Cass. sent. 25 giugno 2024 (dep. 2 agosto 2024), n. 31665, Pres. Di Salvo, Rel. Pezzella
*Contributo destinato alla pubblicazione nel fascicolo 10/2024.
1. Il caso: safety vs. security nello specchio della 231. La sentenza in esame chiude un’articolata vicenda di grande interesse, tanto con riferimento al diritto penale del lavoro, quanto alla responsabilità degli enti. Sul primo versante, l’interesse principale sta nel fatto che si offre qui la possibilità di osservare come la giurisprudenza si confronti con una lacuna di disciplina nel d.lgs. n. 81/2008 (d’ora innanzi T.U.S.L.), afferente alla cd. security dei lavoratori: si tratta del rischio "esogeno", legato a pericoli generati da agenti criminosi esterni – distinto dalla cd. safety, ovvero l’attività di gestione dei rischi "insiti" nell'attività lavorativa – che allo stato non risulta disciplinato nel nostro ordinamento. Sull’altro versante, quello della responsabilità degli enti, l’interesse principale della sentenza sta, invece, in come essa imposta il rapporto fra la responsabilità colposa della persona giuridica e quella delle persone fisiche, e segnatamente nel passaggio dall’idea astratta , rinvenibile nella recente giurisprudenza di legittimità, secondo cui le due forme di responsabilità, pur autonome, si costruiscono in modo analogo; al problema concreto del relativo accertamento, che, nel confronto con i fatti di causa, porta con sé il rischio che esse si co-implichino o si sovrappongano, con esiti non del tutto prevedibili.
2. I fatti. Si tratta di un’imputazione per omicidio colposo costruita sulla ritenuta omissione di cautele specificamente preposte al controllo del “rischio terrorismo”, avvenuto in danno di due dipendenti di una società multinazionale italiana. Quattro lavoratori italiani – dipendenti della società tratta a giudizio – vengono inviati in un cantiere estero, collocato in Libia, paese a quel tempo soggetto a grave instabilità politica e a violenza terroristica (anche con sequestri di persone). Essi dapprima raggiungono, secondo una prassi aziendale non formalizzata, la Tunisia e da lì, invece di raggiungere il cantiere via nave – come la suddetta prassi avrebbe previsto – si muovono via terra ricorrendo a un autista del luogo. Questa scelta, di accedere al cantiere via terra, deriva da un ordine impartito dall’operation manager per la zona Libia della società – un dirigente provvisto di delega e poteri di spesa per il compound libico – in base a esigenze estemporanee che, nella ricostruzione delle sentenze, non verranno mai chiarite a fondo[1]. Nel corso del tragitto, i quattro dipendenti vengono rapiti; dopo aver trascorso un considerevole lasso di tempo in stato di sequestro, due dei quattro lavoratori vengono trasferiti ad opera dei rapitori da un luogo di restrizione a un altro; durante tale trasferimento si verifica un conflitto a fuoco tra i sequestratori e soggetti terzi che causa la morte dei due sequestrati. I due superstiti, lasciati soli nel primo rifugio, riusciranno a fuggire, sopravvivere e, in seguito, racconteranno l’accaduto[2].
3. I soggetti coinvolti nella vicenda e il capo di imputazione: la security fra colpa generica e colpa specifica. Anche se la sentenza della Suprema Corte si occupa principalmente della posizione dell’ente, è opportuno premettere un conciso quadro delle più ampie problematiche giuridiche implicate nella vicenda, stante la loro intima connessione, nonché un riassunto delle conclusioni raggiunte nei giudizi di merito, poi superate dalla sentenza qui presentata.
Vengono tratti a giudizio, oltre all’ente – cui viene contestato l’illecito di cui all’art. 25 septies d.lgs. n. 231/2001 in relazione all’art. 589 c.p. – quattro membri del Consiglio di amministrazione (il Presidente, il Vicepresidente e due componenti privi di deleghe operative), e insieme a loro anche l’operation manager dell’area libica[3]. Quest’ultimo, come detto, era destinatario di una specifica delega alla sicurezza, che gli conferiva autonomi poteri di gestione e di spesa, ivi compreso quello di adottare qualsivoglia misura idonea a garantire il rispetto della sicurezza dei lavoratori nel delicato contesto libico.
Centrale è la struttura dell’addebito colposo che, come spesso accade in tema di colpa, si colloca – soprattutto nel passaggio dal capo di imputazione alla motivazione della sentenza – fra la categoria della colpa generica e quella della colpa specifica[4].
