L’abrogazione dell’abuso d’ufficio, all’esito dell’approvazione della riforma voluta dal Governo, trascina con sé anche il venir meno dell’incriminazione penale del conflitto di interessi. Dopo il voto alla Camera del 10 luglio scorso la legge non risulta ancora promulgata e pubblicata.
La disposizione dell’art. 323 c.p. è il frutto di tanti interventi stratificati nel tempo volti a dare contenuto ad una norma alla cui formulazione nel codice Rocco si addebitava notevole indeterminatezza. A ricordare vicende piuttosto note, la previsione del danno o del vantaggio ingiusto è stata introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86, assieme all’estensione della fattispecie a carico degli incaricati di un pubblico servizio. La necessità del dolo intenzionale per integrare la fattispecie criminosa è stata inserita dalla legge 16 luglio 1997, n. 234, che pure non accolse le proposte di specificazione avanzate dalla Commissione di studio presieduta da Giuseppe Morbidelli. Alla stessa legge si deve la previsione che la consumazione del reato richiede la violazione di norme di legge e/o di regolamento ovvero si integra a seguito dell’omissione dell’obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio o di un congiunto. La legge 6 novembre 2012, n. 190, ha aumentato la pena edittale.
La più recente riscrittura della norma ad opera del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, conv. in legge 11 settembre 2020, n. 120, ha inteso limitare l’applicazione della fattispecie penale alle ipotesi di violazione «di specifiche regole di condotta espressamente previste» da fonti primarie e non più (anche) da regolamenti ed ha richiesto, che dall’applicazione delle stesse «non residuino margini di discrezionalità». Una riforma che ha suscitato, tra le tante, le riflessioni critiche di T. Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza penale web, 2020.
Certo si è ormai molto lontani dalla disposizione del 1930, la quale ammetteva che il reato si potesse commettere «in casi non preveduti specificamente dalla legge», “confessando” espressamente la violazione del principio di legalità. Non si può parlare più di abuso innominato d’ufficio, anche se rimane la latitudine della fattispecie incriminatrice.
Semmai, può essere qui notato che la legge n. 234/1997 ha comportato, per così dire, la giuridificazione dell’obbligo di astensione nei casi di conflitto di interessi in capo ai funzionari ed ai dipendenti pubblici.
Anche a questo proposito può ricordarsi che il “vecchio” interesse privato in atti d’ufficio – previsione delittuosa dell’art. 324 c.p. anch’essa poco determinata, basata com’era sulla nozione di prendere «un interesse privato in qualsiasi atto della pubblica amministrazione» – è stato abrogato dalla legge del 1990. Nel 1997 un particolare profilo dell’interesse privato, cioè quello integrato dalla partecipazione del soggetto sensibile al procedimento amministrativo che lo può riguardare, ha ricevuto considerazione dal legislatore penale ed è stato per l’appunto qualificato come comportamento idoneo ad integrare il (diverso) reato di abuso d’ufficio.
A prescindere dal modo in cui si è pervenuti a siffatto esito, l’obbligo di astensione sanzionato dall’art. 323 c.p. fa sistema con molte disposizioni qua e là presenti nell’ordinamento.
Ad esempio, l’art. 51 c.p.c. obbliga il giudice ad astenersi dal decidere controversie alle quali ha un interesse suo o di un prossimo congiunto (la regola risente ancora del fatto che al tempo di redazione del codice di rito solo gli uomini avevano accesso in magistratura, così che vi si prevede la posizione della moglie, ma non del coniuge e niente affatto del partner dell’unione civile ovvero del convivente. In tanti anni il legislatore che è intervenuto nella disciplina dell’accesso delle donne in magistratura con la legge 9 febbraio 1963, n. 66, e sui rapporti di coppia con la legge 20 maggio 2016, n. 76, non ha posto mano alla redazione di un testo almeno consono alla mutata realtà sociale).
L’art. 78 del testo unico enti locali, d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, prescrive che «gli amministratori … devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini» stretti. In particolare, si specifica che l’obbligo di astensione vale anche per gli atti normativi ed i provvedimenti di carattere generale, quali gli strumenti urbanistici, le volte «in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell'amministratore o di parenti o affini». La disposizione riprende il contenuto dell’art. 19 della cd legge Napolitano-Vigneri, 3 agosto 1999, n. 265, che a sua volta ha continuato una tradizione iniziata con l’art. 22 della legge comunale e provinciale del 1865, cioè la legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato A, e poi presente nell’art. 290 del r.d. 4 febbraio 1915, n. 148, e nell’art. 279 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383.
L’art. 6-bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, prevede in via generale che tutti i funzionari amministrativi «devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale». La norma è stata introdotta dalla l. n. 190/2012, cioè la stessa legge anticorruzione che ha elevato la pena edittale per l’abuso d’ufficio.
