello descritto richiede un’apertura più marcata dell’universo carcerario alla rivoluzione promessa. Per realizzarla, il primo passo è quello di attuare una rivoluzione culturale nel rapporto fra pena, carcere e società. Il secondo passo è quello di cercare di realizzare una osmosi fra carcere e realtà circostante. Il terzo passo è quello di esplorare la possibilità di un collegamento più articolato e più stabile fra il carcere e quella realtà; la cultura deve entrare nel mondo del carcere; ma prima ancora il carcere deve entrare nel mondo della cultura.

Sono passi che richiedono un forte coinvolgimento del volontariato, dentro e fuori dal carcere; una piena collaborazione e sinergia tra esso e l’amministrazione penitenziaria a livello locale; uno scambio continuo di esperienze e una reciproca disponibilità al dialogo.

Prima ancora, sono passi che richiedono una diversa articolazione del legame che deve esservi tra il carcere, il territorio ed il mondo circostante. A tal fine occorre cercare di realizzare un coinvolgimento più organico e stabile delle realtà locali - istituzionali, religiose, sociali, culturali, economiche e produttive – nella gestione e nella responsabilità dei problemi del carcere. Fra essi assume un rilievo particolare il problema del rapporto fra carcere e lavoro.

Per affrontare altri e diversi aspetti della crisi della giustizia (in particolare quello del processo civile), è stata ad esempio percorsa – con alcuni esiti positivi – la via delle best practices e del c.d. federalismo giudiziario, attraverso apporti locali e “dal basso”. Sono l’elaborazione di prassi e codici di comportamento, comuni e condivisi, nati dall’esperienza quotidiana, dal dialogo e dal confronto fra operatori della giustizia (giudici, avvocati, personale, rappresentanti dell’utenza e della realtà locale), nello spazio di autonomia riconosciuta dalla normativa in vigore. Iniziative analoghe di collaborazione e compartecipazione sono state attuate altresì nel settore dell’organizzazione di alcuni uffici giudiziari, sempre nel rispetto delle leggi e con risultati egualmente positivi.

Sono evidenti la profonda diversità dei problemi connessi all’esecuzione della pena detentiva e all’organizzazione del carcere, nonché l’esigenza di garantire una sicurezza che non consente interferenze esterne. Nessuno, tanto meno il volontariato, intende metterle in discussione.

Tuttavia, nel rispetto di quella diversità e di quell’esigenza prioritaria mi chiedo se non sia possibile avviare una riflessione sulla possibilità di sperimentare una forma più efficace di compartecipazione, di collegamento con le realtà locali (istituzionali, economiche e sociali) per affrontare il problema del loro rapporto con il carcere e con il sistema dell’esecuzione penale esterna.

Mi sembra essenziale in questa prospettiva la valorizzazione del principio di territorialità della pena (cercando di individuare l’istituto di detenzione più vicino al luogo di residenza del detenuto, per favorire i contatti con i familiari e con il territorio di provenienza).

 

7. La “realtà” della “rivoluzione” tradita: impermeabilità porosa, violenza e burocrazia del carcere.

Per confrontare la realtà carceraria del nostro paese con le indicazioni della Costituzione, si deve muovere dalle tre “costanti” del sistema carcerario nel periodo liberale, in quello fascista e in quello repubblicano fino al 1975: il momento in cui finalmente ci si è cominciati a domandare come applicare la Costituzione in carcere.

Il carcere è isolato ed impermeabile alla società esterna. È emarginazione e separazione di chi sta dentro il carcere, con delle modalità che vanno ben al di là delle esigenze di sicurezza e creano un conflitto con quella parte dell’art. 27 della Costituzione che promuove la tendenza alla rieducazione come obiettivo primario della pena.

Il carcere è caratterizzato nel suo DNA da un clima di violenza. Quel clima è effetto il più delle volte delle condizioni materiali, del disagio e troppo spesso dell’inciviltà della vita quotidiana nel carcere. È un clima legato al tema del sovraffollamento, ma non dipende solo da esso.

Siamo abituati a pensare al sovraffollamento come ad un’emergenza. In parte lo è, ma non è solo un problema di sovraffollamento e non è solo un problema emergenziale bensì strutturale. Si crea così il secondo conflitto tra carcere e Costituzione: secondo l’art. 27 della Costituzione le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità.