La contestazione dell’omicidio colposo, per come indicata nel capo di imputazione, supera il dato dell’assenza di una disciplina positiva della security nel Testo Unico e risulta primariamente incentrata su negligenza, imprudenza e imperizia. Più in particolare, si contesta ai membri del CdA (in relazione agli artt. 2381 e 2392 c.c., dunque come titolari della posizione di garanzia, del dovere di individuazione e valutazione dei rischi aziendali e del dovere di alta vigilanza sulla gestione della società), l’omissione – pur in presenza di diversi segnali di prevedibilità dell’evento-sequestro di persona[5] – delle misure che sarebbero state necessarie a tutelare l'integrità fisica dei prestatori di lavoro. Tali omissioni avrebbero avuto autonoma rilevanza causale nella complessa serie di eventi successivi: in prima battuta, l’ordine dell’operation manager di disapplicare la prassi aziendale nell’accesso al cantiere (non formalizzata, appunto);quindi, le azioni criminose degli autori del sequestro e dei terzi coinvolti nella sparatoria[6]. Per quanto specificamente riguarda la posizione dell’operation manager, a questi viene attribuita l’assunzione, in fatto, di una posizione di garanzia (definita come “un obbligo di protezione in ordine alle modalità con cui i dipendenti avrebbero dovuto effettuare il trasferimento”). L’ente, infine, viene tratto a giudizio in forza di un capo di imputazione incentrato sull’omessa predisposizione di specifiche procedure e direttive per la gestione del rischio incombente sull’integrità fisica dei lavoratori durante il trasferimento.
Gli aspetti di colpa specifica – che emergeranno più dettagliatamente nelle motivazioni dei tre gradi di giudizio (v. infra § 3) – attengono dunque a violazioni formali del T.U.S.L. connesse all’omessa indicazione nel documento di valutazione dei rischi (“DVR”) della suddetta prassi di accesso al cantiere via nave. L’autonoma rilevanza causale di queste omissioni viene costruita come una sorta di causalità psichica nella prospettiva dei lavoratori[7]: questi, nell’assunto dell’accusa, si sarebbero certamente opposti all’ordine illegittimo dell’operation manager, se solo avessero avuto la possibilità di invocare una violazione formale della disciplina interna dei rischi.
4. I primi due gradi di giudizio. Nel corso dei suoi tre gradi l’esito del giudizio muta radicalmente: da una condanna su tutta la linea, in primo grado, all’assoluzione di tutti gli imputati, incluso l’ente, in Cassazione.
Il Gup di Roma aveva condannato tutti gli imputati (compreso l’ente) e applicato all’operation manager la pena da questi concordata, sulla base delle seguenti ragioni: posta l’indubbia rilevanza causale dell’ordine impartito dall’operation manager, in violazione della prassi adottata dalla società, anche la condotta omissiva dei membri del C.d.A., i quali avevano omesso l’analisi del rischio e la formalizzazione delle relative misure di prevenzione nel documento di valutazione dei rischi (“DVR”), aveva contribuito a creare le condizioni – in particolare l’omessa informazione dei lavoratori – per cui tale condotta potesse attuarsi, così da rendere configurabile una responsabilità colposa per cooperazione nell’omicidio doloso di chi ha esploso i colpi[8]. Analogamente, il Gup condannava l’ente perché l’omessa formalizzazione della procedura poteva comunque qualificarsi come frutto di negligenza (mancata considerazione degli interessi potenzialmente pregiudicabili) e suscettibile di essere qualificata, ex post, quale vantaggio per la società (derivato dal rendere più velocemente disponibili i tecnici per il cantiere e, in ogni caso, nel non dover sopportare i costi economici legati al pernottamento in Tunisia per attendere l'arrivo della nave).
