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22 Luglio 2024


Le novità della “manovra Nordio” in materia processuale: quando l’ideologia rischia di provocare un’eterogenesi dei fini


1. L’approvazione del d.d.l. A.C. n. 1718 è stata salutata con toni trionfalistici, come se si fosse al cospetto di una riforma profonda ed epocale del sistema di giustizia penale. In realtà, è un provvedimento legislativo molto circoscritto, ma fortemente connotato ideologicamente.

Tanto sul versante sostanziale, sottoposto all’attenzione dell’opinione pubblica e della dottrina soprattutto per la (irragionevole e problematica) abrogazione del reato di abuso d’ufficio[1] e la (discutibile) riperimetrazione del traffico di influenze[2]. Quanto su quello processuale: le modifiche al codice di rito hanno come filo rosso quello di riprendere alcune proposte di riforma emerse nel corso degli anni Novanta e lasciate nel cassetto (perché foriere di insuperabili problemi nella prassi), oppure realizzate ma poi cadute sotto la scure della Corte costituzionale.

Esse ruotano intorno a tre istanze garantiste – la tutela della segretezza delle conversazioni, la tutela della riservatezza dell’indagato e dei soggetti coinvolti nel procedimento penale e la tutela della libertà personale – e ad un’esigenza di riforma delle impugnazioni, che appaiono per lo più condivisibili sul piano teorico: il guaio è che queste sollecitazioni vengono attuate in modo semplicistico con possibili effetti dannosi.

Problemi delicatissimi vengono affrontati con modifiche tecnicamente discutibili e, soprattutto, a senso unico: attraverso disposizioni che, in diversi casi, non tengono in alcun conto il necessario bilanciamento con altre esigenze costituzionalmente rilevanti e non si curano delle indicazioni puntuali offerte in passato dalla Corte costituzionale. La principale preoccupazione che pare aver animato il legislatore è quella di far passare un messaggio politico forte e chiaro senza badare alla praticabilità e alla sostenibilità concreta delle soluzioni, né agli effetti collaterali che i nuovi meccanismi potranno determinare nella prassi. Eppure, durante le numerose audizioni svolte nelle Commissioni giustizia di Senato e Camera, i problemi tecnici e l’incongruenza di alcune scelte erano stati puntualmente prospettati; ma si è preferito soprassedere, nel nome di una semplificazione ideologica che vede ormai la giustizia penale come l’ambito privilegiato nel quale affermare “visioni del mondo”, più che ricercare soluzioni ragionevoli e pragmaticamente orientate a migliorare un servizio in crisi profonda. Insomma, il tempo dei lavori parlamentari è stato sostanzialmente perso – con l’unica eccezione della norma sulla tutela del diritto di difesa –; eppure si trattava di uno dei (rarissimi) casi di un disegno di legge ordinario e non, come accade ormai troppo spesso, della conversione di un decreto-legge. E ciò dovrebbe far riflettere sul procedimento legislativo. Quando conta solo piantare bandierine ideologiche nel corpaccione della giustizia penale, suona blasfema ogni riflessione che scardini la purezza di pensiero nel nome del paradigma della complessità di una materia che è intrinsecamente e necessariamente policentrica. E, allora, si va avanti con soluzioni monodimensionali che rischiano – come si vedrà – di produrre incertezze applicative, problemi di compatibilità costituzionale ed effetti antitetici a quelli perseguiti dal legislatore.

Cinque gli ambiti di intervento della novella, che meritano una trattazione autonoma.

 

2. L’analisi può prendere le mosse dalle modifiche meno problematiche, riguardanti il rafforzamento della tutela della libertà e della segretezza delle comunicazioni del difensore, che trova il suo fondamento ultimo nell’art. 24, comma 2, Cost.  

L’art. 2, comma 1, lett. a persegue tale obiettivo attraverso due interpolazioni all’art. 103 c.p.p.

Con la prima modifica si determina l’innesto di un nuovo comma 6-bis, il quale allarga il raggio di azione del divieto di acquisizione ad «ogni forma di comunicazione, anche diversa dalla corrispondenza, intercorsa tra l’imputato e il proprio difensore, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato». Si tratta di una norma di chiusura che veicola un messaggio importante, peraltro già desumibile dal sistema, la cui portata risulta oggi circoscritta dalla più recente interpretazione della nozione di corrispondenza adottata dalla Corte costituzionale, secondo cui al suo interno va ricondotta «ogni comunicazione di pensiero umano tra due o più persone determinate, attuata in modo diverso dalla comunicazione in presenza»[3].

La seconda interpolazione comporta l’aggiunta di un comma 6-ter all’art. 103 c.p.p., in forza del quale l’autorità giudiziaria o «gli organi ausiliari delegati» sono obbligati a interrompere immediatamente le operazioni di intercettazione ove le conversazioni o le comunicazioni risultino appartenere a quelle vietate. La norma ha recepito un appello avanzato dall’Unione Camere penali e rivolto ai componenti della Commissione giustizia del Senato[4]. Va salutata con favore, almeno sul piano di principio, perché assicura una tutela forte al diritto di difesa, al quale la stessa Costituzione assegna valore preminente. È peraltro dubbia l’effettività dell’obbligo, sino a che non si preveda un dispositivo tecnologico che assicuri la reale interruzione dell’ascolto.  

 

3. Il secondo ambito concerne le misure a tutela della riservatezza in senso lato dei soggetti coinvolti nel procedimento penale, rispetto all’impiego di strumenti di captazione.

Come noto, sul punto, gli interessi che vengono in gioco sono diversi: per un verso, il diritto alla riservatezza dei soggetti coinvolti nelle captazioni e, per l’altro, il diritto di difesa dell’indagato, nonché il diritto-dovere di informare e di essere informati. Equilibrio difficile, tanto che i numerosi disegni di legge puntualmente presentati a ogni legislatura – da governi di diverso colore e dai parlamentari appartenenti ai più svariati gruppi parlamentari – avevano un obiettivo sostanzialmente comune, sia pure espresso con sfumature diverse: quello di garantire «una maggiore tutela del diritto alla riservatezza, che deve riguardare innanzitutto il terzo che entri occasionalmente in contatto con il soggetto da controllare, ma anche lo stesso imputato cui va riconosciuto il diritto di essere garantito contro la divulgazione di notizie che siano del tutto estranee al tema di indagine»[5]; oppure quello «di contemperare le necessità investigative, le esigenze di pubblica informazione in occasione di vicende giudiziarie di pubblico interesse, il diritto dei cittadini a vedere tutelata la loro riservatezza, soprattutto quando estranei al procedimento»[6]; o, ancora, di «contempera[re] le necessità investigative con il diritto dei cittadini a vedere tutelata la loro riservatezza, soprattutto quando estranei al procedimento»[7].  

In questo solco si inserisce la lett. b dell’art. 2 del d.d.l. Nordio, che ha ad oggetto il divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p.p. A venire modificato è, in particolare, il comma 2-bis, che era stato inserito nel 2020 nell’ottica di rafforzare la tutela della riservatezza in senso lato e prevedeva il divieto di «pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi degli articoli 268, 415-bis o 454». L’obiettivo perseguito dalla disposizione era quella di porre una norma speciale contenente un duplice divieto di pubblicazione dei colloqui intercettati. Il primo riguardava tutto il materiale intercettato prima che sia intervenuto lo screening acquisitivo contemplato dagli artt. 268, 415-bis e 454 c.p.p.; il secondo si riferisce invece ai verbali e alle registrazioni che non sono state acquisite (dal giudice o dalle parti) perché ritenute inutilizzabili o irrilevanti[8].

Nella disposizione di nuovo conio, invece, il divieto di pubblicazione delle conversazioni intercettate assume portata generale, con l’unica eccezione rappresentata dal caso in cui il contenuto dell’intercettazione sia stato «riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento».