Il carcere è una struttura burocratica rigidamente centralizzata e verticistica. In concreto è estremamente difficile il suo rapporto con la realtà locale; è altresì estremamente difficile l’applicazione nel sistema carcerario dei principi di sussidiarietà verticale (cioè il collegamento con gli enti istituzionali rappresentativi delle realtà locali) e di sussidiarietà orizzontale (cioè il rapporto tra interno del carcere e organizzazioni del volontariato all’esterno). Quest’ultimo profilo è preoccupante per due ordini di ragioni.

In primo luogo, si accentua il senso di isolamento e di impermeabilizzazione del carcere rispetto alla società; si impedisce lo scambio di esperienze tra esso e l’esterno. È uno scambio fondamentale perché chi è fuori conosca cosa accade in carcere e perché chi è dentro (ma dovrà tornare fuori) conosca i valori e le difficoltà dell’esterno.

In secondo luogo, si impedisce quel controllo sociale necessario e fondamentale che deve essere esercitato dalla realtà esterna su qualsiasi tipo di formazione sociale; più ancora su una formazione sociale coattiva come è quella del carcere. L’art. 2 Cost. sottolinea la necessità di garantire i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità.

 

8. La “lezione” della pandemia in carcere.

La pandemia con la sua drammaticità ci ha insegnato molto sotto diversi aspetti. La persona - con riferimento alla problematica del carcere - ha la sua connotazione in tre dimensioni. In primo luogo vi è la dimensione delle relazioni con gli altri. L'individuo diventa persona attraverso la relazione con gli altri: tutte le relazioni, da quelle affettive alle relazioni sociali, a quelle economiche, politiche, culturali, eccetera. Poi vi sono le dimensioni del tempo e dello spazio.

Si pensi a cosa vuol dire “relazioni in carcere”. Le prime vittime di questa situazione sono il partner, il coniuge, la coniuge o i figli i quali si vedono privati di una figura fondamentale per il loro sviluppo nella minore età. Un carcere che limita troppo grandemente le relazioni è un primo colpo mortale alle caratteristiche dell’identità della persona; ferma restando ovviamente la necessità di impedire al detenuto la prosecuzione di attività delittuose attraverso i contatti con complici esterni.

Appare particolarmente significativo il riconoscimento del diritto ai colloqui “intimi” per i detenuti e i loro partners in attuazione parziale delle prescrizioni della sentenza n. 10/2024 della Corte costituzionale, con recenti disposizioni ministeriali sul “diritto alla intimità”.

Le altre due dimensioni che fanno dell'individuo una persona, cioè un essere sociale che convive con gli altri, sono il tempo e lo spazio.

Il tempo è la memoria del passato e il progetto del futuro; il carcere – lo testimoniano i suicidi che si verificano – è un formidabile aggressore del progetto per il futuro. Quando non si hanno più speranze si rischia di essere spinti a un gesto drammatico. Si arriva poi a quello che è l’emblema della morte civile: l'ergastolo, il fine pena mai; è accettabile in un ordinamento come il nostro solo in quanto preveda delle clausole di ravvedimento che consentano di uscire dopo un lungo periodo di tempo del carcere.

Ciò pone il problema del cosiddetto carcere ostativo per chi non collabora, se è condannato per reati gravi di criminalità organizzata. Se ne è occupata la Corte costituzionale ricordando che non è possibile stabilire che chi non collabora non uscirà mai; perché potrebbe non collaborare anche per ragioni diverse dal fatto di continuare a essere collegato con il sodalizio criminoso con cui operava prima.

Si pensi inoltre alle polemiche recenti a proposito del così detto 41bis (o.p.), cioè del trattamento particolare con la privazione di tutta una serie di residui di libertà per i soggetti che non devono comunicare con altri all'esterno.

La Corte costituzionale ha più volte precisato che può essere giustificato un carcere con maggiori difficoltà di contatto con l'esterno per chi altrimenti continua a tenere i contatti con i criminali con cui “lavorava” prima. Ma ha aggiunto che questo discorso non può trasformare il carcere in un cosiddetto carcere duro, in un “aumento di pena” per tale via.

A mettere in dubbio la accettabilità della privazione della libertà personale come pena vi è quindi il problema delle relazioni. Si diventa persona attraverso le relazioni con gli altri; ma le relazioni in carcere, a cominciare da quelle affettive, sono notevolmente ridotte. Vi è poi il problema del discorso del tempo: il fine pena mai, la memoria del passato, la necessità di non levare al detenuto la speranza.