La Corte d’appello di Roma ha invece assolto i componenti del C.d.A., per non avere commesso il fatto, escludendo l’incidenza causale del loro comportamento rispetto all’evento, sulla base dei seguenti argomenti: (i) non è normativamente prevista l'adozione della forma scritta per l'adempimento dell'obbligo informativo; (ii) i lavoratori dipendenti impiegati sul territorio libico erano comunque a conoscenza dell'obbligatorietà dell'utilizzo del mezzo navale anziché terrestre per gli spostamenti verso il cantiere; (iii) il Presidente del C.d.A. aveva sempre mantenuto contatti diretti con l’operation manager[9]; (iv) la decisione di quest’ultimo di procedere allo spostamento via terra era stata frutto di una sua personale iniziativa, non concordata con alcuno e contraria alla prassi costantemente seguita. La Corte territoriale conferma, però, la condanna dell’ente. La responsabilità della società sarebbe consistita nel non avere adottato un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire la commissione di reati (da parte dell’operation manager, che aveva i poteri di gestione dell'unità organizzativa libica); più in particolare: (i) l’assenza di un modello organizzativo idoneo a contrastare scelte estemporanee e autonome dei dirigenti pericolose per l'integrità del lavoratori, né era stato elaborato un codice disciplinare volto a sanzionare le condotte contrarie al suddetto modello; (ii) l’assenza di protocolli di formazione dei dipendenti in relazione al rischio security del sito libico e di una specifica procedura per la prevenzione e per la gestione di sequestri di persona (eventi assolutamente prevedibili e frequenti in una area di crisi); (iii) la prassi sull’accesso al cantiere difettava di ritualità formale e (pertanto) di perentorietà sostanziale a causa della mancata procedimentalizzazione del sistema di applicazione di regole cautelari previste a tutela dei lavoratori e della mancata collocazione all'interno del DVR; (iv) la disinvoltura con la quale l’operation manager ha gestito la situazione, riscontrata dal comportamento dei quattro sequestrati, che non sollevavano alcuna obiezione circa il trasferimento terrestre (nell’evidente consapevolezza che esso non si traducesse nella violazione di alcun rigido protocollo).
5. La decisione della Suprema Corte. Accogliendo le censure della difesa, che si focalizzavano sulla contraddittorietà della sentenza di secondo grado, la Corte di Cassazione annulla la condanna pronunciata nei confronti dell’ente[10].
La motivazione poggia su alcuni punti fermi nella ricostruzione dei fatti, che ovviamente non possono più essere messi in discussione: (i) esistevano, per quanto non formalizzate, disposizioni organizzative che prescrivevano come tassativo l'utilizzo della nave per il trasporto dei lavoratori presso il cantiere[11]; (ii) considerate le dimensioni della società, la gestione del rischio non poteva che prevedere un sistema di deleghe: nel caso di specie, la delega, valida e formale, ricomprendeva la security in Libia dei lavoratori ed era stata effettuata in favore di un operation manager dotato di specifiche competenze tecniche e di una pluriennale conoscenza dei luoghi[12]; (iii) il Presidente del C.d.A. si era sempre mantenuto in contatto con il delegato, ciò che rendeva il comportamento di quest’ultimo un unicum nella storia della società e, pertanto, ancora più imprevedibile[13]; (iv) l’interesse o vantaggio riscontrato – il risparmio dei costi relativi allo spostamento dei lavoratori – sarebbe stato irrisorio se parametrato alle dimensioni di una società multinazionale come quella di specie e considerata la sporadicità della violazione delle prescrizioni ad opera dell’operation manager[14].
Sulla struttura dell’addebito, la Suprema Corte premette che, in astratto, avrebbe potuto porsi una responsabilità dell’ente (ex art. 25 septies, d.lgs. 231/2001), con riferimento all’omissione contestata ai vertici della società (ex art. 17 T.U.S.L.), ovvero la violazione dell’obbligo di disciplina della specifica fonte di rischio security nel DVR e degli obblighi connessi di formazione e scambio di informazioni all’interno della struttura aziendale. La cassazione però afferma che la società e il suo C.d.A. avevano di fatto adottato un modello organizzativo idoneo a prevenire anche il rischio poi tragicamente concretizzatosi e che la violazione formale non avrebbe potuto essere intesa come un antecedente causale rilevante nella catena di eventi che aveva portato alla morte dei due soggetti[15].
Più in particolare, la Cassazione riscontra un cattivo governo, nella motivazione della Corte territoriale, dei più recenti princìpi in materia di responsabilità degli enti[16].
