Cass., Sez. I, 1° luglio 2024 (dep. 2 agosto 2024), n. 31753, Pres. Santalucia, Rel. Magi
Contributo pubblicato nel fascicolo 7-8/2025.
1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Prima Sezione della Corte di cassazione si pronuncia sull’individuazione del regime detentivo dei condannati per reati di cui all’art. 4-bis ord. penit. In particolare, il provvedimento fornisce coordinate funzionali alla ricognizione della disciplina applicabile agli autori di delitti ostativi commessi prima dell’entrata in vigore dei decreti-legge n. 152/1991 e n. 306/1992. Com’è noto, si tratta delle modifiche normative con cui il legislatore ha risposto alle stragi mafiose di quegli anni, introducendo, rispettivamente, l’articolo 4-bis nella legge sull’ordinamento penitenziario (con l’art. 1, c. 1, D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con modificazioni nella L. 12 luglio 1991, n. 203) ed il requisito della necessaria collaborazione con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit., per l’accesso ai benefici penitenziari da parte degli autori dei gravi delitti ivi elencati (con l’art. 15, c. 1, D.L. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modificazioni nella L. 7 agosto 1992, n. 356).
Come si dirà, la Corte di legittimità perviene alla conclusione secondo cui alle modifiche normative introdotte con il primo decreto debba riconoscersi natura sostanziale, «perché per la prima volta con tale strumento legislativo è stato introdotto nel sistema dell’ordinamento penitenziario italiano (dopo le variazioni adottate con legge n. 663 del 1986) un meccanismo di discriminazione basato sui titoli di reato oggetto delle pronunzie divenute esecutive (tra cui i fatti di criminalità organizzata e terrorismo) e di correlato “aggravamento” della procedura di concessione di benefici penitenziari e liberazione condizionale»[1]. Deve, invece, riconoscersi natura processuale alle modifiche apportate con il secondo decreto, poiché «si colloca all’interno di un “solco” già tracciato dal precedente decreto legge del maggio 1991, sì da finire con il rappresentare una particolare “modalità di funzionamento” di un istituto (presunzioni legali di pericolosità condizionanti l’accesso ai benefici o alla liberazione condizionale) già esistente dal maggio del 1991, con cui l’autore del delitto “ricompreso” nell’elenco aveva la contezza di doversi confrontare»[2].
Prima di soffermarci sulle motivazioni della sentenza, si premette qualche breve cenno sul merito del ricorso, presentato da una persona condannata alla pena dell’ergastolo per reati c.d. ostativi, a seguito del rigetto delle istanze proposte al Tribunale di Sorveglianza di L’Aquila, per la concessione di semilibertà e liberazione condizionale. Nello specifico, con l’ordinanza impugnata, il Tribunale di Sorveglianza rilevava che correttamente doveva applicarsi al ricorrente la disciplina di cui all’articolo 4-bis ord. penit.; che erano stati soddisfatti dall’istante tutti gli oneri di allegazione ivi previsti; che già in sede di concessione di permessi premio (in data 24 gennaio 2023) si era dato atto dell’assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, nonché dell’assenza del pericolo di un loro ripristino; che risultavano soddisfatti i presupposti di legge relativi all’entità della pena già scontata; e che vi era stato riscontro positivo alle verifiche svolte dalle autorità di pubblica sicurezza concernenti le attività lavorative e di volontariato proposte con le istanze. Nondimeno, l’iter argomentativo del giudice aquilano, che pur dà conto del buon comportamento, dell’impegno profuso dal ricorrente nell’attività lavorativa e della regolarità della sperimentazione esterna, conduce ad una decisione di rigetto di entrambe le domande. Segnatamente, con riferimento alla semilibertà, il Tribunale di Sorveglianza, dando rilievo determinante alla gravità dei delitti in espiazione, afferma che l’esperienza premiale avviata da poco più di un anno – seppure con numerosi indicatori positivi – non è sufficiente, rendendosi necessario un ulteriore periodo di osservazione. A fortiori, non vengono considerati sussistenti i presupposti necessari a far ritenere sicuro il ravvedimento dell’istante, così come richiesto per la concessione della liberazione condizionale.