Il terzo problema è quello dello spazio in carcere. La globalizzazione con le sue conseguenze – ai tempi della pandemia – ci ha abituato a vivere nella virtualità. Il denaro, le persone, le idee fanno il giro del mondo; la realtà può essere ricostruita in termini di virtualità. Tutto questo vuol dire che abbiamo uno spazio molto più virtuale che reale; bisogna ritornare al recupero dello spazio reale e quest’ultimo vuol dire anche spazio all'interno del carcere, seppure coi limiti alla libertà personale che il carcere richiede.

In parole semplici, è accettabile una pena fondata sulla limitazione della libertà personale? O essa dovrebbe essere circoscritta e rigorosamente delimitata alle ipotesi di pericolosità, violenza e aggressività nei confronti di chi non possa essere in altro modo contenuto per evitare danni agli altri e a sé stesso?

È possibile continuare a vedere nella privazione della libertà personale la principale se non unica sanzione efficace? O essa finisce per risolversi in una forma inaccettabile di discriminazione e di isolamento del “diverso”? O quella pena rischia di cumulare in sé due finalità inaccettabili: la “vendetta pubblica” in luogo di quella privata o del clan e l’isolamento del “diverso” nella realtà del carcere, che è stato definito a ragione una vera e propria “discarica sociale”?

 

9. Un richiamo inascoltato: il carcere “sicuro” e violento dopo la sentenza n. 10-2024.

Con la sentenza n. 10-2024 la Corte costituzionale sperava nell’ azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell’amministrazione penitenziaria” per rendere possibile il “percorso di inveramento del volto costituzionale della pena” attraverso il passaggio fondamentale del riconoscimento effettivo del diritto all’intimità in carcere.

A distanza di 8 mesi quel richiamo alla responsabilità del legislatore è rimasto lettera morta sino a poco tempo fa. I direttori degli istituti denunciano la mancanza di spazi e di fondi per realizzare cosiddette stanze dell’amore. La politica rimane silente e prosegue in un “benaltrismo” indifferente che mira a spostare il discorso su argomenti diversi, senza che se ne affronti effettivamente qualcuno.

È preoccupante il collegamento fra sicurezza e rieducazione che viene proposto dall’attuale maggioranza: la pena viene vista come necessariamente carceraria e afflittiva e come esclusivamente volta a rieducare il detenuto. Si perde l’importanza della tutela della dignità dei detenuti e della garanzia dell’umanità della pena.

Non è ammissibile subordinare a logiche premiali il rispetto dei diritti fondamentali delle persone ristrette. La Corte costituzionale ce lo ha ricordato proprio con la sentenza sull’intimità: “lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. Lo stato di detenzione viene considerato – invece –lo strumento principale per annullare le libertà costituzionale dei condannati e degli imputati. Ciò è ritenuto giusto o accettabile da buona parte della società e dalla sua maggioranza, per esigenze di sicurezza.

L’intimità in carcere è fondamentale perché è uno degli strumenti – forse il più intenso – per assicurare il mantenimento delle relazioni affettive, che contribuiscono a rendere individuo persona.

Non stupisce che l’importanza di questo aspetto non sia colta: ampliando il discorso, a livello globale si apre la prospettiva futura di una società con più macchine (anche per via dell’evoluzione dell’intelligenza artificiale) e meno persone (per via del calo demografico sempre crescente).

Solo ripensando l’individualità dell’io in un nuovo rapporto con la natura e il noi, è possibile preservare le peculiarità del genere umano: al “triste soliloquio” dell’individuo chiuso in sé stesso deve sostituirsi il dialogo del “noi”. Solo attraverso la relazione con gli altri e con ciò che ci circonda diventiamo “persona” e riconquistiamo la “riserva di umanità” messa in crisi dalla potenza di calcolo delle macchine.

Nel dialogo del “noi” entra in gioco anche la relazione con la natura e le altre specie, nell’idea di ridare significato alla nostra presenza. Una presenza che non può più essere prevaricatrice e violenta nei confronti del pianeta che ci ospita.