Tali princìpi, secondo la Suprema Corte, sono finalizzati a evitare che la responsabilità dell’ente sia formalisticamente e automaticamente dedotta, in base a schemi logico-presuntivi che richiamano il paradigma della responsabilità oggettiva, dal fatto che un reato sia stato commesso nell’ambito dell’organizzazione societaria. Al contrario, si legge tra le righe della motivazione, anche l’accertamento della responsabilità dell’ente deve seguire un autonomo percorso di natura sostanziale: ne discende che, indipendentemente dalla formale presenza di un modello organizzativo efficace e correttamente implementato, si deve accertare in concreto una “colpa di organizzazione” rispetto alla quale il reato che è stato commesso si ponga in stretto e univoco rapporto di derivazione causale. Chiude la Suprema Corte, sul punto: “si tratta, cioè, proprio di quegli elementi di cui, nel caso di specie, la sentenza impugnata, trattando della responsabilità delle persone fisiche, ha escluso l’esistenza”.
Sul rapporto fra le due forme di responsabilità (della persona fisica e dell’ente) la Corte afferma che: “laddove venga in concreto esclusa, come nel caso di specie, non solo ogni profilo di responsabilità sotto forma di colpa di organizzazione a carico dell’organo gestorio, ma anche il nesso di causalità con gli eventi dannosi verificatisi, non può esserci alcuno spazio logico giuridico per ascrivere una responsabilità amministrativa da reato all’ente”[17].
6. Brevi osservazioni conclusive. La vicenda ha al suo centro una lacuna normativa – la mancanza nel T.U.S.L. di una disciplina per la security – e la sentenza che la conclude si dimostra consapevole dei rischi che si annidano nei tentativi di “chiusura” delle lacune in sede interpretativa: se, infatti, la Suprema Corte ammette l’astratta sussistenza di una fattispecie colposa idonea a punire la mancata gestione del rischio security (anche in assenza di una specifica disciplina sul punto), nella motivazione non vi è traccia delle tecniche argomentative normalmente impiegate, nel contesto della colpa, per colmare le lacune, in primis il richiamo dell’art. 2087 c.c.[18].
A determinare l’esito decisorio, tuttavia, sono i princìpi recentemente sedimentatisi in giurisprudenza riguardo la struttura dell’accertamento della responsabilità dell’ente: un accertamento oggettivo, che deve seguire le cadenze dell’accertamento della colpa dell’individuo persona fisica[19].
Se, infatti, l’analogia strutturale tra la responsabilità dell’individuo e quella dell’ente non deve implicare alcun automatismo nell’accertamento dell’una o dell’altra, la Suprema Corte – in questa sentenza – afferma però tra le righe che l’esclusione della responsabilità del vertice può fungere da sorta di indizio dell’assenza di una colpa di organizzazione[20].
Un indizio che trova riscontro e si corrobora con l’assenza della prova della causalità. L’antecedente causale è, in questi casi, inevitabilmente normativo: esso, come noto, viene indicato dalla regola cautelare che si assume violata[21]. Nelle sentenze di merito – che affermavano la responsabilità dell’ente – questo sarebbe stato da individuarsi nell’omessa formalizzazione della procedura di accesso al cantiere, la quale, se presente, avrebbe certamente comportato la reazione dei dipendenti all’ordine illegittimo e interrotto il nesso di causalità che conduceva all’evento mortale.
Ed è appunto emblematica del distacco della sentenza di legittimità dalle decisioni di merito, la diversa valutazione dell’elemento della mancata opposizione all’ordine illegittimo da parte dei lavoratori, elemento che – secondo la Suprema Corte – deve essere necessariamente provato: l’assenza di opposizione da parte dei dipendenti poteva, ad esempio, essere spiegato in termini di fiducia nei confronti dell’operation manager[22] e nemmeno si è provato che l'assenza di stringenti prescrizioni formali comportasse una più facile trasgressione o elusione della procedura di accesso da parte di quest’ultimo[23].
Si è aperto il lavoro evocando una lacuna di disciplina nel T.U.S.L., nell’assunto che una fattispecie di colpa generica apparisse insufficiente a fronte della complessità di un rischio come quello da security (che richiede competenze specifiche e informazioni affidabili cui, in molti casi, il privato non può accedere). Posto che le lacune, in diritto penale, dovrebbero essere principalmente pensate come lacune di garanzie[24], sullo sfondo di questa vicenda resta l’evidente necessità che il legislatore faccia la sua parte per ricondurre anche questa categoria di rischio alla “cultura delle regole”[25].
[1] Si legge infatti nella pronuncia in esame che “dal tessuto motivazionale delle due sentenze di merito, non è dato di enunciare un'urgenza della società di avere a disposizione a Mellitah i tecnici poi rapiti, non essendo stato esplicitato neanche il compito che i gli stessi sarebbero stati destinati a svolgere nel cantiere” (p. 33).