2. Ricorre per cassazione il condannato, deducendo, anzitutto e per quanto interessa l’oggetto della presente nota, l’erronea applicazione della disciplina di cui all’art. 4-bis ord. penit. (nei contorni definiti dal D.L. n. 306/1992), in violazione del divieto di retroattività di modifiche normative in peius in materia di esecuzione penale, come interpretato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32/2020. Con riferimento, poi, al diniego opposto alle domande di semilibertà e liberazione condizionale, il ricorrente lamenta erronea applicazione di legge e vizio di motivazione, per la mancanza di adeguata considerazione del complesso di indicatori positivi e dei requisiti già soddisfatti, elementi ingiustificatamente trascurati con una motivazione meramente apparente.
Annullando l’ordinanza impugnata, con rinvio per nuovo giudizio, limitatamente alla misura della semilibertà – il cui diniego è apparso non congruamente motivato e contraddittorio – la Corte di legittimità affronta la questione della successione nel tempo di leggi penali in materia penitenziaria. Ritenendo infondato il relativo motivo di ricorso, in particolare, la Suprema Corte, come anticipato, attribuisce natura processuale alle modifiche intervenute con il D.L. n. 306/1992, sfuggendo, conseguentemente, all’applicazione del divieto di retroattività ex art. 25, secondo comma, Cost.
2.1. I giudici della Prima Sezione, nel tornare sul tema della natura giuridica delle norme incidenti sull’esecuzione penale, prendono le mosse dalle indicazioni ermeneutiche fornite sul punto dalla Corte costituzionale con la citata sentenza n. 32/2020[3], la cui portata storica è cosa nota. Sollecitata ad esprimersi sulla legittimità della disciplina con cui erano stati inseriti, ad opera della L. n. 3/2019, diversi reati contro la pubblica amministrazione nel novero dei delitti c.d. ostativi di prima fascia, la Consulta prendeva posizione, per la prima volta, sul tema[4]. Si veniva in tal modo superando quel diritto vivente che, facendo eco alle Sezioni Unite del 2006[5], era fermo nel ritenere che alle disposizioni concernenti la materia delle misure alternative alla detenzione – in quanto non riguardanti l’accertamento del reato né l’irrogazione della pena – dovesse riconoscersi carattere processuale e soggezione al principio del tempus regit actum[6]. Diritto vivente che, tuttavia, come d’altra parte dimostrato dalle undici ordinanze di rimessione – riunite ai fini della decisione della Giudice delle leggi –, già era stato messo in discussione da una serie di pronunce di merito di segno opposto[7]. Queste ultime, ispirate alla giurisprudenza europea dei c.d. criteri Engel[8], si adeguavano alle indicazioni metodologiche europee nella definizione di ciò che può ricondursi al concetto di matière pénale, estendendo così l’applicazione delle relative garanzie – con particolare riferimento al divieto di retroattività in peius – a modifiche di carattere processuale-esecutivo con incidenza afflittiva diretta sul singolo.
La Corte costituzionale, nella citata occasione, faceva propria la prospettiva dei giudici di Strasburgo. Così, muovendosi nel solco tracciato dalla giurisprudenza di merito che già vi si era conformata, concludeva affermando che le pene detentive devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento della loro esecuzione, salvo però che tale legge comporti, rispetto al quadro normativo vigente al momento del fatto, una trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale. Più nello specifico, la Consulta agganciava l’applicazione del divieto di retroattività dello ius superveniens peggiorativo in materia di esecuzione penale ad un criterio di prevedibilità delle conseguenze sul piano esecutivo dell’agire penalmente illecito, quantomeno in relazione a tutte quelle dispieganti un qualche effetto sulla libertà personale dell’interessato. Paradigmatica, in proposito, è l’ipotesi di una successione normativa che determini il mutamento della sanzione penale, privandola di una dimensione potenzialmente extramuraria che prima della modifica la caratterizzava. A ben vedere, l’applicazione retroattiva di una tale legge contrasterebbe irrimediabilmente con l’art. 25, secondo comma, Cost.” [9].
3. A questo punto, per meglio comprendere le motivazioni sottese alla pronuncia qui annotata e, eventualmente, rilevarne criticità, occorre riportarsi alle ragioni che sorreggono, per un verso, l’applicazione del divieto di retroattività di cui all’art. 25, secondo comma, della Costituzione e, per altro verso, quelle sulle quali poggia il summenzionato principio del tempus regit actum.