La soluzione di vietare la pubblicazione di intercettazioni che, a valle dello stralcio, vengono valutate come non irrilevanti e che sono pertanto trascritte e inserite nel fascicolo per il dibattimento (art. 268, comma 7, c.p.p.) suscita più di qualche perplessità, perché sembra sacrificare in modo irragionevole il diritto alla cronaca e la libertà di stampa sull’altare del diritto alla riservatezza[9]. Una volta entrate nel perimetro degli atti processuali conoscibili dal giudice non possono che prevalere quelle «esigenze di trasparenza e di controllo sociale sullo svolgimento della vicenda processuale»[10], che stanno al fondamento della divulgabilità degli atti inseriti nel fascicolo per il dibattimento. A prescindere dalla circostanza che siano state evocate o meno dalle parti oppure che siano state citate dal giudice.

Sotto il primo profilo, si fa difficoltà a capire il senso dell’utilizzo nel corso del dibattimento[11]: il che è grave – soprattutto in termini di legalità sostanziale – se solo si considera che l’art. 114 c.p.p. contribuisce a tratteggiare indirettamente i confini della fattispecie incriminatrice dell’art. 684 c.p. 

Con riguardo, invece, alle intercettazioni citate dal giudice, viene ovviamente in rilievo anche la motivazione dell’ordinanza cautelare: per queste è (giustamente) assicurata l’immediata divulgabilità. Ma anche riguardo all’ordinanza cautelare, le esigenze fondamentali di controllo democratico della giustizia da parte del popolo sottese alla pubblicità mediata saranno destinate al sacrificio se verrà data attuazione alla delega contenuta nell’art. 4 della legge n. 15 del 2024 (legge di delegazione europea 2022-2023): come noto, tale disposizione attribuisce al Governo il potere di modificare l’art. 114 c.p.p., prevedendo il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell’ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare.

Di pari passo con la modifica dell’art. 114 c.p.p. si pone l’addenda all’art. 116, comma 1, c.p.p. (art. 2, comma 1, lett. c). Alla previsione, che assicura la facoltà per chiunque vi abbia interesse di ottenere, nel corso del procedimento e dopo la sua definizione, copie, estratti e certificati di singoli atti, si aggiunge una specificazione. In ogni caso – stabilisce la disposizione di nuovo conio – è precluso il rilascio delle copie delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ai sensi del novellato comma 2-bis dell’art. 114 c.p.p., laddove l’istanza provenga da un soggetto diverso dalle parti o dai relativi difensori. È fatta comunque salva l’ipotesi in cui sussista l’esigenza, motivata nell’apposita richiesta, di impiegare «i risultati delle intercettazioni in altro procedimento specificamente indicato».

Due novità sono inoltre apportate in tema di esecuzione delle operazioni di intercettazione ex art. 268 c.p.p., mosse da un’esigenza di tutela della riservatezza dei terzi.

La prima si inserisce nel solco già tracciato dal d.l. 10 agosto 2023, n. 105, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 ottobre 2023, n. 137. A seguito di quest’ultima novella, l’art. 268, comma 2, c.p.p. prevede che, nel verbale, sia trascritto, anche sommariamente, «soltanto il contenuto delle comunicazioni intercettate rilevante ai fini delle indagini, anche a favore della persona sottoposta ad indagine». Per converso, non va trascritto il contenuto non rilevante e nessuna menzione ne può essere fatta nei verbali e nelle annotazioni di p.g., nei quali deve essere apposta la formula “la conversazione omessa non è utile alle indagini”. Sempre a valle dell’intervento del 2023, in base al comma 2-bis dell’art. 268 c.p.p., il pubblico ministero è tenuto a dare indicazioni e a vigilare affinché la redazione dei verbali sia in linea con il comma 2 e non vengano riportate «espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori», a meno che esse siano rilevanti per le indagini. Ebbene, il nuovo art. 2, comma 1, lett. d, n. 1 tiene conto delle recenti modifiche ed estende il dovere di vigilanza della pubblica accusa in modo tale che non siano riportate nemmeno le espressioni «che consentono di identificare soggetti diversi dalle parti».

La seconda interpolazione all’art. 268 c.p.p. è correlata a quella appena analizzata. Al potenziamento del dovere di vigilanza del pubblico ministero a tutela dei terzi si affianca un ampliamento del dovere del giudice di stralcio. In particolare, l’art. 2, comma 1, lett. d, n. 2 interpola il comma 6 dell’art. 268 c.p.p., stabilendo un obbligo di stralcio delle registrazioni e dei verbali che attengono a «soggetti diversi dalle parti», fermo restando il caso in cui ne sia dimostrata la rilevanza.

Sempre nell’ottica della protezione della riservatezza del terzo estraneo al procedimento vanno lette le modifiche agli artt. 291 e 292 c.p.p. Rispetto all’art. 291 c.p.p., l’art. 2, comma 1, lett. e, n. 1 interviene sul comma 1-ter, che consente, quando necessario, alla pubblica accusa di riprodurre nella richiesta di applicazione della misura cautelare solo i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate. Per effetto della novella, in tal caso, è comunque impedita la possibilità di «indicare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione». Analogamente, viene modificato l’art. 292 c.p.p., precludendo al giudice di riportare nell’ordinanza applicativa della misura cautelare la stessa tipologia di dati, a meno che – di nuovo – questo «sia indispensabile per la compiuta esposizione degli elementi rilevanti» (art. 2, comma 1, lett. f, n. 2).

Chiude il quadro la modifica all’art. 89-bis, comma 2, disp. att. c.p.p. riguardante l’archivio delle intercettazioni. In forza dell’art. 3 della normativa di nuova fattura, tale archivio deve essere gestito in modo tale da garantire la segretezza anche della documentazione concernente le intercettazioni relative ai dati personali dei terzi.    

In definitiva, si tratta di norme che non aggiungono molto, se si considera che il divieto di trascrizione dei terzi potrà essere superato valorizzando la clausola della rilevanza ai fini delle indagini. Ed esse appaiono anche sostanzialmente inutili: per un verso, è ben noto che i problemi attinenti alla diffusione di contenuti riservati si verificano a seguito del sequestro dei cellulari o di dispositivi che contengono le informazioni più riservate e su questo profilo non si prevede alcunché; per altro verso, la materia della diffusione indebita di informazioni captate ha a che fare con il tema centrale dei canali informativi e dei presidi sanzionatori posti a salvaguardia delle regole che definiscono l’assetto dei rapporti tra i diversi valori in gioco.

Sotto il primo profilo, sarebbe importante introdurre meccanismi che consentano al giornalista di accedere liberamente e in modo trasparente alle intercettazioni rilevanti e pubblicabili[12]. Quanto ai presidi sanzionatori, invece, è ben noto che il codice penale pone una disciplina ritenuta da tempo assolutamente inadeguata: ma occorrerebbe affrontare la tematica ripensando in modo equilibrato all’intero sistema sanzionatorio, non solo ridefinendo la fattispecie di reato dell’art. 684 c.p., ma immaginando anche sanzioni interdittive e amministrative affidate al Garante della privacy. Solo così si potrà superare «l’imbarazzante immagine di un ordinamento che, mentre pone un divieto, sembra strizzare l’occhio agli eventuali trasgressori prevedendo per la sua inosservanza il “buffetto sanzionatorio” di una contravvenzione oblazionabile (art. 684 c.p.)»[13]. Ma nulla di tutto ciò si trova nel cd. decreto Nordio, che perpetua l’errore – già fatto dalle precedenti manovre – di circoscrivere l’intervento al codice di rito.  

 

4. Sempre ispirata all’esigenza di tutela della riservatezza dell’indagato è la terza linea di intervento, riguardante l’informazione di garanzia. L’art. 2, comma 1, lett. n modifica l’art. 369 c.p.p. in tre direzioni.