[2] Si veda in particolare il § 2 del Ritenuto in fatto della sentenza, pp. 5 ss.
[3] Un membro del CdA – il Vicepresidente – verrà giudicato separatamente; opteranno invece per il rito abbreviato i restanti tre (il Presidente e i due componenti privi di deleghe operative) e l’ente; l’operation manager presenterà richiesta di applicazione pena, accolta dal Gup.
[4] Su questo fenomeno si vedano M. Gallo, voce Colpa penale (diritto vigente), in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 638; G. Marinucci, La colpa per inosservanza di leggi, Milano, 1965, p. 198 (in prospettiva più ampia, sull’obsolescenza della regola scritta e il “subentro” della colpa generica a quella specifica); E. Musco, La contestazione dei reati colposi, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, p. 330 ss.; F. Consulich, Il concorso di persone nel reato colposo, Torino, 2023, p. 11 ss., sulla «interscambiabilità, anche a processo aperto, tra colpa generica e specifica», collegata all’alternarsi del piano monosoggettivo con quello plurisoggettivo, con il rischio di «costruire responsabilità per accumulo, una gabbia paralizzante per cui la negligenza altrui comporta un rimprovero a catena, nel contesto di doveri di controllo incrociato» v. anche ibid., p. 333 ss.); Cass. 23 ottobre 1997, Geremia, in Cass. pen., 1998, 3381; Cass. 11 luglio 2001, Barnes, in Cass. pen., 2002, p. 3834, con nota critica di D. Castronuovo, La contestazione del fatto colposo: discrasie tra formule prasseologiche d’imputazione e concezioni teoriche della colpa; più di recente, ex multis, anche Cass., Sez. IV, 15 novembre 2018, n. 53455, Rv. 274500-02.
[5] Fra i quali si evidenziano, in particolare: il fatto che la società avesse partecipato a una riunione presso il Ministero degli Esteri in data 12 febbraio 2015 ove veniva preannunciata l'imminente chiusura dell'Ambasciata italiana per il peggioramento delle condizioni di sicurezza e veniva invitata a lasciare la Libia o, in alternativa, a elevare al massimo le misure di sicurezza; il fatto che la stessa società avesse trasferito, sempre per motivi di sicurezza, gli uffici amministrativi da Tripoli al cantiere di Mellitah in Libia in quanto protetto da servizio di sicurezza armata; il fatto che ENI Nord Africa avesse comunicato alla società un pericolo imminente per il personale in data 13 luglio 2015; cfr. p. 2 della sentenza.
[6] Incidentalmente, trattandosi di evento mortale accaduto all’estero si poneva un problema di giurisdizione. Esso viene risolto – anche la Cassazione vi si sofferma brevemente (cfr. § 1, p. 20 ss.) – considerando che la giurisprudenza, ai fini del radicamento della giurisdizione, ritiene sufficiente la verificazione di almeno un “frammento” di condotta e che tale condizione risultava soddisfatta, perché buona parte delle omissioni contestate si sarebbero verificate nel territorio italiano (la mancata predisposizione di un documento di valutazione dei rischi che contemplasse il rischio concretizzatosi nel trasferimento dei tecnici presso il cantiere in Libia; l’omessa disciplina interna di un sufficiente scambio di informazioni all'interno della struttura aziendale circa tale rischio).
[7] L. Cornacchia, Concorso di colpe e principio di responsabilità penale per fatto proprio, Torino 2004, p. 43 ss. (lo stesso A., in un precedente scritto, Il problema della c.d. causalità psichica rispetto ai condizionamenti mentali, in S. Canestrari-G .Fornasari (a cura di), Nuove esigenze di tutela nell'ambito dei reati contro la persona, in part. p. 222 evidenzia come la causalità psichica funga spesso da strumento per eludere l’accertamento del nesso di causalità); O. Di Giovine, Il contributo della vittima nel delitto colposo, Torino, 2003, p. 303 ss.; più ampiamente L. Risicato, La causalità psichica tra determinazione e partecipazione, Torino, 2007, p. 6.