L’art. 7 del dpr 16 aprile 2013, n. 62, in applicazione dell’art. 54 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, insiste sull’obbligo di astensione del dipendente pubblico.
Insomma, l’obbligo di astensione – espressione del più generale divieto del conflitto di interessi – è un vero e proprio principio del diritto amministrativo, in applicazione dell’imparzialità che si richiede ai soggetti che decidono sulla cura degli interessi pubblici e, pertanto, possono incidere in maniera intensa sulle sfere giuridiche dei privati ovvero gestire ingenti risorse economiche.
A questo punto può porsi il problema se l’incriminazione penale del conflitto di interessi sia costituzionalmente obbligatoria.
In vero, da quando è stata elaborata a proposito dei limiti al referendum abrogativo assieme alla contigua nozione di normativa a contenuto costituzionalmente vincolato, quella di legge necessaria è divenuta strumento pressoché essenziale nel patrimonio culturale del costituzionalista, preoccupato dei vuoti che possano prodursi a carico di interessi tutelati quali fondamentali e, quindi, di riconosciuto rilievo costituzionale. Anzi, l’insistenza sui valori oggetto di tutela costituzionale porta per un verso ad estendere la tavola degli interessi presi in considerazione dalla Legge fondamentale, superando su questo piano ogni restrizione di impianto originalista; per altro verso spinge a puntare sul mantenimento della normativa esistente, per quanto imperfetta e bisognosa di adeguamenti e perfezionamenti essa possa essere.
Certo, norma obbligatoria o necessaria non può significare pietrificazione di una disciplina al punto da eliminare ogni discrezionalità del legislatore (come sarebbe nel caso di regole a contenuto vincolato). Così, per fare un esempio arcinoto, l’incriminazione penale dell’omicidio è necessaria a tutela del bene giuridico rappresentato dalla vita dei consociati e ad evitare che si ritorni (o ci si avvii) alla guerra di tutti contro tutti, ma la disciplina della pena edittale e delle circostanze del reato rimane soggetta alle scelte legislative ed al criterio di ragionevolezza.
Anzi, si avverte da tempo circa i rischi della iperpenalizzazione di ogni comportamento segnato da disvalore sociale e si tenta di limitare la sanzione penale alla tutela di beni giuridici fondamentali.
Eppure, l’eliminazione della previsione penale in caso di violazione dell’obbligo di astensione sembra comportare alla fine la vanificazione del medesimo obbligo.
Il giudice che non si astenesse nei casi previsti dalla legge potrebbe rispondere in sede disciplinare ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, e vedersi comminare una sanzione non inferiore alla censura ex art. 12: sanzione tutto sommata “leggera” rispetto alla “pena” del processo a suo carico. Nel procedimento a carico del magistrato davanti il CSM la “vittima” del suo comportamento non potrebbe in ogni caso intervenire: il che non appare pienamente rispettoso del principio del contraddittorio riconosciuto dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 Cedu.
Uno strumento urbanistico viziato per la sua adozione anche da parte di un consigliere comunale titolare di specifici interessi sull’area normata oppure un provvedimento amministrativo illegittimo per il conflitto di interessi a carico di chi ha in qualunque modo partecipato alla sua decisione sarebbero annullabili solo se gravati tempestivamente oppure se ricorressero i presupposti dell’autotutela, cioè un interesse a rimuoverli diverso ed ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità.
Questo è il punto: il vizio dell’atto amministrativo segnato dal conflitto di interessi non sempre riesce a segnarne l’esito per le restrizioni temporali del medesimo processo amministrativo ovvero per tempi ed i presupposti del diverso procedimento da svolgere in autotutela. Sanzioni disciplinari per la violazione dell’obbligo di astensione previsto nei vari codici deontologici richiesti dall’art. 54 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, sono difficilmente applicabili ai dirigenti di più alto livello per i quali più che la responsabilità disciplinare vale quella di risultato ex art. 21 dello stesso decreto; e non sono affatto possibili per gli amministratori di estrazione politica.
Sotto questo profilo la prevenzione del conflitto in sede semplicemente amministrativa rischia di essere inefficace. Ciò trascina con sé l’attuazione del principio di imparzialità della p.a., che è pure un valore che attiene ai presupposti dello Stato di diritto.
Per questo la soluzione che prevede la sanzione penale a carico del funzionario e/o del dipendente pubblico in conflitto di interessi appare svolgere la funzione di rendere effettivo il principio di imparzialità.