Anzitutto, la novella interpola il comma 1 e, inaugurando una tecnica normativa che potremmo definire “funzionalista”, chiarisce la finalità dell’istituto: si tratta di atto che va inviato «a tutela del diritto di difesa». Per la verità, non risultavano teorizzazioni in senso diverso. I problemi sono sorti sul piano della prassi con una strumentalizzazione dell’atto in chiave colpevolista, soprattutto da parte dei mass media; il legislatore ritiene però utile un approccio pedagogico. Poco male perché non cambia nulla. Più rilevante, sul piano sistematico, la scelta di estendere il contenuto del corredo informativo, comprendendovi anche «la descrizione sommaria del fatto» (art. 2, comma 1, lett. n, n. 1): essa finirà verosimilmente per incidere sulla natura dell’atto. Non si dimentichi che l’inserimento nell’informazione di garanzia di una sommaria enunciazione, pur proposto durante i lavori parlamentari del nuovo codice, era stato ragionevolmente escluso proprio perché essa avrebbe finito per equiparare l’informazione di garanzia a una formale contestazione del reato, mentre essa può intervenire anche nelle fasi iniziali delle indagini. Proprio fondandosi sull’assenza di una descrizione del fatto, le Sezioni Unite ne avevano fornito una lettura dell’informazione di garanzia come di atto con funzione conoscitiva essenziale[14]; d’altro canto, esso è inserito in un sistema di atti informativi tutto sommato razionale perché caratterizzato da una progressione del dettaglio dell’informazione: nell’informazione di garanzia si era opportunamente inserito un collegamento sistematico con l’art. 335, comma 3, c.p.p. (e, per fornire concretezza a tale rinvio, il d.lgs. 150/2022 aveva previsto l’indicazione nel registro delle circostanze di tempo e di luogo del fatto); mentre l’enunciazione dell’addebito veniva riservata all’avviso che si situa alla conclusione delle indagini. Per dare ulteriore effettività al sistema si sarebbe potuto intervenire sull’art. 335 c.p.p., magari eliminando il paradosso del diniego della comunicazione per i reati più gravi o nei casi di segretazione operata dal pubblico ministero, nell’ipotesi di richiesta qualificata, ossia avanzata dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia. Si è voluto invece modificare direttamente il contenuto dell’informazione di garanzia con il buon proposito di elevarne la potenzialità informativa, ma con un rischio elevato di eterogenesi dei fini: la prassi insegna che, nonostante gli avverbi (inseriti in Costituzione) e le modifiche relative alle modalità della notificazione (previste dalla stessa manovra), difficilmente l’atto verrà sottratto agli organi di informazione. I quali potranno disporre, fin dall’inizio delle indagini, di una succulenta enunciazione del fatto. Per evitare un tanto, nella prassi si finirà per interpretare la sommarietà della descrizione in maniera rigorosa. Ma allora non sarà cambiato molto rispetto ad oggi.

In secondo luogo, come ricordato, l’intervento aggiunge un ulteriore comma all’articolo in esame, concernente la notificazione dell’informazione di garanzia (art. 2, comma 1, lett. n, n. 2). Sullo sfondo, milita l’intento di far sì che «la notificazione avvenga con modalità che tutelino l’indagato da ogni conseguenza impropria» (in questi termini la relazione al d.d.l. n. 808, Senato della Repubblica, XIX Legislatura, p. 8). In particolare, il nuovo comma 1-quater prevede che la notificazione dell’informazione di garanzia possa essere eseguita dalla polizia giudiziaria al cospetto «di situazioni di urgenza che non consentono il ricorso alle modalità ordinarie». Questo, in deroga al dettato dell’art. 148, comma 6, secondo periodo, c.p.p., che fissa la regola secondo cui la polizia giudiziaria può procedere alle notificazioni richieste dal pubblico ministero in presenza di atti di indagine o di provvedimenti che la medesima «è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire». Il novum normativo stabilisce, poi, che, laddove intervenga la polizia giudiziaria, la consegna debba svolgersi «in modo tale da garantire la riservatezza del destinatario». Il che pare implicare un obbligo in capo ai notificatori di non utilizzare «mezzi o segni capaci, di per sé soli, di rendere palese il carattere penale della notifica loro affidata»[15]. In ogni caso, la nuova previsione ribadisce l’osservanza del disposto dell’art. 148, comma 8, secondo periodo, c.p.p., riguardante l’ipotesi di notifica che non può essere eseguita a mani proprie del destinatario.

La terza, e ultima, modifica all’art. 369 c.p.p. si inserisce nuovamente nella logica di tutela della riservatezza (art. 2, comma 1, lett. n, n. 2). Con l’aggiunta di un nuovo comma 1-quinquies, si estende l’operatività del divieto attenuato di pubblicazione di cui all’art. 114, comma 2, c.p.p. all’informazione di garanzia. Quest’ultima disposizione, come noto, osta alla pubblicabilità degli «atti non più coperti dal segreto» fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare. Esplicitandone l’applicabilità all’informazione di garanzia, il legislatore, pur non prendendo esplicita posizione in merito alla discussa natura dell’atto in questione (qualificabile o meno come “atto di indagine” ex art. 329, comma 1, c.p.p.)[16], sembra aver negato la sua riconducibilità nell’orbita degli atti sottoposti al regime dell’art. 114, comma 2, c.p.p. Da un tanto ne consegue, per converso, che i conditores abbiano implicitamente escluso dall’ambito di operatività della disposizione gli “atti ab origine non segreti”.

Ad ogni modo, la novella non sembra capace di raggiungere lo scopo prefissato, ovverosia quello di eliminare alla radice la prassi deviante in base alla quale l’indagato giunge a conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico non a seguito di una comunicazione giudiziaria ufficiale, bensì dalla lettura di un quotidiano, con buona pace del diritto di essere informati «riservatamente» dell’accusa (art. 111, comma 3, Cost.). Il combinare congiunto del secondo e del settimo comma dell’art. 114 c.p.p., infatti, benché osti, alla luce della nuova normativa, alla pubblicazione testuale dell’informazione di garanzia fino alla conclusione delle indagini preliminari, consente comunque la pubblicazione del suo contenuto (oggi, come si ricordava, potenzialmente più dettagliato)[17].

Ma il profilo più delicato deriva dal fatto che il legislatore non ha improvvidamente specificato alcunché in merito al termine a decorrere dal quale deve operare il divieto di pubblicazione attenuato: un ragionevole punto di equilibrio tra il diritto di essere informati «riservatamente» delle accuse a proprio carico e il diritto di cronaca giudiziaria avrebbe suggerito di eliminare ogni incertezza sulla natura segreta dell’informazione di garanzia – magari intervenendo direttamente sull’art. 329 c.p.p. e rendendo quindi poi applicabile l’art. 114, comma 1, c.p.p. – prima dell’effettiva conoscenza in capo al destinatario. Ciò che non è avvenuto: con il rischio che il richiamo al mero art. 114, comma 2, c.p.p. finisca per avvalorare proprio quelle esegesi che vorrebbero rendere legittimamente pubblicabile, nel suo contenuto, l’atto in parola fin dal momento in cui esso “viene ad esistenza” e assume, dunque, una rilevanza giuridica. Anche sul punto, l’intervento non solo non è risolutivo, ma rischia di fornire argomenti alle esegesi meno garantiste; con il risultato che il riformatore che si ispira a Montesquieu[18], per conseguire effettivamente gli obiettivi garantisti, dovrà affidarsi a un’interpretazione costituzionalmente orientata da parte della giurisprudenza che – ricomprendendo l’informazione di garanzia tra gli atti di indagine – ne assicuri la segretezza almeno fino alla consegna all’indagato.

 

5. Il d.d.l. A.C. n. 1718 interviene poi sul procedimento cautelare, introducendo un duplice ordine di novità (contenute nell’art. 2, lett. e-m), che segnano la ricomparsa sulla scena di idee e progetti al centro del dibattito da più di trent’anni fa.

Per un verso, l’introduzione di un interrogatorio anticipato rispetto all’emissione del provvedimento; per altro verso, la configurazione collegiale del giudice della custodia cautelare in carcere. Nulla di nuovo sotto il sole: la Commissione Riccio, nel 2006, aveva infatti coltivato «l’idea e l’auspicio che la nuova delega potesse portare a compimento il lungo percorso delle “misure cautelari” e, quindi, alla collegialità del giudice e all’ascolto della persona prima dell’adozione della misura»[19]. Non a caso, nessun legislatore aveva poi dato attuazione a tali idee, che appaiono suggestive in teoria, ma di difficile praticabilità nell’assetto concreto del nostro ordinamento.