[8] Non vi è qui lo spazio per riprendere l’annosa tematica della configurabilità del concorso colposo in delitto doloso, soprattutto perché – come si vedrà – la Suprema Corte non si sofferma sul tema (a differenza di quanto aveva fatto, ad esempio, la sentenza di primo grado); tale problematica, come noto, si pone a valle del già accennato tema della declinazione dell’obbligo di impedimento in una dimensione plurisoggettiva (v. supra, nota 4) e, più in particolare, a quello della distinzione concettuale e operativa tra lo schema di cui all’art. 113 c.p. e quello del concorso delle cause indipendenti (art. 41 c.p.); su questi temi si vedano cfr. A. Gargani, Impedimento plurisoggettivo dell’offesa. Profili sistematici del concorso omissivo nelle organizzazioni complesse, Pisa, 2022, p. 171 ss. (in part. p. 196 ss.); F. Consulich, op. cit., p. 137 ss., p. 191 (v. anche cap. VII, in part. p. 493 ss. e la Conclusione n. 7, ibid., p. 524 ss., sulla non configurabilità del concorso colposo in delitto doloso); L. Cornacchia, Concorso di colpe, cit., p. 485 ss.; A. Massaro, La responsabilità colposa per omesso impedimento di un fatto illecito altrui, Napoli, 2013, p. 229 ss., p. 301 ss., p. 391 ss.; A. Perin, Prudenza, dovere di conoscenza e colpa penale, Trento, 2020, p. 315 ss.
[9] La Corte territoriale evidenziava anche che i membri del CdA diversi dal Presidente erano comunque privi di deleghe operative e non erano dunque investiti dei poteri di gestione che avrebbero loro consentito di adottare gli atti organizzativi e le misure cautelari richiesti dalla legge, poteri affidati invece al Presidente; sul principio di affidamento cfr. L. Cornacchia, Concorso di colpe, cit., p. 471 ss.; O. Di Giovine, op. cit., p. 80 ss.; A. Gargani, op. cit., p. 141 ss. (in part. p. 196 ss.); F. Consulich, op. cit, p. 21 ss.; A. Massaro, op. cit., p. 201 ss.
[10] Tanto il PG quanto la difesa dell’ente avevano sostenuto la contraddittorietà della sentenza di secondo grado, la quale appunto assolveva le persone fisiche, ma condannava l’ente. In particolare, secondo il PG – che impugnava in relazione alla sola posizione del Presidente del CdA. – la sentenza sarebbe caduta in contraddizione in tema di causalità, con particolare riferimento alla mancata formalizzazione della procedura, che sarebbe stata fonte di responsabilità per l’ente, ma non per le persone fisiche onerate della redazione del DVR (più in particolare: era contradditorio affermare la responsabilità dell’ente per il difetto di protocolli informativi a beneficio dei lavoratori e, dall’altra, ritenere che il Presidente del CdA avesse adempiuto all'obbligo informativo dei lavoratori, posto che – se la procedura fosse stata formalizzata – questi avrebbero avuto gli strumenti per comprendere la pericolosità della decisione e per opporvisi).
[11] Il PG aveva sostenuto, in sede di ricorso, la sussistenza di un obbligo normativo di informazione e disciplina in forma scritta nel DVR, ciò che sarebbe infatti funzionale all'adempimento dell'obbligo informativo nei confronti dei lavoratori, invocando diverse disposizioni del T.U.S.L. a sostegno di questa lettura, in particolare: art. 28 lett. d), d.lgs. 81/2008 (il documento deve contenere "l'individuazione delle procedure per l'attuazione delle misure da realizzare, nonché dei ruoli dell'organizzazione aziendale che vi debbono provvedere"); art. 29, comma 2, d.lgs. 81/08 (“la valutazione dei rischi e l'elaborazione del documento debba avvenire previa consultazione del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza"); art. 29, comma 4, d.lgs. 81/2008 ("il documento di cui all'articolo 17, comma 1, lett. e quello di cui all'articolo 26, comma 3, devono essere custoditi presso l'unità produttiva alla quale si riferisce la valutazione dei rischi"; cfr. § 3, pp. 8-13 della sentenza). La difesa dell’ente aveva invece sostenuto che, in difetto di una disciplina positiva, la società avesse correttamente ritenuto che nel DVR dovessero essere specificate solo prescrizioni inerenti alla safety (rischi connessi allo svolgimento delle lavorazioni) e non quelli esogeni connessi alla security, disciplinando così in altro modo tale tipo di rischio.
