ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Opinioni  
15 Luglio 2024


Abrogare i reati per risolvere problemi del processo. Dal falso in bilancio all’abuso di ufficio


Siamo abituati all’idea che i politici mentano. Non solo. Lo tolleriamo a livello di comportamento collettivo ed elettorale. Tanto che neppure ci si attende più un vero programma anticipato al voto. Nel paese del cattivo machiavellismo, poiché la politica non si fa con i pater noster, chi rimprovera al politico scarsa sincerità appare solo un moralista, o un oppositore, magari di sinistra. Uno che di politica non ne capisce molto. Su tali basi ogni discorso risulta inquinato: se tutti i cretesi mentono, nessun cretese potrà obiettare nulla in termini di verità. Per tale cortocircuito comunicativo, rimane la necessità di sostenere che fondamentalmente i discorsi pubblici rispondano a un’etica della verità e che il suo tradimento costituisca una eccezione. Quasi un postulato della ragion pratica.

 

Fatta questa premessa, si deve ribadire che il politico ha un rapporto con la verità diverso dallo studioso, dallo scienziato o dal tecnico di qualche sapere. Egli si occupa di consenso.

Nella vicenda dell’abuso di ufficio tale contrasto di valori è emerso chiaramente. L’evoluzione della fattispecie ha visto diminuire progressivamente il suo spazio applicativo. Si tratta di una tendenza storica, che va oltre la contingenza abolizionista di qualche governo: l’abbandono di un vecchio modello generalista e indeterminato di abuso, a favore della specializzazione normativa di distinte e selezionate fattispecie tipiche di abuso. Normalmente, tuttavia, in un panorama internazionale di osservazione, si conserva la fattispecie generale come residuale, per coprire lacune che non si riesce a colmare bene, ma soprattutto per mantenere un precetto preventivo di valore pedagogico rispetto a comportamenti odiosi, che si riescano a provare oppure no. Una pedagogia per nulla inefficace. Anche la maggior parte dei reati economici conoscono poche sentenze di condanna: li aboliamo per questo? Però, si dice, non conoscono denunce così numerose come nel caso dell’abuso, rese possibili dalla ampiezza della condotta descritta, che in un sistema a esercizio obbligatorio dell’azione penale impone l’inizio di indagini e iscrizioni di notizie reato.

 

Non sarebbe dunque “colpa” neppure dei magistrati, ma di un sistema inflazionato all’origine, per i meccanismi incoercibili di colpevolizzazione coatta, se non si schiude da subito l’evidenza di una archiviazione: ciò che negli ultimi anni è avvenuto con grandi numeri per le fattispecie ipotizzate di abuso di ufficio. Non riuscendo a proteggere le vittime del reato – trattandosi di un tipico delitto con persone offese – perché i ricorsi amministrativi non ne soddisfano le pretese e l’osservanza della legalità rimane priva di strumenti coercitivi, a un certo punto si è ribaltato l’assunto, per cui le vittime sono gli stessi pubblici ufficiali ingiustamente denunciati o inquisiti. Un paradosso del diritto, perché le vittime del sistema processuale reclamano riforme del processo, una diversa attuazione dell’azione penale: ciò che è chiaro a ogni persona che conosca un minimo dei sistemi giuridici a livello comparato.

Dimentichi di queste coordinate basiche, peraltro in linea con lo spirito (più) liberale di Forza Italia e con l’idea di maggiore discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale, si è invece attuato, quasi un “legato testamentario”, il (diverso) programma berlusconiano già sperimentato con l’abrogazione del falso in bilancio. In quella circostanza, per impedire ai pubblici ministeri di indagare a tappeto il rispetto della legalità nelle aziende private attraverso il grimaldello (un uso strumentale) del reato di false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c.), che era divenuto un passepartout per troppe inchieste esplorative nel privato, si pensò addirittura di abolire quel reato (d. lgs. n. 61 del 2002).

 

Qualcosa di unico nella storia del diritto penale. Ora la storia si ripete. La politica, in una resa dei conti con le procure della Repubblica più intraprendenti, ha valutato che la fattispecie di abuso è un’arma politica nelle mani dei pubblici ministeri, che la usano, o la possono usare, per sindacare la legalità della pubblica amministrazione. Solo così si spiega la decisione di abolirla proprio quando è divenuta meno “offensiva” per i pubblici ufficiali, perché come arma politica sarebbe sempre stata utilizzabile quando non sussistono (ancora) indizi di corruzione, concussione, peculato, malversazione etc.: il suo potenziale uso esplorativo è cioè la sua colpa d’origine.

Che cosa accadde con la abrogazione del falso in bilancio è vicenda nota: una fattispecie quasi uguale è stata reintrodotta anni più tardi (dalla l. n. 69 del 2015), essendo tale reato l’incriminazione più importante, insieme a quelle di bancarotta, del diritto penale economico in senso stretto.

 

Accadrà lo stesso per l’abuso di ufficio? Io non credo, anche se le sorprese dei meccanismi poco virtuosi di un troppo celebrato sistema maggioritario possono presentare riforme e controriforme ciclicamente alternate. Non lo ritengo verosimile perché non è sbagliato, in linea storica, che si abbandoni il  tanto riformato art. 323 c.p. come norma generica, ma tipizzando forme abusive ancora rilevanti. Potrà e dovrebbe succedere, dunque, che venga reintrodotta in futuro (ma a “amnistia” già avvenuta) una sua sottofattispecie, riguardante le ipotesi di prevaricazione, per es., che l’attuale abolizione a tappeto lascia scoperte, così come è stata reintrodotta or ora con decreto-legge (art. 314 bis c.p., per effetto del d.l. n. 92 del 2024) la sottofattispecie del peculato per distrazione che, dopo la riforma del peculato del 1990 (l. n. 86 del 1990) fu eliminato dall’art. 314 c.p., per affidarne la repressione al residuo abuso di ufficio, parimenti riformato nel 1990 (e poi ancora in successivi interventi limitativi). Ma il peculato per distrazione è ipotesi ben meno significativa delle prevaricazioni quale sottofattispecie tipica di abuso in danno di terzi.