È fondamentale una presa di coscienza dei nostri limiti e della finitezza della nostra vita “terrena”: siamo umani perché imperfetti; perché sappiamo dialogare attraverso codici e convenzioni; perché sappiamo modificare lo spazio che ci circonda per migliorare le nostre condizioni di vita; perché sappiamo organizzare la nostra vita nel rapporto con le vite degli altri. L’umanità si è costruita sul dialogo e sulle relazioni; si preserverà se saprà riscoprire il valore di quel dialogo e di quelle relazioni nel rispetto delle risorse naturali e delle altre specie animali.

L’“io” non esiste senza un “noi” e senza il perseguimento dell’interesse fondamentale del miglioramento del benessere personale e collettivo, che non è possibile senza l’equilibrio e la preservazione degli ecosistemi e della biodiversità.

La vita fisica si compone di odori, di sensazioni di caldo e di freddo, di emozioni. Il nostro cervello recepisce i segnali che provengono da tutto il corpo: elabora sensazioni “a pelle” e sensazioni sulla pelle, le informazioni trasmesse dai recettori del tatto, dell’olfatto, del gusto, dell’udito e della vista.

I cinque sensi arricchiscono la nostra capacità cognitiva e il bagaglio di informazioni che il cervello lavora per consentirci di adattarci a ciò che ci circonda e di prendere decisioni. Forse non possiamo fare nulla contro la capacità computazionale dei sistemi di intelligenza artificiale; ma  qualcosa possiamo ancora fare se non perdiamo contatto con la nostra fisicità e il nostro rapporto con la natura.

In campo penale molti studiosi si sono occupati del rapporto fra emozioni e libero arbitrio. È innegabile che le azioni umane siano orientate dall’emozione e dal sentimento: coraggio e paura hanno cambiato il corso della storia, così come felicità, ira e orgoglio possono cambiare il corso della nostra giornata.

Ciò che ci rende umani è la capacità di gestire le emozioni, attraverso la relazione con gli altri e la creazione di una cultura comune fondata sulla condivisione degli intenti e il bilanciamento fra interessi dei singoli.

Lo sguardo alla natura e alle sensazioni e alle emozioni che da essa si producono con effetti su di noi e dentro di noi ci fa comprendere che pensiamo perché anzitutto esistiamo nella nostra fisicità, con il nostro corpo e le nostre fisionomie. Sum ergo cogito, come ricordato da alcuni invertendo il proverbiale Cogito ergo sum cartesiano.

Con questa consapevolezza possiamo affrontare la sfida del cambiamento in atto: non certo rafforzando il potere repressivo dello Stato che pare si stia indirizzando verso una nuova veste di Stato-persona in contrasto con l’idea di comunità e convivenza che dovrebbe illuminare la società umana di fronte alla prospettiva dell’autodistruzione.

È proprio il corpo ad essere primariamente colpito durante la detenzione: su di esso si percepisce il peso delle condizioni di invivibilità degli istituti penitenziari; contro di esso (proprio o altrui) si indirizzano le condotte violente delle persone ristrette esasperate per mancanza di speranza e di attenzione.

L’accento sul momento rieducativo impedisce di cogliere la disumanità del carcere per due categorie: imputati in attesa di giudizio e condannati a pene detentive brevi. I numeri dimostrano che si scontano in carcere ancora pene brevissime di 6 mesi o 1 anno (non residui di maggior pena!).

La percezione è quella dell’abbandono da parte dell’ordinamento dei disagiati e degli indigenti, che non possono permettersi un buon avvocato o semplicemente non hanno le conoscenze di base per orientare le proprie scelte processuali, anche in fase esecutiva. Sembra una banalità: ma non possiamo non tener conto anche di questi aspetti della realtà concreta e limitarci solo a elucubrazioni giuridiche. 

L’indifferenza della politica di maggioranza al problema dell’intimità in carcere ci porta inevitabilmente ad estendere le nostre riflessioni ai problemi generali: non è più sostenibile la situazione che si sta vivendo nei penitenziari di tutta Italia.

Il carcere sacrifica le relazioni umane a partire da quelle affettive per andare a quelle ideali, culturali, politiche, sociali ed economiche. Sacrifica altresì le condizioni di spazio alla luce del sovraffollamento e della “virtualità” dello spazio residuale disponibile per la vita del singolo. Sacrifica allo stesso modo la dimensione temporale sia nello stacco con il passato, sia negli interrogativi sul futuro della persona detenuta.

In carcere entrano in troppi ed escono troppo pochi. Questo dramma non si risolve con la costruzione di nuove carceri o il riadattamento delle caserme dismesse o con le “celle-containers”. Non si può nemmeno risolvere con il numero chiuso quando il carcere ha raggiunto una certa soglia.