[12] Secondo l’accusa il combinato disposto degli artt. 16 e 30 T.U.S.L. (i.e. l'adozione del modello di organizzazione e gestione in materia di sicurezza dei lavoratori) non è solo necessario per esimere l'ente da responsabilità da illecito amministrativo, ma è anche condizione per ritenere assolto l'obbligo del datore di lavoro di vigilanza sulle persone investite di delega di funzioni e, dunque, per apprezzarne la responsabilità nel quadro dell’art. 40, comma 2, c.p.: la delega conferita all’operation manager non sarebbe dunque valsa a esonerare da responsabilità il Presidente del CdA, sul quale gravava l’alta vigilanza di cui all’art. 16, comma 3, T.U.S.L., obbligo che – non avendo adottato il modello di verifica e controllo – egli non aveva assolto.
[13] La difesa dell’ente aveva evidenziato in sede di ricorso che (i) la scelta dell’operation manager di disporre il trasferimento via terra era stata frutto di una sua personale iniziativa del tutto imprevedibile per i componenti del CdA. (e, comunque, era idonea a interrompere il nesso causale); (ii) l’integrazione della prassi nel sistema di prevenzione è confermata dalla sanzione irrogata nei confronti dell’operation manager e dall’attivazione dell’o.d.v.
[14] La Cassazione si ricollega qui alla nota posizione giurisprudenziale secondo cui i requisiti dell'"interesse" e del "vantaggio" devono essere valutati nel contesto generale dei fatti e in stretto collegamento con le verifiche relative alla sussistenza o meno di una "colpa di organizzazione", dando così rilevanza anche al carattere sporadico o meno della viola-zione; cita sul punto Cass., Sez. IV, 30 giugno 2022, n. 33976 Rv. 283556; Cass., Sez. IV, 3 marzo 2021, n. 22256 Rv. 281276 - 02 (con particolare riferimento all’esiguità del risparmio); Cass., Sez. IV, n. 12149/2021, Rv. 280877-01; Cass., Sez. III, n. 20559 del 24/03/2022, Rv. 283234- 01 (riguardo l’accertamento del requisito del vantaggio a fronte di una singola condotta illecita, sottolineando che il vantaggio deve essere oggettivamente apprezzabile, ad esempio in termini di fatturato o di ampliamento dei settori di operatività, ed eziologicamente collegato all'attività societaria).
[15] Si legge nella sentenza: “il tema […] non è se tali disposizioni fossero contenute nel DVR, ma se vi fosse un'organizzazione aziendale nota e conosciuta a preposti e lavoratori tesa a fronteggiare i rischi all'incolumità degli operai nei loro spostamenti in Libia. E tali disposizioni vengono ritenute anche nella sentenza impugnata come esistenti note al soggetto delegato, agli stessi lavoratori e solo per la prima volta in quella specifica occasione disattese” (cfr. p. 24 della sentenza); sull’importanza della coincidenza temporale tra rimprovero e momento del fatto, onde evitare che il biasimo si spinga oltre il fatto e giunga al modo di essere dell’agente; N. Pisani, La “colpa per assunzione” nel diritto penale del lavoro, Napoli, 2012, p. 115.
[16] Nel suo argomentare, la Suprema Corte, ha cura di distinguere il profilo dell’assenza, inidoneità o insufficiente attuazione del modello, da quello della colpa di organizzazione, citando sul punto Cass., Sez. IV, 15 febbraio 2022, n. 18413, Rv. 283247-01 (la quale al § 3 afferma “Pertanto, l'assenza del modello, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell'illecito dell'ente. Tali sono, oltre alla compresenza della relazione organica' e teleologica tra il soggetto responsabile del reato presupposto e l'ente (cd. immedesimazione organica "rafforzata"), la colpa di organizzazione, il reato presupposto ed il nesso causale che deve correre tra i due”; nonché Cass, Sez. IV, 8 gennaio 2021, n. 32899 (sul disastro ferroviario di Viareggio) e Cass., Sez. IV, 28 marzo 2023, n. 21704, in C.E.D. 28464.
[17] Cfr. § 7, p. 34 della sentenza.
[18] Il riferimento all’art. 2087 c.c. è invece frequentissimo nella sentenza di primo grado; sulla funzione “riempitiva” dell’art. 2087 c.c. si veda C. Brusco, in G. Casaroli, F. Giunta, R. Guerrini, A. Melchionda (a cura di), La tutela penale della sicurezza del lavoro. Luci e ombre del diritto vivente, Pisa 2015, 338; sulla natura inevitabilmente assiologica delle lacune R. Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, pp. 134 e 161, nota 21.