 

5.1. Quanto alla prima proposta, si prevede l’anticipazione dell’interrogatorio di garanzia – attualmente contemplato solo riguardo alle ipotesi di cui all’art. 289, comma 2, c.p.p. – a tutti quei casi in cui sussista l’esigenza cautelare di cui all’art. 274, lettera c), con l’esclusione però dei delitti indicati all’art. 407, comma 2, lettera a), c.p.p. o all’art. 362, comma 1-ter, c.p.p. ovvero a gravi delitti commessi con uso di armi o con altri mezzi di violenza personale[20].

Come ricordato, l’idea del cd. contraddittorio anticipato è ricorrente nella riflessione dei processualpenalisti. Se ne discusse a livello dottrinale a metà degli anni Novanta[21] – tanto da aver condotto all’introduzione, nel 1997, del ricordato meccanismo dell’art. 289, comma 2, c.p.p. – e fu, per l’appunto, poi prospettata nei lavori della Commissione Riccio[22].

In linea teorica, l’obiettivo perseguito dall’interpolazione normativa non può che essere condiviso[23]: non vi è dubbio che assicurare un confronto preventivo permetterebbe alla difesa di veicolare al giudice, anteriormente all’applicazione della misura, argomenti a sostegno dell’innocenza o comunque dell’insussistenza dei presupposti per l’adozione della misura in modo effettivo, senza doversi affidare all’onere del pubblico ministero (ex artt. 358 e 291 c.p.p.) o all’(improbabile)iniziativa del deposito preventivo al buio contemplato dall’art. 391-octies c.p.p.; in secondo luogo, libererebbe lo stesso giudice dal pregiudizio psicologico rappresentato dall’aver già adottato una misura. Insomma, un reale contraddittorio anticipato è una via ragionevole per rafforzare l’imparzialità e la terzietà del giudice per le indagini preliminari.

Il problema è che, se si passa dal piano delle affermazioni teoriche a quello relativo alla disciplina di un meccanismo destinato a operare nell’ambito delle indagini preliminari, ci si rende conto della notevole difficoltà di plasmare un istituto in grado di contemperare in modo soddisfacente e ragionevole le diverse esigenze che vengono in rilievo. D’altronde, se ne era reso conto lo stesso legislatore del 1988: come si è puntualmente ricordato, nel corso dei lavori preparatori, la proposta di introdurre un contraddittorio anticipato sul modello francese era stata abbandonata perché si immaginava che la comparizione dell’indagato dovesse avvenire in stato di fermo; il che avrebbe finito per ampliare l’incidenza dei casi di restrizione provvisoria della libertà[24].

Il punto è esattamente questo: l’essenza della misura cautelare è di essere un provvedimento “a sorpresa”. E, si badi, ciò non riguarda solo l’efficacia intrinseca, legata alla neutralizzazione delle esigenze cautelari, ma anche quella che si riferisce ai mezzi di ricerca della prova (si pensi, in particolare, alle perquisizioni) che vengono adottati in occasione dell’esecuzione della misura cautelare e, specificamente, della misura della custodia cautelare in carcere (art. 352, comma 2, c.p.p.).

Ebbene, il primo profilo ha portato il riformatore a escludere espressamente l’anticipazione del contraddittorio quando vengono in rilievo le esigenze di cui alle lett. a e b dell’art. 274, le quali per definizione richiedono l’assenza di previa comunicazione all’interessato, a meno di non vanificarne completamente il senso. La seconda considerazione ha verosimilmente indotto a negare l’applicazione del meccanismo nei casi di reati più gravi.

Ne risulta che la formulazione normativa appare truffaldina e irragionevole. Essa annuncia l’anticipazione del contraddittorio come regola, mentre ha natura di eccezione molto limitata. Quest’ultimo avrà un’applicazione residuale[25], posto che non si estende alle misure interdittive; ma soprattutto perché opera solo nel caso in cui venga in rilievo l’esigenza di cui alla lett. c, con l’esclusione però dei reati più gravi. Con effetti paradossali: per i reati meno gravi per i quali vengono disposte le misure interdittive non opera (salvo quanto previsto dall’art. 289 c.p.p.); si applica per i reati intermedi, mentre non opera per quelli più gravi, ossia quelli indicati nell’art. 407, comma 2, lett. a o nell’articolo 362, comma 1-ter, ovvero a gravi delitti commessi con uso di armi o con altri mezzi di violenza personale (indicazione, quest’ultima, che risulta assai ambigua)[26].

A ben considerare, dunque, l’impressione è quella di un istituto bandiera al quale non crede sino in fondo neanche il legislatore: lo inserisce nell’ordinamento, ma si premura di circoscriverne la portata solo ad alcune, limitate, ipotesi. E, in effetti, i difetti procedurali del congegno sono tali che si comprende e si condivide la cautela adottata dal riformatore. Se ne segnalano solo alcuni.

Il primo aspetto critico deriva dalla mancata considerazione degli interessi sottesi alla configurazione tradizionale dell’ordinanza cautelare come misura a sorpresa (anche qualora adottata per fronteggiare l’esigenza di cui all’art. 274, comma 1, lett. c): se dopo l’interrogatorio il giudice si convince della necessità di applicare la misura ritenendo sussistenti i gravi indizi di colpevolezza e concreto e attuale il pericolo di commissione di gravi delitti, cosa deve fare? Chiederà all’indagato di accomodarsi in corridoio nell’attesa della stesura della motivazione oppure si congederà con una pacca sulla spalla e la raccomandazione di comportarsi bene per qualche giorno, in attesa della possibile esecuzione del provvedimento?

Il secondo paradosso deriva dal confronto con l’interrogatorio di garanzia disciplinato dall’art. 294 c.p.p.: se in quest’ultimo caso è (giustamente) prevista la presenza obbligatoria del difensore, viene da domandarsi per quale ragione questa non sia richiesta nel nuovo istituto[27]. La scelta sembra aprire a possibili questioni di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 e dell’art. 24, comma 2, Cost.

Il terzo problema nasce dalla circostanza che il disegno di legge non stabilisce affatto un termine dilatorio minimo per la celebrazione dell’interrogatorio: di regola sarà di cinque giorni, ma si attribuisce al giudice la facoltà di abbreviare il termine per ragioni d’urgenza, «purché sia lasciato il tempo necessario per comparire» (art. 291, comma 1-sexies). Come si può intuire, si tratta di un assetto che non garantisce assolutamente alla difesa un arco temporale minimo per studiare gli atti: con il risultato, facilmente pronosticabile (se solo si pensa all’esperienza applicativa dell’art. 104 c.p.p.), che aumenterà la propensione dell’indagato ad avvalersi della facoltà di non rispondere (vista l’utilizzabilità in dibattimento delle eventuali dichiarazioni). E si finirà per abbassare il grado effettivo di tutela della libertà personale.

Ancora: nel definire la sussistenza in concreto del presupposto per l’attivazione o la non attivazione del contraddittorio non si comprende bene se ci si debba basare sulla richiesta del pubblico ministero o sull’autonomo vaglio del giudice. La disposizione è assai ambigua, dal momento che si riferisce alla generica “sussistenza” di determinate esigenze cautelari[28].

Tanto basta per rendersi conto che il congegno – pur apprezzabile sul piano dei propositi astratti – finirà per generare una serie di problemi applicativi e di paradossi. Il che fa sorgere il sospetto che l’inconfessabile intento del legislatore fosse quello di rendere talmente complesso e incerto il meccanismo da evitare che il pubblico ministero possa chiedere la misura per neutralizzare il pericolo di commissione di gravi delitti della stessa indole. A ben pensarci, era l’obiettivo perseguito dai promotori del referendum con il quale, nel 2022, alcune forze politiche – parte dell’attuale maggioranza – avevano proposto ai cittadini di abrogare l’inciso contenuto alla lett. c dell’art. 274 c.p.p., nella parte in cui consente l’applicazione di misure cautelari in caso di sussistenza del pericolo di commissione di nuovi reati della «stessa specie di quello per cui si procede»[29]. Preso atto dell’impossibilità di eliminare la norma – per mancato raggiungimento del quorum ieri e per l’inesistenza di un accordo politico tra le forze di maggioranza oggi – si prova a neutralizzarne la portata applicativa prevedendo un procedimento confuso.  