Anzi, sembra sia stato “dismesso” l’argomento delle “caserme dismesse” in favore di un altisonante decreto-legge volto a “umanizzare il carcere”. Lascia l’amaro in bocca pensare che dopo più di 75 anni dall’adozione della Costituzione si debba intervenire per “straordinaria necessità e urgenza” per garantire un carcere “più umano”; ma si specifichi con un certo allarme che non sarà un decreto “svuota carceri” e che non ci saranno amnistie. Invece c’è bisogno proprio di svuotare le carceri facendo uscire tutti quelli per cui la detenzione non ha altro significato che quello di una restrizione insensata e controproducente.

 

10. Il carcere oggi nella Costituzione: una conclusione o una domanda?

Parlare di amnistia o di indulto significa sostanzialmente certificare il fallimento dello Stato. Dobbiamo prenderne atto, se si vuole intervenire nel breve periodo per riportare la reclusione nel perimetro di legittimità costituzionale e convenzionale. L’unica via è quella di una misura eccezionale che svuoti le celle di tutti coloro i quali non costituiscono un pericolo grave per l’incolumità dei singoli o della collettività.

Bisogna essere però consapevoli che un rischio c’è. Esso è costituito dalla “pericolosità sommersa”, ossia quella che si sviluppa in carcere al di là del crimine commesso, per il sol fatto di essere reclusi e di essere costretti al confronto con determinati soggetti.

Il problema non si può risolvere con più agenti penitenziari o telefonate. Esso va affrontato a monte. Forse è arrivato il momento di cancellare o delimitare drasticamente l’unica pena che abbiamo saputo immaginare: la privazione della libertà personale con la consapevolezza che non è in realtà possibile salvare in essa i c.d. “residui di libertà”. La detenzione è necessaria solo quando vi siano rischi per la collettività e necessità di evitare comportamento violenti contro le persone e l’incolumità pubblica.

Non basta discutere di misure alternative o pene sostitutive. Occorre parlare di pene principali diverse, che siano effettivamente proporzionali con la gravità del fatto commesso e coerenti con nella loro applicazione con la necessità di percorsi individualizzati. La situazione fotografata dal Garante dei detenuti al 18 settembre 2024 è emblematica e molto più esplicativa di qualsiasi discorso: 61.791 persone ristrette; 46.935 posti disponibili; 50.892 la capienza regolamentare.

È preoccupante anche la situazione degli istituti penali minorili: si è riusciti a sovraffollare anche quelli. La risposta dell’ordinamento al disagio sociale, all’indigenza, all’abbandono scolastico che colpiscono i più giovani è il carcere.

Fa sorridere – amaramente – leggere nel recente decreto-legge n. 131-2024 (c.d. “anti-infrazione”, ossia adottato per evitare l’apertura di procedure di infrazione da parte dell’Unione Europea) che si prevede di aggiungere alla norma di apertura del decreto legislativo sull’esecuzione penale minorile (d.lgs. n. 121-2018) la previsione che deve essere assicurato “il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione”, dell’art. 6 T.U.E., “nonché dei diritti riconosciuti dalla direttiva 2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016 sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penale”. Sarebbe ovvio: ma come già avvenuto per il principio di presunzione di non colpevolezza, ci si ricorda di prevedere normativamente ciò che è già imposto a livello costituzionale con un intervento di attuazione di una direttiva europea.

Sono interessanti le prospettive recenti aperte dalla previsione di una disciplina organica della giustizia riparativa. Essa è allo stato bloccata sul territorio perché mancano i centri o il personale per farli funzionare. Nonostante l’importanza del confronto fra autore e vittima al fine di ricostituire e “riparare” la lacerazione del rapporto interindividuale e del patto sociale costituito dal reato, sorge qualche dubbio che la giustizia riparativa possa produrre effetti positivi sui problemi del sovraffollamento e della tutela della dignità dei detenuti.

Tale forma di confronto richiede un livello culturale che per un verso il carcere spesso non riesce ad assicurare al reo; per un altro verso le istituzioni non riescono ad assicurare al cittadino libero.