[19] È il merito – quello di rappresentare un definitivo passo di assimilazione della responsabilità dell’ente a quello dell’individuo persona fisica – che la dottrina ha subito riconosciuto alla sentenza conclusiva del noto Caso Impregilo; Cass., Sez. VI, 11 novembre 2021, n. 23401, in questa Rivista, 27 giugno 2020, con nota di C. Piergallini, Una sentenza “modello” della cassazione pone fine all’estenuante vicenda “Impregilo” (si veda in part. il § 3.1. nel contributo dell’A., sul tema della costruzione del tipo); E. Fusco-C.E. Paliero, L’“Happy end” di una saga giudiziaria: la colpa di organizzazione trova (forse) il suo tipo, in Sist. pen.-Riv. trim., n. 9/2022, in part. p. 125 e p. 129 ss. (in particolare il “punto” e “contrappunto” fra i due Aa. proprio in relazione alla suddetta assimilazione strutturale); F. Centonze, Il crimine dell’“attore decisivo”, i limiti della compliance e la prova “certa” della colpa di organizzazione. Riflessioni a margine della sentenza “Impregilo”, in Cass. pen., 2022, p. 4372 ss.; A. F. Tripodi, L’elusione fraudolenta del modello: prove di gestione ermeneutica, in E. Amati-L. Foffani-T. Guerini (a cura di), Scritti in onore di Nicola Mazzacuva, Pisa, 2023, p. 625.
[20] Si veda il brano riportato in conclusione del precedente paragrafo; anche una delle pronunce richiamate dalla Suprema Corte (Cass., n. 18413/2022, in part. § 6) ribadisce l’importanza del fatto che la colpa di organizzazione sia rigorosamente provata e non confusa o sovrapposta con la colpevolezza dell’autore del reato; sulle interrelazioni delle due forme di responsabilità (e sui rischi di estensione della responsabilità colposa concorsuale, derivanti dall’assimilazione alla colpa di organizzazione) si veda ancora F. Consulich, op. cit., cap. V (in part. p. 370, nota 115; la riflessione dell’A., peraltro, si snoda anche attraverso un’approfondita analisi del caso di Viareggio – ibid., p. 410 – che, come detto, anche nella motivazione di questa sentenza lascia una traccia rilevante, proprio sul coordinamento tra le due forme di responsabilità; v. p. 31 della sentenza).
[21] Cfr. G. Forti, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano 1990, p. 327 e p. 503; F. Giunta, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa. I. La fattispecie, Padova, 1993, p. 96, p. 197; C. Piergallini, voce Colpa (diritto penale), in Enc. dir., Annali X, 2017, p. 227 e p. 241; O. Di Giovine, op. cit., p. 356; A. Perin, Prudenza, dovere di conoscenza e colpa penale, Trento, 2020, p. 47: K. Summerer, Causalità ed evitabilità, Pisa, 2013, p. 308 ss.; M. Mattheudakis, L’imputazione colpevole differenziata, Bologna, 2020, p. 63 ss.
[22] Cfr. p. 24 della sentenza, ove si rappresenta che tale ascendente sui lavoratori – in capo all’operation manager – si traduceva anche in una più intensa idoneità del contegno di quest’ultimo a interrompere il nesso causale.
[23] Cfr. p. 26 della sentenza, ove si rimarca il fatto che l’operation manager, a seguito dei fatti che hanno portato al processo, è stato sospeso dall'incarico, poi sottoposto a procedimento disciplinare all'esito del quale è stato destituito dall'incarico stesso e assegnato ad altra mansione, di minor rilevanza) tanto da un punto di vista organizzativo che remunerativo).
[24] Cfr. K. Tiedemann, Tatbestandsfunktionen im Nebenstrafrecht. Untersuchungen zu einem rechtstaatlichen Tatbestandsbegriff, entwickelt am Problem des Wirtschaftsstrafrecht, 1969, Tübingen, p. 18; F. Sgubbi, Il diritto penale incerto ed efficace, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, in part. p. 1195.
[25] Pare, a chi scrive, inevitabile una declinazione nel senso della co-gestione pubblico-privata di tale rischio; per riferimenti, volendo, F. Donelli, La violenza come infortunio: specificare la colpa e ragionare per principi, in Leg. pen., 2021, p. 23 e p. 36.