3.1. Il principio di legalità, compendiato nel brocardo latino nullum crimen nulla poena sine lege, pacificamente assolve ad una funzione che è almeno duplice. Esso è garanzia di prevedibilità ragionevole delle conseguenze cui si espone il trasgressore del precetto penale, così offrendogli la “certezza di libere scelte d’azione”[10], nonché, ove fosse instaurato a suo carico un procedimento penale, la possibilità di formulare ragionevoli ipotesi sanzionatorie e sulla base di queste le più efficaci strategie difensive.
Ma esso svolge pure la funzione di roccaforte del singolo contro possibili abusi da parte del potere legislativo[11]. Ecco che, allora, il divieto di applicazione retroattiva di modifiche peggiorative della disciplina della pena opera quale limite essenziale al legittimo esercizio del potere politico, fondando il concetto stesso di “stato di diritto”.
3.2. Parimenti solide sono, del resto, le rationes in virtù delle quali si è sempre ritenuto doversi applicare il principio del tempus regit actum alla materia che regola l’esecuzione di quella stessa pena. Anzitutto, l’assunto è motivato dalla necessità di consentire i fisiologici assestamenti della disciplina normativa, frequentemente sollecitata ad adeguarsi ai mutamenti del contesto in cui l’amministrazione penitenziaria si trova ad operare. A titolo meramente esemplificativo, possono immaginarsi le conseguenze del ritenere inapplicabile a detenuti condannati per fatti commessi qualche decina di anni fa le restrizioni oggi previste dall’ordinamento penitenziario all’uso di telefoni cellulari o della rete internet.
In considerazione dei delicati equilibri del microcosmo dell’istituto penitenziario, non secondariamente, la ragione che rafforza la necessità di una applicazione anche retroattiva di modifiche della disciplina dell’esecuzione è quella che vuole scongiurare il rischio di coesistenza di una pluralità indefinita di regimi esecutivi diversi e paralleli. Ciascun detenuto sarebbe, infatti, sottoposto ad un regime definito sulla base del tempus commissi delicti, così creando difficoltà di gestione facilmente immaginabili per l’amministrazione penitenziaria e, soprattutto, differenze di trattamento potenzialmente in grado di inficiare il dispiegarsi del percorso rieducativo per tutti i presenti in istituto.
4. Coerentemente con l’insegnamento della Consulta, sono proprio le rationes sottese ai principi richiamati a dover guidare l’interprete nel discernere tra modifiche soggette al divieto di retroattività in peius e modifiche soggette al tempus regit actum, dovendosi rigettare il criterio meramente formalistico di una distinzione fondata su ciò che attiene alla materia del diritto penale sostanziale e ciò che attiene a quella del diritto penale processuale.
Occorre, pertanto, che si verifichi di volta in volta se, nel caso concreto, la modifica normativa deteriore in tema di regime esecutivo crei o meno il serio rischio che il condannato possa essere assoggettato ad un trattamento di maggior severità rispetto a quello ragionevolmente prevedibile al momento del fatto. E ciò anche nei termini di una minore probabilità di accesso alle modalità extramurarie di esecuzione della sanzione penale[12].
Invero, il criterio della natura sostanziale o processuale della norma deve cedere il passo alla considerazione delle anzidette rationes, dovendosi attivare la garanzia offerta dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione ogniqualvolta la modifica incida, nei modi sopra accennati, sulla libertà personale, definendo an, quantum e, in ultimo, la qualità delle conseguenze punitive[13].
***
5. Con la pronuncia oggetto di queste brevi note, la Corte di legittimità si confronta con la concreta applicazione dei principi enucleati dalla Consulta con la sentenza n. 32/2020. Nel ponderarne le ricadute su modifiche normative risalenti, quanto sono quelle che interessano il giudizio della Suprema Corte, quest’ultima procede apprezzando le circostanze di fatto che «compongono la sequenza “storica” delle variazioni», assumendo la prospettiva del soggetto agente.