In definitiva, l’impressione è che la delicatezza della materia avrebbe richiesto un intervento assai più articolato e di respiro sistematico: se si reputa fondamentale affermare il contraddittorio quale strumento essenziale per assicurare la terzietà del giudice e, con essa, una migliore qualità della decisione e una più effettiva tutela della libertà personale (prospettiva che mi pare ragionevole e da condividere), occorre altresì predisporre un meccanismo di restrizione provvisoria della libertà[30] – che salvaguardi l’efficacia diretta e indiretta della misura – e la celebrazione di una vera e propria udienza. Ma gli spazi sarebbero molto stretti, se si considerano i vincoli temporali assai rigorosi previsti dalla Costituzione e l’obbligo di corredare il provvedimento restrittivo di motivazione. E le difficoltà di attuazione sarebbero notevoli, se si pensa al rischio (concreto) di un allungamento dei tempi tecnici per celebrare l’udienza in contraddittorio e alla gestione di un tale meccanismo nei casi di procedimenti cumulativi, con molti indagati. Per di più, una volta che si assicurasse un effettivo contraddittorio anticipato, andrebbe ripensato anche il rimedio del riesame, che oggi presenta la natura di gravame puro proprio per consentire un recupero postumo di un reale ed effettivo contraddittorio.

 

5.2. La seconda modifica rilevante in materia cautelare si muove nella direzione di introdurre un giudice collegiale quale autorità competente ad adottare la misura cautelare più grave: si prevede anzitutto di introdurre un comma 1-quinquies all’art. 328 c.p.p. in forza del quale «il giudice per le indagini preliminari decide in composizione collegiale l’applicazione della misura della custodia cautelare in carcere». Di conseguenza, si introducono novità per quel che riguarda la decisione sull’istanza di modifica in peius (con un’interpolazione dell’art. 299, comma 2, c.p.p.) e sulla competenza funzionale a compiere l’interrogatorio preventivo (art. 291, comma 1-quinquies) e quello di garanzia (art. 294, comma 1).

Per la verità, anche questa idea non è affatto nuova. Già nel 1991 un autorevole studioso sosteneva che, per l’applicazione di misure restrittive della libertà personale, «parrebbe appropriato l’intervento già in prima istanza di un giudice collegiale»[31].

Nondimeno, l’idea suscita più di qualche riserva, sia per ragioni sistematiche, sia per come è costruita nel dettaglio, sia per considerazioni di ordine pratico.

Sul primo versante, anzitutto, si espone a censure di manifesta contraddittorietà e incoerenza un sistema processuale (come quello risultante dall’approvazione della novella) nel quale un giudice monocratico può adottare una pronuncia di condanna fino a dieci anni di reclusione e, al contempo, gli si preclude la possibilità di applicare una misura cautelare, che è per definizione provvisoria e, per di più, è soggetta – grazie al riesame – a una completa rivalutazione da parte di un organo collegiale in tempi molto stretti[32].

In secondo luogo, viene da chiedersi se l’adozione di un provvedimento restrittivo da parte di un “collegio di triumviri”, eventualmente confermata in sede di riesame, non rischi di cristallizzare un pesante pregiudizio di colpevolezza nel successivo giudizio di merito, in specie se svolto nelle forme della citazione diretta[33]. Ancora una volta, si può ipotizzare un’eterogenesi dei fini: si interviene con l’obiettivo – più volte proclamato dal Ministro Nordio – di «portare a compimento l’opera di Giuliano Vassalli e rendere reale il principio del processo accusatorio»[34] e si otterrà che, nella prassi, l’esito dei processi per i reati più gravi con imputato in vinculis rischierà di essere fortemente condizionato da una decisione fondata su elementi probatori raccolti nel segreto dell’indagine.

Per altro verso, sembra che l’articolato presenti alcuni profili di incoerenza. In particolare, nulla si prevede per la decisione sulla revoca di una misura disposta dal collegio: il che significa che un giudice singolo potrebbe smentire il giudice collegiale[35]. Ma ancora: se la collegialità è un valore (e indubbiamente, in astratto, lo è) perché limitarla all’applicazione della misura custodiale durante le indagini preliminari, per escluderla invece nelle fasi successive? E, soprattutto, perché circoscriverla alla custodia cautelare in carcere, escludendo altre misure custodiali (quali la custodia in luogo di cura e gli arresti domiciliari) che, nel sistema del codice, le sono equiparate sul versante degli effetti (termini massimi, computo nella sanzione)? L’unica spiegazione sta in una considerazione pragmatica di sostenibilità della misura: se si guarda ai dati, infatti, emerge che la misura della custodia cautelare in carcere presenta numeri assai rilevanti (24.654 misure nel 2022) e, se si estendesse agli arresti domiciliari, si aggiungerebbe un ulteriore carico cospicuo (19.864 provvedimenti nel 2022). A questa si aggiunge un obiettivo (ancora una volta non confessabile) che la norma evidentemente persegue sul piano pratico, ossia spingere i pubblici ministeri a chiedere la misura degli arresti domiciliari in luogo della custodia in carcere proprio per evitare la competenza del collegio. Verosimilmente, in tal modo si mira a raggiungere il risultato (in sé meritorio) di ridurre la pressione sulle case circondariali.

Il problema allora si sposta sul prezzo assolutamente insostenibile della novità.

L’introduzione di un giudice della cautela in composizione collegiale pare difficilmente sostenibile da un punto di vista eminentemente pratico-organizzativo[36]. A causa delle ben note carenze di organico, saranno difficilmente superabili, specialmente nei tribunali aventi dimensioni più ridotte, i problemi di incompatibilità ex art. 34 c.p.p., a nulla rilevando il meccanismo tabellare infradistrettuale predisposto a riguardo dallo stesso d.d.l. A.C. n. 1718[37]. Certo, l’art. 5 del d.d.l. A.C. n. 1718 prevede un aumento di organico della magistratura di 250 unità; tuttavia il problema è che esso non è destinato solo agli uffici g.i.p.-g.u.p., ma genericamente alle funzioni giudicanti di primo grado.

Peraltro, non si può sottacere che l’attribuzione di tale (gravosa) funzione in capo all’ufficio g.i.p. andrebbe a sommarsi alle numerose incombenze già affidate al giudice della fase preliminare dalla riforma Cartabia – solo la modifica dello standard probatorio per l’archiviazione e il non luogo a procedere da parte del d.lgs. 150/2022, se preso sul serio, richiede un maggiore impegno da parte del giudice della fase preliminare – e alle ulteriori competenze funzionali che gli sono già state assegnate e che gli potrebbero essere assegnate con riferimento ai mezzi di prova tecnologici, tenuto conto della recente giurisprudenza della Corte di giustizia. Si pensi alla modifica dell’art. 132 del d.lgs. 196 del 2033, introdotta dal decreto-legge 30 settembre 2021, n. 132, convertito in legge n. 178 del 2021, oppure alle prospettive che si aprirebbero con il d.d.l. S. n. 806, recante “Modifiche al codice di procedura penale in materia di sequestro di dispositivi, sistemi informatici o telematici o memorie digitali”, approvato dal Senato della Repubblica.

Siccome le risorse umane – sia di giudici, che di cancellieri – e materiali non sono infinite, sembra irrealistico introdurre un ulteriore aggravio in termini di carico di lavoro per un ufficio che ha un ruolo crescente e sempre più decisivo, sia per assicurare effettività alle garanzie dell’indagato e dei terzi rispetto ai mezzi di prova tecnologici, che per garantire la tenuta dell’intero sistema processuale e il raggiungimento degli obiettivi del P.N.R.R. Ma, ancora una volta, è lo stesso legislatore a sembrare pienamente consapevole dell’insostenibilità pratica delle sue stesse proposte; per fortuna, l’operatività della competenza collegiale viene rinviata di due anni dall’entrata in vigore della legge. Sarà poi compito dei tradizionali mille-proroghe proiettare nel futuro – e, auspicabilmente, nel futuro del mai – questa irragionevole e asistematica modifica.

