Una breve riflessione sull’applicazione del 41bis ad Alfredo Cospito
In Force de loi Jaques Derrida usa parole nette sulla polizia come emblema dello Stato. Dice testualmente: “la polizia è lo Stato, non si può a rigore attaccarla senza dichiarare guerra all’ordine della res publica”. Se si pensa che siano frasi ad effetto di un filosofo un po’ ermetico, ma tra i più geniali del Novecento, suggerisco di guardare alle motivazioni con cui la Corte di Cassazione nello scorso luglio si è discostata dalla precedente qualificazione come strage comune (art. 422 c.p.) del reato commesso nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006. Pur avendo prodotto solo limitati danni alle cose per caso fortuito, il delitto – vale a dire il collocamento di due ordigni ad elevato potenziale esplosivo nei pressi di uno degli ingressi della Scuola Allievi Carabinieri di Fossano, programmandone la deflagrazione in successione con tecnica del richiamo, per massimizzare gli effetti letali del gesto violento – è di strage politica (285 c.p.) perché gli autori intendevano offendere non cittadini comuni, ma la personalità dello Stato individuata “nei simbolici rappresentanti delle forze dell’ordine, articolazione importante dei pubblici poteri, corpo adibito precipuamente a tutelare la sicurezza dello Stato”.
Buona parte del dibattito attorno alla vicenda giudiziaria di Alfredo Cospito, uno degli autori della strage, mi sembra che ometta questa sintetica ricostruzione dell’iter processuale, che invece ritengo rivesta una certa rilevanza rispetto all’applicazione e alla mancata revoca del cd “carcere duro”. Per apprezzarne il peso, tuttavia, bisogna andare oltre le parole che motivano gli atti, solitamente costrette nei presupposti che li legittimano, per cogliere quali siano le tendenze culturali, spesso implicite, che animano la discussione pubblica e, al fondo, le scelte istituzionali.
Il 41 bis è stato introdotto in un periodo emergenziale ma, una volta entrato nell’ordinamento, come molte altre scelte emergenziali, è stato interessato da un processo di normalizzazione come regime detentivo speciale ma non eccezionale. Carcere duro è un’espressione che vuole indicare la rigidità delle regole penitenziarie applicabili a chi vi è sottoposto, ma che al contempo dà l’idea, confermando un’opinione che si è diffusa da tempo (da che si parla di umanizzazione della condizione detentiva), che il resto del carcere, quello “non duro”, non sia più quello di una volta, vale a dire un luogo terrificante che, proprio in quanto incuteva paura tanto a chi è dentro quanto a chi è fuori, creava un effetto di deterrenza e dunque di prevenzione della criminalità. Come se il carcere di una volta (che in gran parte è ancora quello attuale) avesse dimostrato chissà quale efficacia! E come se il carcere di oggi non fosse ancora un luogo di sofferenza.
Circa un secolo di ricerca scientifica ha mostrato tutte le falle di questo modo d’intendere la pena, ma in epoca di paure e di rabbie sociali l’investimento simbolico in un carcere che dismetta i panni del buonismo si fa ancora più deciso. Si potrebbe dimostrare facilmente come la condizione detentiva per la stragrande maggioranza delle persone ristrette nelle sezioni comuni sia ancora come una volta. Se è vero che il carcere dovrebbe essere il luogo in cui stimolare un ripensamento critico rispetto ai reati commessi, chiunque abbia passato un po’ di tempo tra quelle mura sa bene che avviene perlopiù l’esatto contrario: si passa il tempo senza lavorare, senza studiare, senza svolgere alcun tipo di attività (“a oziare”, come si dice da quelle parti) e le uniche parole che si scambiano sono quelle con compagni di cella o di sezione rispetto a quanto sia ingiusto il mondo (della giustizia penale, prima di tutto). Il più delle volte in carcere ci si consolida nei propri vissuti e propositi delinquenziali e proprio la rigidità delle quattro mura ne è la causa: gli stimoli, gli incontri e le esperienze che dovrebbero aiutare a creare nuove immagini di sé sono rari e sfilacciati.
Queste considerazioni sembrano solo di buon senso ma in realtà sono l’esito di un sapere ormai consolidato anche tra gli operatori penitenziari e del terzo settore che, risalendo la corrente, aprono spazi di confronto e opportunità di lavoro. Non sono, tuttavia, argomenti buoni per la politica (non tutta) e per l’opinione pubblica (quasi tutta): si parla di carcere e persino di chi ci lavora, come la polizia penitenziaria, solo quando succede qualcosa di grave. Per il resto, lo slogan “buttare via la chiave” valido per i detenuti si fa presto logos per le stesse carceri: vanno il più possibile rimosse dall’agenda mediatica e politica come corpi estranei alla città.