5.1. L’articolo 1, comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, inserendo nella legge sull’ordinamento penitenziario l’articolo 4-bis (“Accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti”), disciplina, per la prima volta, un meccanismo di discriminazione basato sui titoli di reato oggetto delle pronunce divenute esecutive. In virtù di tale meccanismo, «l’ottenimento di misure alternative o della liberazione condizionale viene subordinato ad una verifica in fatto (l’esistenza o meno di attuali collegamenti con la criminalità organizzata) che prescinde dai parametri correlati ai singoli istituti (regolarità del comportamento, quantum di pena espiata etc.) e si rapporta, con presunzione relativa di pericolosità sociale, alla condizione soggettiva dell’autore del fatto». Condivisibilmente, la Corte rileva come si tratti «di una modifica che per la prima volta “aggrava” le condizioni per l’accesso a strumenti giuridici idonei a modificare la “consistenza” della pena e ciò, in particolare, per il soggetto condannato alla pena dell’ergastolo (data la previsione espressa di cui all’art. 2 comma 1 del decreto-legge n. 152 del 1991 che estende la nuova disciplina di cui all’art. 4-bis comma 1 all’istituto della liberazione condizionale». Ma, soprattutto, con la modifica normativa de qua ha luogo «la genesi di quel trattamento più severo di quello che era ragionevolmente prevedibile al momento del fatto, in termini di minore probabilità di accesso a modalità extramurarie di esecuzione della sanzione, per dirla con le parole usate da Corte cost. n. 32 del 2020»[14].
È valorizzando tali fondamentali aspetti che la Cassazione perviene alla conclusione secondo cui alle richiamate modifiche del 1991 debba riconoscersi natura sostanziale. Così pronunciandosi, la Corte implicitamente dichiara inapplicabile il regime ostativo a coloro i quali siano stati condannati per delitti commessi in epoca antecedente l’introduzione dell’art. 4-bis poi ricompresi tra i reati di c.d. prima fascia nel relativo elenco.
5.1.1. L’affermazione dei giudici della Prima Sezione, pur nella sua condivisibilità, pare meritare più approfondita riflessione rispetto alla “generalizzabilità” dei suoi effetti[15]. In particolare, deve considerarsi la condizione di coloro che, in numeri seppur relativamente contenuti[16], prima dell’introduzione dell’art. 4-bis nella L. n. 354/1975 avevano riportato una condanna per delitti poi ricompresi nel catalogo di fattispecie che dal D.L. n. 152/1991 sarebbero divenute “ostative”, con tutte le relative implicazioni.
Di pari passo con tale considerazione ci pare poi sorga, quantomeno, un legittimo dubbio circa le sorti di coloro che si trovano sottoposti al regime del c.d. carcere duro, ai sensi dell’art. 41-bis, comma 2, ord. penit. e che, ove condannati per i delitti ostativi de quibus, a seguito della pronuncia in commento dovrebbero fuoriuscire dal regime di ostatività. Per un verso, infatti, il richiamo all’art. 4-bis, contenuto nella norma citata, non implica necessariamente che si faccia riferimento ai detenuti cui il regime ostativo viene concretamente applicato, ma solo all’elenco di delitti che nella norma viene stilato[17]. Per altro verso, tuttavia, non sembra possibile trascurare una certa irragionevolezza nell’immaginare che detenuti sottoposti, in istituto penitenziario, al peculiare regime dell’art. 41-bis – in virtù di un richiamo al solo elenco e non anche alla disciplina di ostatività di cui all’art. 4-bis – possano poi potenzialmente accedere a misure extramurarie in assenza dei limiti altrimenti previsti per coloro che abbiano commesso reati considerati sintomatici di una particolare pericolosità sociale.
5.2. Di opposto avviso è, invece, la Corte di legittimità nel ritenere che debba riconoscersi natura processuale alle modifiche normative apportate con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306. L’articolo 15, comma 1, del provvedimento legislativo citato, introducendo il requisito della necessaria collaborazione con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ord. penit., per l’accesso ai benefici penitenziari da parte degli autori dei gravi delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit., «si colloca all’interno di un “solco” già tracciato dal precedente decreto legge del maggio 1991, sì da finire con il rappresentare una particolare “modalità di funzionamento” di un istituto (presunzioni legali di pericolosità condizionanti l’accesso ai benefici o alla liberazione condizionale) già esistente dal maggio del 1991, con cui l’autore del delitto “ricompreso” nell’elenco aveva la contezza di doversi confrontare»[18].
5.2.1. Ci chiediamo, allora, se il principio di diritto così enunciato sia effettivamente conciliabile con i principi sanciti e richiamati dalla sentenza n. 32/2020 della Corte costituzionale, proprio in virtù della considerazione per la quale, come rilevato dalla Prima Sezione, devono apprezzarsi tutte le circostanze di fatto che delineano la sequenza delle variazioni, ponendosi nell’ottica del soggetto agente al fine di valutarne l’effettiva prevedibilità.