 

6. Il quinto ambito di intervento è quello relativo alle impugnazioni. Due sono i versanti specificamente toccati dalla manovra.

Da un lato, l’art. 2, lett. o introduce una controriforma rispetto al d.lgs. n. 150/2022 in materia di disciplina generale delle impugnazioni. Accogliendo le richieste avanzate a più riprese dall’Unione Camere penali[38], il Parlamento ha abrogato anzitutto l’art. 581, comma 1-ter, c.p.p. che aveva introdotto l’onere delle parti private e dei difensori che impugnano di depositare la dichiarazione o elezione di domicilio. Si trattava di una norma volta a responsabilizzare l’impugnante nell’ottica di una migliore organizzazione del giudizio di impugnazione[39]; ma la responsabilizzazione delle parti, in Italia, fatica a farsi strada. In secondo luogo, la novella ha circoscritto al solo difensore d’ufficio dell’assente la portata dell’onere, imposto dall’art. 581, comma 1-quater, c.p.p., di deposito di uno «specifico mandato ad impugnare, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza e contenente la dichiarazione o l’elezione di domicilio dell’imputato, ai fini della notificazione del decreto di citazione a giudizio». Sul punto, l’Unione Camere penali avrebbe voluto l’abrogazione della norma; invece, il legislatore l’ha circoscritta alla sola ipotesi di difesa d’ufficio, ossia quella in cui il rapporto tra imputato e difensore è verosimilmente più labile. Resta la perplessità di fondo rispetto a un ordinamento che, dopo aver riformato l’assenza per assicurare che si proceda solo nel caso in cui l’imputato sia a conoscenza del processo, finisce per consentire a questi di disinteressarsi del tutto del suo processo.

Dall’altro lato, l’art. 2, lett. p ritorna sull’annoso tema dell’appello del pubblico ministero, stabilendo che, «all’articolo 593, comma 2, il primo periodo è sostituito dal seguente: «Il pub­blico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2».

Sia chiaro, a trentacinque anni dall’introduzione di un modello tendenzialmente accusatorio, una riforma organica dell’appello sarebbe assolutamente necessaria. Non a caso, l’aveva prospettata la Commissione Lattanzi, che, tenendo conto dell’evoluzione della giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, nonché delle modifiche normative introdotte nel corso degli anni, aveva avanzato una proposta innovativa, tesa a sciogliere definitivamente le ambiguità dell’appello penale. In linea con le carte internazionali, questo sarebbe stato ridefinito quale strumento di controllo nel merito della sentenza di primo grado attivabile solo dall’imputato per una serie di ragioni prestabilite dalla legge[40]. La trasformazione dell’appello in un rimedio a critica vincolata a tutela del diritto di difesa avrebbe avuto diversi pregi: quello di riaffermare la centralità del giudizio di prime cure, in linea con lo statuto costituzionale del processo penale, che ruota attorno al contraddittorio nella formazione della prova; quello di responsabilizzare il pubblico ministero e lo stesso giudice e di scardinare un approccio – figlio della tradizione inquisitoria, ma ancora assai radicato – che porta a concepire il processo penale come una reiterazione di giudizi di merito che perfezionano progressivamente il prodotto giurisprudenziale; infine, quello di superare le distorsioni conseguenti all’appello del pubblico ministero, rappresentate dall’istituto della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale[41].

Purtroppo, quella proposta è stata abbandonata per le critiche corporative incrociate, provenienti tanto dall’avvocatura, quanto dalla magistratura. Il risultato è il d.d.l. Nordio, che non c’entra assolutamente nulla con la proposta organica avanzata dalla Commissione Lattanzi: se ne è parlato come di una riforma che opera «in modo chirurgico»[42]; ci pare, invece, che la manovra intervenga in materia di appello in maniera approssimativa e semplicistica.

Il dettato letterale del nuovo art. 593, comma 2, c.p.p. è tale da far pensare che il legislatore sia incorso in una macroscopica aberratio ictus: si voleva eliminare il solo potere del pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal tribunale monocratico, ma si sarebbe invece escluso tout court il potere di appellare avverso qualsiasi sentenza liberatoria. Invero, si è infatti cancellata la proposizione normativa che stabiliva che «il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di proscioglimento». E ciò non può che avere un significato in un ordinamento, come il nostro, ispirato al canone di tassatività in senso soggettivo, in cui l’art. 568, comma 3, c.p.p. statuisce che «il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce [corsivo aggiunto]». A rigore, non vi è più una norma che attribuisce espressamente al pubblico ministero il potere di appellare le sentenze di proscioglimento. Certo, si potrà ricavare tale potere indirettamente ed implicitamente dalla nuova specificazione, la quale non avrebbe senso se non permanesse il potere di appellare le altre sentenze di proscioglimento. Sicuramente è la soluzione più ragionevole e coerente con l’intenzione del legislatore[43]; ma ci si dovrà affidare a un’interpretazione correttiva da parte della giurisprudenza. Il che stupisce un po’ se si pensa che gli artefici della riforma “liberale” sono gli ultras della stretta legalità processuale.

Ancora: nulla dice il legislatore della legittimazione del pubblico ministero ad appellare le sentenze di assoluzione pronunciate all’esito del giudizio abbreviato. Come noto, la Corte costituzionale ha reintrodotto questo potere dichiarando illegittimo l’art. 443, comma 1, c.p.p., come modificato dalla l. n. 46 del 2006[44]. Nulla afferma della sentenza di non luogo a procedere, pronunciata all’esito dell’udienza predibattimentale. Il legislatore del 2024 si è completamente dimenticato che la riforma Cartabia ha introdotto un filtro predibattimentale che può concludersi con una sentenza liberatoria appellabile dall’accusa nei limiti dell’art. 554-quater c.p.p.; questo non viene toccato e quindi continua a prevedere tale facoltà.

Viene dunque da chiedersi se sia ragionevole – e quindi costituzionalmente legittimo – che il pubblico ministero possa appellare la sentenza di assoluzione pronunciata in abbreviato e quella di non luogo a procedere, ma non possa invece appellare la sentenza liberatoria adottata all’esito del dibattimento.

E qui sta il nodo più dolente del d.d.l. Nordio: la modifica in materia di appello sembra violare i canoni costituzionali sotto diversi profili.

D’altronde, per rendersene conto basta por mente che il legislatore del 2024 non ha tenuto in alcuna considerazione le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale con le sentenze che quindici anni fa avevano dichiarato illegittima la riforma Pecorella. Quest’ultima, pur essendo una riforma di sistema, era stata dichiarata costituzionalmente illegittima per violazione del canone di parità delle parti e del canone di ragionevolezza[45]. Le stesse censure si possono muovere alla manovra in esame; anzi, vista la natura frammentaria dell’intervento, esse si presentano rafforzate.

Sotto il profilo dell’irragionevolezza intrinseca, appare del tutto priva di giustificazione la scelta di consentire l’appello in caso di soccombenza parziale del pubblico ministero – ossia nei confronti delle sentenze di condanna nei casi contemplati dall’art. 593, comma 1, c.p.p. oppure in quelli di cui all’art. 443, comma 3, c.p.p. – o addirittura nell’ipotesi di soccombenza totale in un giudizio alternativo o in udienza predibattimentale e di escluderlo invece nell’ipotesi di soccombenza totale in dibattimento, ossia di proscioglimento all’esito del giudizio.