La qualificazione dell’illegittimità amministrativa come reato è stata sinora funzionale a far attivare l’accusa penale secondo il modulo dell’obbligatorietà ed a spostare, quindi, sull’attore pubblico l’onere, ma anche il merito, di far valere la legalità dell’azione amministrativa. Questo è, infatti, l’esito complessivo. Ad utilizzare lo schema piuttosto controverso di quello amministrativo come ordinamento giuridico particolare, a seguito della sanzione penale l’illegittimità di un atto per il conflitto di interessi a carico di chi lo ha adottato non è più e non solo un affare interno all’assetto amministrativo, ma diviene rilevante per l’ordinamento generale. È questo, in fondo, il risultato dell’iniziativa riconosciuta all’attore pubblico, il quale dovrebbe muoversi all’insegna dell’obbligatorietà dell’azione.
Che il valore costituzionale dell’imparzialità debba essere di necessità anche “bene giuridico” tutelato in sede penale è un esito che può apparire eccessivo, se non altro perché anche a ritenere costituzionalmente obbligata la tutela penale del conflitto di interessi (ossia delle condotte lesive) rimarrebbe sempre piena la discrezionalità del legislatore nello stabilire la pena edittale. Ma per l’appunto questo è il regime (o, se si vuole, il destino) delle discipline il cui principio informatore è costituzionalmente necessario, ma la cui declinazione in concreto è rimessa al legislatore storico.
Il problema è sempre il vuoto normativo. Per anni si è ipotizzata l’assimilazione tra i limiti della portata abrogativa del referendum e quelli del legislatore parlamentare; ma è pure riconosciuto che quest’ultimo gode di una discrezionalità che si esercita a 360° a fronte dell’alternativa secca della decisione referendaria. Di fronte al possibile vuoto il referendum soggiace al controllo di ammissibilità, mentre l’abrogazione in sede legislativa incontra nell’immediato solo il potere presidenziale di rinvio (ed un’ipotetica dichiarazione di reviviscenza della disciplina abrogata se ed in quanto la vicenda arriverà al giudizio costituzionale. In materia penale, oltretutto, in sede giurisdizionale – e per quanto non sia più un mito da cui non deflettere - si sconta la competenza che dovrebbe essere esclusiva del legislatore parlamentare a definire reati e pene).
Nella sede (in gran parte se non tutta politica) dell’esercizio delle funzioni del Capo dello Stato la nozione di norma obbligatoria sembra accostarsi a quella del cd merito costituzionale che dovrebbe dare sostanza al potere previsto dall’art. 74 Cost. e che ormai da tempo ha dato luogo a messaggi presidenziali in occasione della promulgazione di leggi, a censurare pratiche di dubbia costituzionalità (decreti legge non omogenei, maxi-emendamenti, diffusa posizione della questione di fiducia, ecc.) ovvero a tentare di offrire indirizzi in ordine all’applicazione costituzionalmente orientata delle stesse leggi.
Che la disciplina penale non sia l’unica ad assicurare tutela a valori costituzionali è asserto pressoché ovvio. Epperò, può – e forse deve – anche considerarsi la completezza e l’effettività della tutela che l’ordinamento complessivo offre ai principi costituzionali. Insomma, si tratta di accertare quali sono oggi gli strumenti per assicurare l’imparzialità dell’amministrazione lungo tutti i versanti che vanno dalla responsabilità disciplinare a quella amministrativa, alle sedi di affermazioni di tali responsabilità e che passano di necessità attraverso la considerazione dei soggetti legittimati a farle valere: se solo ad opera di chi è leso nella sfera personale o patrimoniale e deve provarlo a pena di inammissibilità della propria azione, ma avrebbe al tempo stesso la disponibilità esclusiva a chiedere tutela; oppure anche su iniziativa di soggetti terzi i quali si muoverebbero per assicurare protezione a beni giuridici di portata generale in un’ottica di stampo obiettivo. All’esito di tale verifica potrebbe risultare che la sanzione penale svolge quella funzione sussidiaria nella tutela di interessi pubblici che le è riconosciuta anche nelle ricostruzioni più minimaliste in ordine alla sua previsione. Insomma, il problema non è qualificare l’art. 323 cp come norma costituzionalmente necessaria: operazione che rischia di diventare nominalistica. Il problema è quello di sostituirla con discipline che rendano effettivo il principio di imparzialità della p.a.
Alla fine la tutela di siffatti principi-valori diviene una vicenda che riguarda per l’appunto l’ordinamento generale, cioè la definizione delle regole delle e sull’attività pubblica, regole che attengono al piano dei valori e, pertanto, dovrebbero essere proprie di un livello (e di un consenso) più ampio di quello di maggioranza. E qui il discorso afferisce al modo in cui si fanno gli interventi normativi sulle discipline che – si voglia o no – sono di sistema perché attengono alle regole del vivere comune.