Se, come si ritiene nella pronuncia qui annotata, deve attribuirsi natura sostanziale alle modifiche legislative introdotte con il D.L. del 1991, risulta non lineare la mancanza di analoga considerazione per le modifiche di cui al D.L. del 1992. In particolar modo, non può condividersi l’assunto secondo il quale dovrebbe ritenersi modifica di mere modalità di funzionamento l’introduzione del requisito della collaborazione per il condannato per delitti ostativi che voglia accedere ai benefici penitenziari ed alla liberazione condizionale. All’evidenza, una tale diversa previsione è potenzialmente in grado di determinare un significativo prolungamento del periodo da trascorrere in carcere, se non financo l’annichilimento della speranza di uscirne, per i condannati all’ergastolo per reati ostativi commessi prima del 1992, che per una qualsiasi ragione non collaborino con la giustizia.
Ci pare possa riconoscersi natura sostanziale alla modifica normativa de qua, poiché essa è tale da determinare la trasformazione da relativa ad assoluta della presunzione di pericolosità sociale sottesa al regime restrittivo di accesso ai benefici quale ratio fondante la disciplina di cui all’art. 4-bis, con conseguenze di macroscopica incidenza sulla libertà personale del non collaborante.
La possibilità di sfuggire agli imprevedibili effetti di una modifica di tal sorta finisce per poggiarsi su un sistema di presunzioni già messo in discussione dalla stessa Corte costituzionale, che con la sentenza n. 253/2019 ha delegittimato – seppur con riferimento ai soli permessi premio – detto sistema di aggravamento delle modalità esecutive quale conseguenza dell’assenza di collaborazione.
Del resto, la stessa Corte di legittimità aveva dato segno di accogliere l’impostazione della Consulta, sollevando questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis ord. penit. con riferimento all’esclusione dalla possibilità di ammissione alla liberazione condizionale del condannato all’ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, che non collabori con la giustizia. A fondamento dell’ordinanza n. 18518/2020 vi era, invero, il “convincimento che la collaborazione non può essere elevata ad indice esclusivo dell’assenza di ogni legame con l’ambiente criminale di appartenenza e che, di conseguenza, altri elementi possono essere validi e inequivoci indizi dell’assenza di detti legami e quindi di pericolosità sociale”[19].
6. Parrebbe, allora, residuare qualche dubbio sulla conformità ai principi costituzionali delle conclusioni cui è giunta la Prima Sezione con la pronuncia qui annotata, quantomeno ove con la stessa, ritenendo inapplicabili le garanzie di cui si è detto ai fatti commessi in epoca antecedente al 1992, si muove in senso contrario agli orientamenti giurisprudenziali più recenti[20]. Questi ultimi, invero, travalicano coraggiosamente i confini tracciati dalla sentenza costituzionale n. 32/2020[21], nonché dalla sentenza n. 193/2020, con cui la Consulta ha ulteriormente confermato come debba considerarsi definitivamente superato, per quanto riguarda l’accesso alle misure alternative, il diritto vivente che attribuiva carattere processuale alla disciplina preclusiva di cui all’art. 4-bis. Essi, infatti, volgono nel senso di un’estensione del principio di irretroattività dello ius superveniens sfavorevole alla disciplina dettata dall’art. 4-bis, comma 1, ord. penit. nel suo complesso, promuovendo un’applicazione generalizzata degli innovativi principi sanciti con le citate sentenze.
Nell’attesa di assistere al dispiegarsi degli effetti della pronuncia rispetto alla dichiarata natura sostanziale del D.L. del 1991, può solo auspicarsi, in relazione a secondo profilo toccato dalla sentenza, un riallineamento della Suprema Corte ai canoni costituzionali, così come interpretati, del resto, dagli orientamenti più recenti sviluppatisi sul tema dell’efficacia delle modifiche apportate alla disciplina penitenziaria.
[1] Cass. Pen., Sez. I, n. 31753/2024, par. 4.1.
[2] Cass. Pen., Sez. I, n. 31753/2024, par. 4.2.
