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  Opinioni  
23 Gennaio 2023


Sulla riforma dell'abuso d'ufficio


1. Sono le statistiche a supportare l'esigenza di tornare a occuparsi dell'abuso d'ufficio.

Sulla base dei dati forniti dal Ministero della Giustizia, nell'anno 2021, su 5.418 procedimenti definiti dall’ufficio GIP/GUP, le archiviazioni sono state 4.613 (di cui 148 per prescrizione); quanto alle sentenze di condanna, ne sono state pronunciate 9, con 35 patteggiamenti, mentre sono stati 370 i decreti che hanno disposto il giudizio. All'esito del dibattimento, poi, su 513 procedimenti definiti le condanne sono state 18 (a fronte di 37 nel 2020 e di 54 nel 2019) e le assoluzioni 256[1].

Ebbene, la considerazione che, pur a fronte di un numero elevatissimo di iscrizioni, un'esiguità di queste si trasforma in sentenze di condanna, rende ineludibile un nuovo e ulteriore intervento legislativo diretto a circoscrivere il rischio di un coinvolgimento generalizzato, in sede penale, dei pubblici amministratori[2].

 

2. Non vi sono parole più nitide, in questo senso, di quelle pronunciate appena un anno fa dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 8 del 2022[3]; qui, cogliendo nelle slabbrature interpretative dell'art. 323 c.p. operate in sede giurisprudenziale "una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno che si è soliti designare come burocrazia difensiva", nella quale "i pubblici funzionari si astengono dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta 'paura della firma')", si è infatti ben messo in luce che "il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un 'effetto di raffreddamento', che induce il funzionario a imboccare la via per sé più rassicurante", con inevitabili "riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati"[4].

 

3. Quali i contorni dell'auspicato intervento?

Da più parti e autorevolmente si invoca l'abrogazione secca dell'art. 323 c.p.[5], così da elidere alla radice qualunque tentazione di reinterpretazioni del potere giudiziario, che in questi anni sembra avere sempre trovato il modo di vanificare gli sforzi del legislatore riallargando i margini applicativi della fattispecie (è ciò che è avvenuto soprattutto con la riforma del 1997, che per la prima volta ha definito le modalità della condotta abusiva[6]).

Senonché, la scelta più radicale per un verso rischierebbe di provocare una paradossale riespansione di altre fattispecie punite più gravemente (quali il peculato per distrazione e la turbata libertà degli incanti o del procedimento) e, per altro verso, si esporrebbe a vizi di costituzionalità (il cui sindacato, pur se potenzialmente foriero di effetti in malam partem, è ormai ritenuto ammissibile), tanto per contrasto con l'art. 117 Cost. (violazione degli obblighi internazionali che impongono una penalizzazione di condotte abusive: art. 19 della Convenzione di Merida, ratificata dal nostro Paese con la legge n. 116 del 2009), quanto perché, lasciando 'scoperte' ipotesi di strumentalizzazione a danno della pubblica amministrazione, creerebbe vere e proprie "zone franche" dell'ordinamento[7].

 

4. Resta la strada di una riformulazione dell'art. 323 c.p., che muova dalla presa d'atto di come, nelle riforme del passato, si sia scelto, punendo le sole violazioni formali di norme di legge, di limitare il sindacato del giudice all'attività vincolata della pubblica amministrazione, appiattendo l'area di responsabilità penale su illegittimità di carattere formalistico-amministrativo che hanno finito per esporre i pubblici funzionari a facili contestazioni dei pubblici ministeri[8].

Occorrerebbe un cambio di paradigma: recuperare l'essenza del concetto di "abuso" (ormai evocato unicamente nella rubrica dell'art. 323 c.p.), sforzandosi di tipizzare ipotesi di reale sfruttamento privato dell'ufficio, nelle quali cioè il pubblico amministratore abbia realizzato una distorsione funzionale dell'azione amministrativa, a fini privati o di danno, tracciando il perimetro della condotta rilevante all'interno di un indebito utilizzo dell'ufficio caratterizzato dalla contrapposizione tra interesse privato e pubblico che mini l'imparzialità.

 

 

 

[1] Riferimenti statistici tratti da V. Mignone, Abuso d'ufficio verso la riforma: processi calati del 40% dal 2016, in Il Sole 24 ore, 12 dicembre 2022, pagg. 1-5.