 

La prevaricazione rappresenta infatti il comportamento più odioso della pubblica amministrazione, ciò che rende illiberale il sistema giuridico nei rapporti tra consociati e pubblici poteri (sui tratti illiberali di questa riforma si v. Gli aspetti autoritari della mera cancellazione dell’abuso d’ufficio, in questa Rivista, 23 giugno 2023). Tolta la concussione (un ricatto violento del p.u. per ottenere denaro o altra utilità), le forme di prevaricazione “pura” non hanno adeguata disciplina, non bastando arresti illegali, perquisizioni arbitrarie e simili fattispecie a coprire questi abusi. Gli imprenditori si “autotutelano” pagando tangenti, ma qui il reato (concussione, corruzione) c’è ed è possibile sottrarsi al suo incombere denunciando, o concordando volontariamente controprestazioni che nell’abuso non sono previste. Con questa riforma anche la denuncia diviene inutile e irrilevante.

 

Si è detto dell’esiguo numero di sentenze di condanna, ora. Ma la tutela penale non si misura con le condanne. Solo un analfabeta della giustizia penale può pensarlo. 

C’è stata, come noto, una riduzione progressiva degli spazi applicativi della fattispecie e tali riforme hanno seguito un disegno di certezza e di ultima ratio. È invece l’originario reato del 1930 che meritava tutti gli strali “retrospettivi” che si sentono oggi in un dibattito tanto emotivo quanto segnato dai paradossi: proprio ora che la fattispecie stava producendo sempre più archiviazioni e meno condanne, si è voluto abolirla perché le sue “vittime” non erano i privati potenzialmente prevaricati o ingiustamente colpiti da arbitrii e favoritismi, ma gli stessi pubblici ufficiali indagati e poi assolti non perché “innocenti”, ma per il deficit strutturale della norma.

 

È evidente, dunque, che col tempo le sentenze dovessero diminuire, perché si sono ritagliati spazi di rilevanza penale sempre più esigui, descritti in modo sempre più tassativo, rispetto alla genericità originaria o precedente della regola penale prevista dall’art. 323 c.p. nelle sue diverse versioni, e rispetto ai principali esempi europei e internazionali di analoghe incriminazioni. Tuttavia, non sono diminuite le denunce, e dunque i procedimenti avviati, che toccano soggetti pubblici i più vari, dalle forze dell’ordine alla magistratura, dai professori universitari ai docenti delle diverse scuole, ai medici ospedalieri, dalla materia edilizia a quella dei concorsi e degli appalti. Solo una parte di questi procedimenti avviati colpisce i c.d. pubblici amministratori, i quali, e tantomeno i soli sindaci, sono una piccola schiera di quel circa un milione di pubblici ufficiali destinatari degli obblighi di legalità e imparzialità che quella incriminazione protegge in via sussidiaria, quando non sussistano reati più gravi (corruzione, concussione ecc.).

 

Non avere il timore di una denuncia liberalizza le pulsioni più prevaricatrici che gli stessi pubblici ufficiali sanno essere frequentissime, perché sono spesso loro stessi a subirle da parte di altri colleghi.

Invece di misurare le condanne e di castigare, un sistema giuridico laico e garantista ha l’obiettivo di prevenire. E se la prevenzione è più difficile da misurare, l’effetto preventivo delle leggi penali costituisce l’essenza politica del loro esistere, dall’illuminismo in poi. Invece, senza che si sia data una sola risposta preventiva all’abolizione del reato, in termini di una giustizia efficiente e orientata alle conseguenze, anziché agli scopi, il popolo  è stato ingannato affinché accettasse meglio il dato vero e ben diverso di questa riforma: l’obiettivo  della perdita del controllo delle Procure della Repubblica sulla legalità dei pubblici amministratori. Come accadde per il falso in bilancio, in relazione a un ingestibile uso della norma (art. 2621 c.c.) per la verifica della legalità degli amministratori privati, anche ora si abolisce il reato-mezzo di quel controllo. Poco importa che i fatti-reati si commettano davvero, perché il bilanciamento attuato dal governo (e dal Parlamento che ne esegue i dettami) privilegia la vittoria sui pubblici ministeri.

Questa è la verità solo adombrata e per lo più negata da altre spiegazioni ufficiali, mentre giuristi e commentatori stanno al gioco e prendono sul serio le motivazioni sulla opportunità o necessità “sostanziale” di abolire la fattispecie. Non possono ammettere che tutti i cretesi mentano e agiscono come se non mentissero mai. Ma in tal guisa ogni spiegazione di diritto sostanziale appare surreale: chi cade in questa trappola argomentativa fa il gioco di chi deve celare la verità.

I due piani del discorso si congiungono peraltro nella patologia nazionale del rapporto fra diritto penale e processo. Quando uno Stato abolisce i reati per fermare i pubblici ministeri, invece di riformare l’azione penale e di migliorare la formazione e la cultura dei magistrati, ha raggiunto un livello di crisi istituzionale tanto inconfessabile, che neppure può ammettere l’inusitata scelta di cancellare i precetti penali e amnistiare il passato per ragioni del tutto strumentali di lotta non contro gli illeciti, ma contro il potere giudiziario.