[3] Tra le autorevoli voci espressesi a commento della pronuncia, possono vedersi V. Manes – F. Mazzacuva, Irretroattività e libertà personale: l’art. 25, secondo comma, Cost., rompe gli argini dell’esecuzione penale, in questa Rivista, 23 marzo 2020; nonché, S. Bernardi, Art. 4-bis ord. pen. e irretroattività della legge penale sfavorevole: l’importante svolta del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, in questa Rivista, 3 ottobre 2022; G. Flora, Norme penali “sostanziali”, norme penali “processuali” e divieto di retroattività, in Discrimen, 8 giugno 2020; F. Gianfilippi, Il divieto di interpretazione retroattiva delle modifiche peggiorative in materia di concedibilità delle misure alternative: la svolta della Corte Costituzionale nella sent. 32/2020 e l’argine ad un uso simbolico dell’art. 4-bis, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, n. 3-2020.
[4] Invero, nella giurisprudenza costituzionale degli anni che hanno seguito l’introduzione nell’ordinamento penitenziario del regime di cui all’art. 4-bis, la Corte, pur avendo riconosciuto già nell’antesignana sentenza n. 306/1993 che il profilo in discorso era meritevole di seria riflessione, non si è mai spinta a risolvere la questione come poi fatta oggetto della sentenza del 2020, limitandosi, di volta in volta, a dichiarazioni di parziale illegittimità costituzionale delle disposizioni nel corso degli anni censurate, sulla base di parametri sempre diversi dall’art. 25, secondo comma, Cost. Ad esempio, con la citata sentenza n. 306/1993, la Consulta giungeva a ritenere incompatibile con l’art. 27, primo e terzo comma, Cost. la previsione della revoca delle misure giù concesse, anche quando non fosse stata accertata la sussistenza di collegamenti attuali del condannato con la criminalità organizzata, in ragione dell’aspettativa già legittimamente maturata dai condannati in regime di semilibertà a vedersi riconosciuto l’esito positivo del percorso di risocializzazione compiuto, con possibilità di espiare la pena con modalità idonee a favorirne il completamento. Analoghe erano le ragioni poste alla base delle sentenze n. 504/1995, n. 445/1997 e n. 137/1999, con le quali venivano rilevati i profili di irragionevolezza ed incompatibilità con la funzione rieducativa della pena in seno alla disciplina di cui all’art. 15 del D.L. n. 306/1992, ove comportante una regressione incolpevole del trattamento rieducativo già in atto.
[5] Cass., Sez. Un., 17 luglio 2006, n. 24561, in cui, rilevato un contrasto giurisprudenziale in tema di applicabilità della disciplina relativa alla sospensione dell’ordine di esecuzione ai condannati per violenza sessuale di cui all’art. 609-bis c.p., al tempo di nuova introduzione tra i delitti di cui all’art. 4-bis ord. penit., si legge che la costante giurisprudenza di legittimità “è concorde nell’affermare che le disposizioni concernenti le misure alternative alla detenzione, in quanto non riguardano l’accertamento del reato e l’irrogazione della pena, ma attengono soltanto alle modalità esecutive della pena irrogata, non hanno carattere di norme penali sostanziali, e quindi – in assenza di specifiche norme transitorie – soggiacciono al principio tempus regit actum e non alla disciplina dell’art. 2 c.p. e dell’art. 25 Cost.” […] “Sia per la natura giuridica degli istituti, sia per il significato complessivo della normativa citata, quindi, va ribadito che il principio di irretroattività delle norme penali si applica solo per le pene inflitte dal giudice della cognizione, ma non anche per le misure alternative alla detenzione stabilite dal giudice di sorveglianza e per ogni altra modalità esecutiva della pena”.
[6] Tra le molte in tal senso, possono vedersi Cass. Pen., Sez. I, sent. 18 settembre 2006, n. 30792; Cass. Pen., Sez. I, sent. 15 luglio 2008, n. 29155; Cass. Pen., Sez. I, sent. 9 dicembre 2009, n. 46924; Cass. Pen., Sez. II, sent. 22 febbraio 2012, n. 6910; Cass. Pen., Sez. I, sent. 12 marzo 2013, n. 11580; Cass. Pen., Sez. I, sent. 18 dicembre 2014, n. 52578; Cass. Pen., Sez. I, sent. 9 settembre 2016, n. 37578; Cass. Pen., Sez. I, sent. 6 giugno 2019, n. 25212; Cass. Pen., Sez. I, sent. 26 settembre 2019, n. 39609.
[7] Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Como, ordinanza 8 marzo 2019; Corte di appello di Reggio Calabria, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019; Corte di appello di Napoli, sezione seconda penale, ordinanza 2 aprile 2019.