Di fronte alla triste conta dei sucidi in carcere – dei detenuti e degli agenti della polizia penitenziaria – è necessario indagare le cause: sovraffollamento, degrado delle condizioni di vivibilità e dell’edilizia, scarsa offerta di attività, mancanza di una prospettiva per il futuro e così via. Anche in tal caso più delle parole – e delle sterili polemiche o prese di posizione – sono importanti i numeri: 31 persone avevano tra i 26 e i 39 anni; 25 persone erano in attesa del primo giudizio; 37 persone si sono tolte la vita nei primi sei mesi di detenzione; molti avrebbero espiato la pena entro pochi mesi (in alcuni casi l’evento suicidario è intervenuto ad un mese dalla definitiva scarcerazione).

Vi è poi il problema – a fronte della presunzione costituzionale ed europea di non colpevolezza – dell’uso (o talvolta o forse troppo spesso abuso) della custodia cautelare. Il carcere deve esserci come pena e custodia cautelare solo quando è strettamente necessario; via dal carcere il più presto possibile.

Persino lo stesso Procuratore generale della Cassazione qualche anno fa ha ammonito i magistrati a non eccedere nell'uso della custodia cautelare. Sembra inverosimile non riuscire a trovare degli strumenti che consentano un controllo senza bisogno di usare il carcere per evitare la fuga dell’indagato; o per contrastare l’inquinamento di prove; o per formulare una prognosi di sua pericolosità che incide sulla presunzione di non colpevolezza. Soprattutto ricorrendo a quest’ultima esigenza cautelare spesso si abusa della custodia in carcere.

La limitazione della libertà personale e gli abusi o le situazioni di fatto che compromettono la tenuta della libertà personale aggravano il sacrificio in carcere anche sotto un altro aspetto. La limitazione della libertà personale non può essere una pena in quanto tale; può esservi solo temporaneamente in via eccezionale per frenare o contenere un'aggressività altrimenti non controllabile. La Costituzione, infatti, prevede “le pene” come pluralità di ipotesi possibili.

L’evoluzione culturale, sociale, politica e tecnologica ha fatto crescere la gamma dei diritti fondamentali che si riconoscono alla persona. Nell’affrontare la “emergenza” del sovraffollamento in carcere ci dimentichiamo che sono in gioco anche l’articolo 2 e l’articolo 3 della Costituzione.

Il carcere è una formazione sociale – coatta – nella quale si sviluppa la personalità del soggetto che è dentro. Le formazioni sociali sono lo strumento attraverso il quale l'individuo diventa persona confrontandosi con gli altri.

Il carcere è eliminazione dello spazio reale di cui ciascuno di noi ha bisogno per il proprio diritto alla privacy. Occorre riorganizzare gli spazi nel carcere, la distinzione fra quelli di vita in comune con gli altri e quelli di vita privata compatibilmente con le esigenze di sorveglianza e di sicurezza. Nel carcere lo spazio per il singolo è soltanto virtuale; arriviamo a discutere dottamente se il water faccia parte delle suppellettili o dei metri utili nell'ambito della cella; o ad usare l’espressione “un’ora d’aria”.

Il carcere priva dello spazio e del tempo che per la persona e per la sua identità sono essenziali come le relazioni con gli altri; rischia di compromettere l’identità e la personalità del detenuto nelle loro componenti essenziali. L'individuo vive e diventa persona anche nel suo contesto temporale, con il suo passato e il suo futuro.

Purtroppo è fallita l’esperienza degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale promossa dalla dottrina e degli operatori. Non è stata colta neanche l’importanza dell’approccio concreto proposto dalla Commissione Ruotolo, volto a trovare a livello amministrativo e regolamentare gli strumenti per “aprire” maggiormente la pena detentiva che è esclusiva ed escludente.

I “residui di libertà” – espressione della Corte costituzionale indicativa ma forse poco felice se guardata con gli occhi di oggi – sono essenziali e da garantire comunque ai detenuti nella misura in cui sono compatibili con la reclusione.

La soluzione a lungo periodo, nei suoi molteplici aspetti, si trova però nel rifiuto della panpenalizzazione; nel rilancio di un percorso culturale dentro e fuori dal carcere; nella diversificazione delle pene principali; nella possibilità di nuove e migliori tecniche di organizzazione del sistema penitenziario.

È prioritario a tutto ciò accettare che il carcere deve essere veramente e soltanto una misura di extrema ratio; e che il principio personalistico su cui si basa la Costituzione non può essere tutelato con il ricorso simbolico al penale e al carcere.

 

 

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