Sul versante della parità delle parti, la censura mossa dalla Corte all’eliminazione unilaterale del potere del pubblico ministero è oggi aggravata rispetto all’assetto tratteggiato nel 2006: per un verso, a differenza di allora non viene affatto cancellato tale potere di appello anche per l’imputato; per altro verso, l’eliminazione è assoluta e non si prevede neanche il potere di appello in caso di sopravvenienza di una prova decisiva. Lo squilibrio che si introduce tra le parti risulta dunque privo di giustificazione e del tutto sproporzionato, perché unilaterale: non trova infatti «alcuna specifica “contropartita” in particolari modalità di svolgimento del processo – come invece nell’ipotesi già scrutinata dalla Corte in relazione al rito abbreviato, caratterizzata da una contrapposta rinuncia dell’imputato all’esercizio di proprie facoltà, atta a comprimere i tempi processuali – essendo sancita in rapporto al giudizio ordinario, nel quale l’accertamento è compiuto nel contraddittorio delle parti, secondo le generali cadenze prefigurate dal codice di rito»[46]. Peraltro, come detto, tale limitazione non viene applicata proprio nel caso della sentenza di assoluzione pronunciata in abbreviato.

Né vale l’argomento – su cui ci si appiglia per suffragare un distinguishing rispetto al passato – che la limitazione introdotta dal d.d.l. Nordio non è generalizzata, ma si applichi solo a «reati di contenuta gravità, che (…) sono stati individuati attraverso il riferimento al catalogo dei reati per i quali l’art. 550 c.p.p. prevede la citazione diretta a giudizio: ciò che, trattandosi di fattispecie già considerate dalla legge anche di più agevole accertamento processuale, rafforza ulteriormente i profili di coerenza sistematica, e più in generale di ragionevolezza, della novella»[47]. Appare arduo sostenere che, soprattutto i reati richiamati dal secondo comma dell’art. 550 c.p.p., siano di contenuta gravità: a maggior ragione, dopo l’estensione del catalogo – operata dal d.lgs. n. 150 del 2022 – che contiene oggi, solo per fare alcuni esempi, la falsa testimonianza, l’intralcio alla giustizia, l’evasione aggravata, la lesione stradale gravissima, il furto aggravato. Per di più, risulta dubbia la coerenza sistematica del richiamo all’ambito di applicazione della citazione diretta a giudizio, posto che la riforma Cartabia ha ridotto significativamente la differenza del rito monocratico a citazione diretta rispetto a quello ordinario, introducendo un’udienza predibattimentale nella quale si applica la stessa regola di giudizio prevista per l’udienza preliminare. Né a ritenere ragionevole la discriminazione tra le parti si può far valere la giurisprudenza costituzionale maturata con riguardo all’art. 36 d.lgs. n. 274/2000. È ben vero che il giudice delle leggi ha a più riprese escluso l’illegittimità di tale previsione nella parte in cui esclude la legittimazione del pubblico ministero ad appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace. Ma si sono valorizzati due profili che non sono in alcun modo estensibili al procedimento a citazione diretta a giudizio. Per un verso, la Corte ha valorizzato la limitata applicabilità a «un circoscritto gruppo di figure criminose di minore gravità e di ridotto allarme sociale: figure espressive, in buona parte, di conflitti a carattere interpersonale e per le quali è comunque esclusa l’applicabilità di pene detentive»; per altro verso, ha anche precisato che la limitazione all’appello del p.m. si innestava su «un modulo processuale (il procedimento davanti al giudice di pace), che – come reiteratamente rilevato da questa Corte e come lo stesso giudice a quo riconosce – presenta caratteristiche assolutamente peculiari. Esso risulta improntato a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità, che lo rendono non comparabile con il procedimento davanti al tribunale, e comunque tali da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario»[48]. Argomenti palesemente non estensibili oggi al processo a citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, che non si discosta ormai in modo sostanziale da quello ordinario, anche perché può condurre ad applicare pene detentive.

Non è dunque difficile pronosticare che a Palazzo della Consulta arriveranno nuove questioni di legittimità costituzionale.

L’auspicio è che la manovra, anche sotto questo profilo, non abbia come effetto quello di allontanare la soluzione di problemi – qual è indubbiamente quello dell’appello del p.m. – che attendono (da troppo tempo) risposte equilibrate e ragionevoli. Risposte possibili solo a condizione di abbandonare l’approccio semplificatorio dell’ideologia.   

 

 

 

 

 

 

 

[3] Si allude a Corte cost., 27 luglio 2023, n. 170. Per articolati commenti, v. i contributi pubblicati in Diritto inf. e informatica, 4-5/2023, p. 708-748.

[4] Cfr. https://www.ildubbio.news/giustizia/si-voti-per-proibire-le-intercettazioni-del-difensore-lappello-dei-penalisti-ui76pdlv.

[5] Così la Relazione al d.d.l. n. 2773, presentato dal Ministro della giustizia Flick alla Camera dei Deputati il 27 novembre 1996.

[6] V. la Relazione al d.d.l. n. 1638, presentato dal Ministro della giustizia Mastella alla Camera dei Deputati il 14 settembre 2006.

[7] Cfr. la Relazione al d.d.l. n. 1415, presentato dal Ministro della giustizia Alfano alla Camera dei Deputati il 30 giugno 2008.

[8] Sia consentito rinviare, sul punto, anche per ulteriori riferimenti bibliografici, a Le nuove intercettazioni in Dir. di internet, Supplemento al fascicolo 3/2020, a cura di M. Gialuz.

[9] P. Bronzo, Brevi note sul “disegno di legge Nordio”, in questa rivista, 12 aprile 2024, p. 2.

[10] Corte cost., 8 febbraio 1995, n. 59.

[11] Analogamente, G. Illuminati, Le modifiche al processo penale nel d.d.l. Nordio: una prima lettura, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2023, p. 889.

[12] V., al riguardo, le riflessioni di L. Ferrarella, Il giornalista, in Aa.Vv., Nuove norme in tema di intercettazioni. Tutela della riservatezza, garanzie difensive e nuove tecnologie informatiche, a cura di G. Giostra e R. Orlandi, Torino, 2018, p. 205 ss.

[13] Così G. Giostra, I nuovi equilibri tra diritto alla riservatezza e diritto di cronaca nella riformata disciplina delle intercettazioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 536.

[14] Cass., Sez. un., 23 febbraio 2000, Mariano, in Cass. pen., 2000, p. 2228 ss.

[15] Così L. Ludovici, Disegno di legge c.d. Nordio: nuove garanzie processuali tra fughe in avanti e false partenze, in Leg. pen. web, 7 maggio 2024, p. 6.

[16] Sulla natura dell’informazione di garanzia quale “atto di indagine”, cfr., per le differenti interpretazioni offerte al riguardo, G. Giostra, Processo penale e informazione, Milano, 1989, p. 302; G. Mantovani, Informazione, giustizia penale e diritti della persona, Napoli, 2011, p. 75.

[17] Dubbi circa l’effettiva portata garantista della modifica in parola sono manifestati pure da F. Porcu, Le modifiche al codice di rito nel D.d.l. Nordio: un primo commento alla riforma in fieri, in PenaleDP, 2 agosto 2023, par. 4.

[18] Il riferimento è all’intervista del Ministro Nordio, pubblicata su Il Corriere della Sera del 12 luglio 2024, con il titolo «Nessun colpo di spugna per i colletti bianchi. Finite le riforme, lascerò», p. 9, nella quale il Guardasigilli dichiara che le idee generali che hanno ispirato i suoi scritti da trent’anni «non erano farina del mio sacco, ma dei grandi liberali: Montesquieu, Locke, Voltaire».

[19] Così Commissione Riccio per la riforma del codice di procedura penale (27 luglio 2006) – Relazione, p. 35.

[20] Sulla ragionevolezza delle eccezioni, cfr. F. Porcu, Le modifiche al codice di rito nel D.d.l. Nordio: un primo commento alla riforma in fieri, cit., par. 3.1; G. Spangher, Pacchetto Nordio: timidi ma significativi segnali di cambio di prospettiva, in PenaleDP, 27 giugno 2023, par. 5.

[21] Cfr. Aa.Vv., G.i.p. e libertà personale. Verso un contraddittorio anticipato? – Atti dell’incontro di studio – Firenze, 7 maggio 1996, Napoli, 1997; G. Giostra, Il giudice per le indagini preliminari e le garanzie della libertà personale, in Il giudice per le indagini preliminari dopo cinque anni di sperimentazione, Milano, 1996, p. 45 ss.; E. Zappalà, Le garanzie giurisdizionali in tema di libertà personale e di ricerca della prova, in Riv. dir. proc., 1994, p. 485 ss. Una compiuta rassegna bibliografica si legge in A. Marandola, L’interrogatorio di garanzia dal contraddittorio posticipato all’anticipazione delle tutele difensive, Padova, 2006, p. 337 ss.