Il carcere duro, lungi dal rimanere confinato in situazioni eccezionali, è sempre più visto come il “carcere vero”, quello che non cede alle illusioni rieducative di soggetti irrimediabilmente delinquenti. Questo è un nodo decisivo: il 41 bis (insieme al 4 bis sul divieto di concessione di benefici penitenziari per chi si è macchiato di alcuni delitti) fuoriesce dai binari per cui era stato pensato perché è diventato un vero e proprio paradigma penitenziario. Lasciamo pure che la Costituzione continui a indicare la finalità rieducativa delle pene (ma c’è già chi vuole intervenire proprio su questo articolo, stravolgendone il senso), l’importante è ribadire di tanto in tanto che il carcere è e deve rimanere innanzitutto sofferenza, privazione e segregazione, come se in assenza di carcere duro l’intero sistema penale perdesse di senso e di effettività. Proprio in quanto paradigma penitenziario, il 41 bis ha potuto divenire sempre meno eccezionale; proprio in quanto paradigma penitenziario le sue modalità esecutive che ledono diritti fondamentali tendono ad arricchirsi di prescrizioni e regole rimesse discrezionalmente all’amministrazione penitenziaria; proprio in quanto paradigma penitenziario, ci si guarda bene dal riformarne la disciplina per renderlo più stringente nei presupposti, nelle finalità e nelle modalità applicative. Il “carcere duro” è visto come essenziale per fronteggiare fenomeni criminali la cui rilevanza viene certificata dall’allarme che suscitano, dato che il solo carcere non basta più.
Date queste premesse, collocare due ordigni davanti alla Scuola Allievi dei Carabinieri è un fatto grave che deve trovare una risposta forte da parte dello Stato. In prima battuta questa risposta è sembrata al contrario molto debole e quasi irriverente: i tribunali di merito non sono stati disposti a riconoscere la natura politica di attentato alla sicurezza nazionale del fatto commesso, qualificandolo invece come strage comune, con le attenuanti dell’aver prodotto solo danni alle cose. Serviva dare un segnale che indicasse che quel gesto criminale non è stato un fatto qualsiasi, ma un attacco all’ordine della res publica. L’applicazione del 41 bis è stato certamente un segnale forte circa l’attualità del pericolo anarco-insurrezionalista. Dopo qualche mese, la Cassazione ha certificato la gravità del gesto di Cospito, qualificandolo come strage politica. La risposta giudiziaria che ci si aspettava fin dall’inizio è così finalmente arrivata.
La domanda a questo punto è: che senso ha mantenere il 41 bis per Alfredo Cospito? Si risponderà che il provvedimento che lo dispone ha motivazioni specifiche che rendono ancora attuale l’esigenza del “carcere duro” e che le decisioni, tanto quelle ministeriali quanto quelle giudiziarie, non hanno nulla a che vedere con la ricostruzione che ho proposto circa la necessità che lo Stato, in una qualche forma, sancisca la gravità di quanto accaduto. Forse è così. Ma forse dobbiamo anche prendere atto di qualcosa che chi si occupa della giustizia penale sa bene, vale a dire che le pronunce giudiziarie, e a maggior ragione i decreti ministeriali di applicazione del 41 bis, non si producono in un ambiente asettico. C’è una “politicità” delle attività legate alla giurisdizione e alle decisioni amministrative che non significa arbitrarietà e neppure politicizzazione: “dire il diritto” rimane un’attività strettamente connessa con il governo di una società, le cui urgenze, priorità e preoccupazioni vengono filtrate o, per meglio dire, addomesticate dal linguaggio del Diritto e dei diritti.
Senza nulla togliere alla gravità del gesto di Cospito ormai sancita dalla Cassazione dello scorso luglio (2022) – secondo cui, ricordiamolo, non si è trattato di un atto dimostrativo ma di un vero e proprio attentato che mirava a massimizzare il numero di morti – mi pare che sia urgente tornare a un’interpretazione restrittiva dei presupposti del 41 bis rispetto alla vicenda di Cospito: non è troppo tardi e sarebbe bene farlo prima che siano gli organismi sovranazionali a intervenire d’urgenza per indicarci una strada che appare già oggi percorribile.
Sembrano maturi i tempi anche perché lo stesso 41 bis venga ridiscusso dopo quasi quarant’anni dalla sua introduzione nel 1986, dopo trent’anni dall’inserimento (in via provvisoria) del secondo comma a seguito delle stragi di via Capaci e di via D’Amelio del 1992 e dopo vent’anni dalla sua stabilizzazione nell’ordinamento giuridico. Avendo bene in mente di evitare che il “carcere duro” diventi (o torni a essere) il paradigma carcerario del XXI secolo.