[8] Corte eur. dir. uomo, Plenaria, 8 giugno 1976, caso n. 5100/71, Engel and Others v. the Netherlands, §§ 81 e 82: “[…] it is first necessary to know whether the provision(s) defining the offence charged belong, according to the legal system of the respondent State, to criminal law, disciplinary law or both concurrently. This however provides no more than a starting point. The indications so afforded have only a formal and relative value and must be examined in the light of the common denominator of the respective legislation of the various Contracting States.
The very nature of the offence is a factor of greater import. When a serviceman finds himself accused of an act or omission allegedly contravening a legal rule governing the operation of the armed forces, the State may in principle employ against him disciplinary law rather than criminal law. In this respect, the Court expresses its agreement with the Government.
However, supervision by the Court does not stop there. Such supervision would generally prove to be illusory if it did not also take into consideration the degree of severity of the penalty that the person concerned risks incurring. In a society subscribing to the rule of law, there belong to the "criminal" sphere deprivations of liberty liable to be imposed as a punishment, except those which by their nature, duration or manner of execution cannot be appreciably detrimental. The seriousness of what is at stake, the traditions of the Contracting States and the importance attached by the Convention to respect for the physical liberty of the person all require that this should be so […]”.
[9] In particolare, la Consulta dichiarava costituzionalmente illegittimo l’art. 1, sesto comma, lett. b), L. n. 3/2019, “in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale”, nonché “nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso”.
[10] Corte cost., sentenza n. 364/1988.
[11] La Corte Suprema statunitense, a qualche anno dalla proclamazione del divieto di “ex post facto laws” nella Costituzione federale già menzionato, in una sua celebre decisione del 1798 si concentrava su tale profilo del principio di legalità, scrivendo che lo stesso può ricondursi alla consapevolezza dei padri costituenti circa la tendenza del Parlamento della Gran Bretagna a rivendicare e servirsi del potere di stabilire, per coloro che avessero già commesso determinati gravi illeciti, pene ben più severe o addirittura non previste al momento del fatto.
[12] Corte cost., sentenza n. 32/2020, par. 4.3.3.
[13] Cfr. G. Flora, Norme penali “sostanziali”, norme penali “processuali” e divieto di retroattività, in Discrimen, 2020.
[14] Cass. Pen., Sez. I, n. 31753/2024, par. 4.1.
[15] Timore che già si era fatto largo nei primi commenti alla citata sentenza della Grande Camera nel caso Del Rio Prada c. Spagna del 2013, come riportato in F. Mazzacuva, La Grande Camera della Corte EDU su principio di legalità della pena e mutamenti giurisprudenziali sfavorevoli, cit.
[16] Deve qui darsi conto della difficoltà nel reperire il dato, certamente più significativo, relativo al numero di condanne per reati, ad esempio, di criminalità organizzata negli anni che hanno preceduto l’introduzione dell’art. 4-bis ord. penit. In mancanza di tale informazione, si può far qui un riferimento all’unico dato che pare essere disponibile in materia, fornito dall’ISTAT, relativo al quinquennio 1985-1990: si registra, in particolare, un trend crescente relativo alle denunce da parte delle forze dell’ordine all’autorità giudiziaria per fatti riconducibili a mafia, camorra o ‘ndrangheta (166 nel 1985 e 557 nel 1990).
[17] Cfr. S. Bernardi, Art. 4-bis ord. pen. e irretroattività della legge penale sfavorevole: l’importante svolta del Tribunale di sorveglianza di Bologna, cit.
[18] Cass. Pen., Sez. I, n. 31753/2024, par. 4.2.
[19] Cass. Pen., ordinanza del 3 giugno 2020, n. 18518.
[20] Sul punto, può leggersi l’interessante ordinanza del 16 giungo 2022 (dep. 12 luglio 2022) del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, con commento di S. Bernardi, Art. 4-bis ord. pen. e irretroattività della legge penale sfavorevole: l’importante svolta del Tribunale di sorveglianza di Bologna, cit.
[21] La Corte, in quell’occasione, aveva circoscritto l’efficacia del proprio decisum alla disciplina delle misure alternative alla detenzione, della liberazione condizionale e della sospensione dell’ordine di esecuzione, lasciando che fosse il principio del tempus regit actum a regolare la preclusione dei “meri benefici penitenziari”, così riferendosi a permessi premio e lavoro all’esterno, salvo che gli interessati fossero condannati già in possesso dei requisiti richiesti per la concessione dei benefici stessi al momento dell’intervenuta modifica normativa.