[22] Cfr. la direttiva n. 46.2, che prevedeva la «predeterminazione dei casi e delle modalità con cui il giudice, se non rigetta o non accoglie allo stato degli atti la richiesta di misura cautelare, dispone l’ascolto della persona nei cui confronti è presentata la richiesta, anche mediante accompagnamento coattivo».

[23] Di «una vera misura di civiltà» ha parlato C. Valentini, Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire: note sparse sul futuribile interrogatorio ante cautela, in Arch. pen. web, 12 settembre 2023, p. 4. Pure L’UCP, La giunta ICPI sul DDL Nordio, 15 giugno 2023, al sito https://www.camerepenali.it/cat/12009/la_giunta_ucpi_sul_ddl_nordio.html, ha accolto con favore la modifica in parola.

[24] Lo ricorda G. Illuminati, Le modifiche al processo penale nel d.d.l. Nordio: una prima lettura, cit., p. 891.

[25] Così, in termini critici, P. Bronzo, Brevi note sul “disegno di legge Nordio”, cit., p. 4; G. Colaiacovo – G. Della Monica, L’anticipazione dell’interrogatorio di garanzia, in PenaleDP, 12 aprile 2024, par. 2; A. Marandola, Troppi i dubbi sulle garanzie dell’interrogatorio cautelare anticipato, ivi, 10 maggio 2024.

[26] P. Bronzo, Brevi note sul “disegno di legge Nordio”, cit., p. 5.

[27] Il rilievo è di G. Spangher, Il d.d.l. Nordio in materia cautelare: ombre e dubbi, in Giust. insieme, 6 settembre 2023, par. 4.

[28] Cfr., sul punto, G. Illuminati, Le modifiche al processo penale nel d.d.l. Nordio, cit., p. 893; A. Marandola, Troppi i dubbi sulle garanzie dell’interrogatorio, cit.

[29] La Corte costituzionale, con la sentenza n. 57/2022, ha ritenuto ammissibile il secondo quesito del Referendum indetto in data 12 giugno 2022: «Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 447 (Approvazione del codice di procedura penale), risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché’ per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195 e successive modificazioni.”?».

[30] Non a caso, come si è detto, la Commissione Riccio si era ragionevolmente orientata in tal senso (cfr. supra, nota 21). Analogamente, V. Grevi, Garanzie difensive e misure cautelari personali, in Aa.Vv., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi, Milano, 1997, p. 114 ss., ora in Alla ricerca di un processo penale “giusto”, Milano, 2000, p. 82.

[31] P. Ferrua, Il ruolo del giudice nel controllo delle indagini e nell’udienza preliminare, in Studi in memoria di Pietro Nuvolone, Milano, 1991, p. 194.

[32] Nello stesso senso, C. De Robbio, Collegialità del giudice della misura cautelare e separazione delle carriere: due tasselli di uno stesso mosaico, in Giustinsieme, 19 maggio 2023.

[33] Si esprimono in termini critici anche F. Ruggieri, Del potere dell’autorità giudiziaria: le recenti proposte di riforma, in Dir. pen. proc., 2023, p. 1548; ​G. Spangher, Il d.d.l. Nordio in materia cautelare, cit., par. 4.

[34] Così si è espresso il Guardasigilli, in data 7 settembre 2023, in occasione dell’insediamento della Commissione per la riforma del processo penale (https://www.gnewsonline.it/commissione-penale-nordio-attuare-i-principi-del-processo-accusatorio/).

[35] Il rilievo è condiviso da G. Illuminati, Le modifiche al processo penale nel d.d.l. Nordio, cit., p. 895. 

[36] E. Maccora, Il cantiere sempre aperto della giustizia penale. Primissime osservazioni al DDL Nordio ed all’impatto sulle sezioni gip-gup, in Quest. giust., 6 luglio 2023, par. 4.

[37] È quanto previsto all’art. 4, lett. a), n. 1 del d.d.l. Come giustamente rileva anche E. Maccora, Il cantiere sempre aperto della giustizia penale, cit., «l’uso della tabella infradistrettuale […], per far fronte alle esigenze degli uffici piccoli (spesso composti da 2/3 magistrati), appare alquanto problematico se si considera la distanza tra gli uffici che appartengono allo stesso distretto di Corte Appello. Potrebbe accadere ad esempio che un gip del tribunale di Milano debba comporre il collegio cautelare a Lodi o a Busto Arsizio o a Varese per decidere una misura cautelare o un aggravamento. Si rischia seriamente la paralisi degli uffici, la creazione di importanti arretrati e il mancato raggiungimento degli obiettivi del PNRR».

[38] UCP, Rimozione dei limiti alle impugnazioni: un primo passo, ma la battaglia continua, 8 febbraio 2024, al sito https://www.camerepenali.it/cat/12300/rimozione_dei_limiti_alle_impugnazioni_un_primo_passo,_ma_la_battaglia_continua.html; UPC, Delibera del 20 novembre 2023, al sito https://www.camerepenali.it/public/file/Delibere/Delibere_Giunta_Petrelli/Delibera-003_20-11-2023_Stato-di-agitazione.pdf.

[39] M. Bontempelli, Le modifiche relative all’appello, in Riforma Cartabia. Le modifiche al sistema penale, diretto da G.L. Gatta e M. Gialuz, vol. II, Nuove dinamiche del procedimento penale, a cura di T. Bene, M. Bontempelli, L. Lupária Donati, Milano, 2024, p. 397 ss.; G. Canzio, Le difficili sfide di una riforma di sistema fra efficienza organizzativa e garanzie del giusto processo, in Riforma Cartabia, cit., vol. I, Il procedimento penale tra efficienza, digitalizzazione e garanzie partecipative, a cura di M. Caianiello, M. Gialuz e S. Quattrocolo, Torino, 2024, p. 61.

[40] Cfr. Commissione Lattanzi, Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. A.C. 2435, in questa rivista, 25 maggio 2021, p. 36. Per un commento analitico delle proposte di riforma in tema di giudizio di seconda istanza avanzate dalla Commissione, cfr. M. Bargis, Nuovi orizzonti per le impugnazioni penali nello schema di legge delega proposto dalla Commissione ministeriale, in Leg. pen. web, 31 maggio 2021; A. De Caro, Riflessioni critiche sulle proposte della Commissione ministeriale in tema di riforma delle impugnazioni penali, in Arch. pen. web, 2/2021.

[41] Si pensi, da ultimo, alla trasformazione del giudice d’appello in una sorta di giudice istruttore, così come si ricava dalla lettura della pronuncia Cass., Sez. un., 30 settembre 2021, n. 11586, in questa rivista, 6 giugno 2022, con nota di M. Bargis, Brevi riflessioni sulla pronuncia delle Sezioni unite relativa all’art. 603 comma 3 bis c.p.p. nell’ipotesi in cui sia impossibile rinnovare la prova per decesso del dichiarante.

[42] Così, G. Spangher, È stato definitivamente approvato il ddl Nordio, in Ius, 10 luglio 2024.

[43] V. la Relazione al d.d.l. S 808, in questa rivista, 3 agosto 2023, p. 9, secondo la quale, con il nuovo testo, restano «appellabili le decisioni di assoluzione per i reati più gravi, compresi tutti quelli contro la persona che destano particolare allarme sociale, tra i quali sono ricompresi i reati cosiddetti da codice rosso».

[44] V. Corte cost., 20 luglio 2007, n. 320; Corte cost., 29 ottobre 2009, n. 274.

[45] Corte cost., 6 febbraio 2007, n. 26.

[46] Testualmente, Corte cost., 6 febbraio 2007, n. 26, cit.

[47] Relazione al d.d.l. S 808, cit., p. 9.

[48] Testualmente, Corte cost., 25 luglio 2008, n. 298.