[2] Già dal novembre 2021 - e cioè a poco più di un anno dall'ultima riforma dell'art. 323 c.p. (attuata ad dell'art. 23 d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv. in l. 11 settembre 2020, n. 120) - si è iniziato a proporre, in sede parlamentare, una revisione della fattispecie di abuso d'ufficio. Tre, in particolare, i disegni di legge presentati: quelli cioè dei senatore Ostellari e altri (AS 2145), Parrini e altri (AS 2324) e Santangelo e altri (AS 2279), tutti convergenti nel medesimo obiettivo di evitare ingerenze della magistratura inquirente nel campo della discrezionalità amministrativa, così rassicurando i pubblici amministratori rispetto al rischio di essere coinvolti in indagini che spesso non conducono a una condanna e che tuttavia producono ripercussioni negative sulla vita e sulla professione dell'amministratore pubblico indagato; per un primo commento, C. Pagella, Abuso d'ufficio: una nuova riforma? Guida alla lettura dei dsiegni di legge Ostellari, Parrini e Santangelo, in questa Rivista, 10 dicembre 2021 e M. Gambardella, Tre disegni di legge in materia di abuso d’ufficio e responsabilità per i reati omissivi impropri, in Discrimen, 11 novembre 2021. Una più distesa disamina, in E. Mattevi, L'abuso d'ufficio. Una questione aperta. Evoluzione e prospettive di una fattispecie discussa, Trento, 2022, 300 ss.; C. Pagella, Abuso d'ufficio: problemi giuridici attuali e prospettive di riforma, Tesi di dottorato, 2023, 294 ss.

[3] In Giur. cost., 2022, 88 ss., con osservazioni di M.C. Ubiali, Emergenza Covid e riforma del delitto di abuso d'ufficio per agevolare la ripresa del Paese: brevi note alla sentenza n. 8/2022 della Corte costituzionale, ivi, 120 ss.

[4] Spunti sul punto, a commento della sentenza, in F. Merusi, La Corte fra residuati risorgimentali e imiti all'efficienza della pubblica amministrazione causati dal giudice penale, Giur. cost., 2022, 88 ss.

[5] In questa direzione si è espresso, in varie occasioni, il Ministro della Giustizia Carlo Nordio; cfr., ad esempio, le dichiarazioni riportate nell'articolo Abuso d'ufficio. Nordio propone l'abolizione, in Il dubbio, 23 dicembre 2022, pag. 2.

[6] Sulle tendenze espansive della giurisprudenza rispetto alla versione del 1997, cfr., per tutti, C. Cupelli, L'abuso d'ufficio, in Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, a cura di B. Romano e A. Marandola, Torino, 2020, 291 ss.

[7] Vale la pena ricordare come la sentenza della Corte costituzionale 6 marzo 2019, n. 37 (in Giur. cost., 2019, 649 ss.) abbia avuto il merito di avere, per così dire, sistematizzato il percorso giurisprudenziale precedente, compendiando in quattro macro-aree le «eccezioni» al principio di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale che mirano a produrre effetti in malam partem (§ 7.1): a) l’ipotesi di una norma penale di favore che sottragga irragionevolmente un determinato sottoinsieme di condotte alla regola della generale rilevanza penale di una più ampia classe di condotte stabilita da una disposizione incriminatrice vigente, ovvero che preveda per tale sottoinsieme – altrettanto irragionevolmente – un trattamento sanzionatorio più favorevole (sentenza n. 394 del 2006); b) il caso dello scorretto esercizio del potere legislativo, da parte dei Consigli regionali, ai quali non spetta neutralizzare le scelte di criminalizzazione compiute dal legislatore nazionale (sentenza n. 46 del 2014), da parte del Governo, che abbia abrogato mediante decreto legislativo una disposizione penale, senza a ciò essere autorizzato dalla legge delega (sentenza n. 5 del 2014), ovvero ancora da parte dello stesso Parlamento, che non abbia rispettato i principi stabiliti dalla Costituzione in materia di conversione dei decreti-legge (sentenza n. 32 del 2014); c) l’ipotesi della conseguenza indiretta della reductio ad legitimatem di una norma processuale, derivante dall’eliminazione di una previsione a carattere derogatorio di una disciplina generale (sentenza n. 236 del 2018); d) la contrarietà della disposizione censurata a obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi dell’art. 11 o dell’art. 17, co. 1, Cost. (sentenza n. 28 del 2010).