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28 Ottobre 2025


Il volto costituzionale della pena: aspetti sostanziali e processuali


Pubblichiamo di seguito il testo della relazione tenuta dal dott. Guglielmo Leo nell'ambito del corso "I principali problemi nella determinazione del trattamento sanzionatorio: dalla motivazione all'esecuzione" tenutosi presso la Scuola Superiore della Magistratura a Scandicci dal 20 al 22 ottobre 2025. 

Il testo è consultabile anche in allegato. 

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Il contributo che mi viene richiesto riguarda la disciplina di rango costituzionale in materia di pena. Penso sia utile, in questa sede, condurre l’analisi direttamente nella prospettiva del sindacato di legittimità, della cui efficacia la giurisdizione ordinaria è protagonista essenziale.

La giurisprudenza ha progressivamente delineato la fisionomia “sostanziale” della disciplina in questione, anche con riguardo ai parametri acquisiti per il tramite del diritto sovranazionale. A questo proposito si sviluppano le note che seguono. Tali note sono per altro inscindibilmente connesse ad una considerazione “parallela” delle regole proprie del giudizio costituzionale, che sarà sviluppata in una seconda relazione, a sua volta declinata sullo specifico tema del controllo di legittimità delle previsioni sanzionatorie.

 

1. Per lungo tempo, nella giurisprudenza costituzionale, un sindacato sulle scelte sanzionatorie del legislatore è stato considerato inammissibile.

Per un verso, la lettera e la ratio dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953 sono state valorizzate rigidamente, senza cioè l’odierna consapevolezza che le norme costituzionali impongono vincoli al legislatore ben oltre divieti espressi e immediatamente recepibili. Diceva e dice la norma, com’è noto, che «il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento». Ed allora, si diceva: l’art. 25, secondo comma, Cost., impone per la legge penale la sola condizione dell’anteriorità rispetto al comportamento punibile; dunque la Costituzione riconosce un’ampia discrezionalità al legislatore nella determinazione delle proprie politiche criminali. In particolare – si diceva – dovrebbe riconoscersi una assoluta libertà nelle scelte sanzionatorie, nel quomodo così come nel quantum della pena, al fine di stabilire le misure punitive più adeguate a tutelare i beni oggetto di ciascuna norma incriminatrice, nei loro limiti minimi e massimi.

Nondimeno è cresciuto nel tempo, con prolegomeni addirittura risalenti, il “bisogno di sindacato”, soprattutto in tema di proporzionalità (molto meno in punto di legittimità intrinseca delle incriminazioni, e ancor meno in punto di legittimità dei vuoti di tutela penalistica).

Una spiegazione del fenomeno, tra le molte, è costituita dallo storico ritardo del legislatore nell’opera di complessivo adeguamento del sistema penale all’ordinamento di valori ed interessi scaturito dalla Costituzione repubblicana, ed alla stessa evoluzione dell’economia, dei rapporti familiari, dei costumi sociali, dei bisogni e dei diritti riconosciuti alla persona umana.

Interventi di riforma parziali e contingenti hanno generato un diritto penale frammentato (e non semplicemente frammentario), il cui livello di incoerenza è stato moltiplicato dalla ciclica alternanza tra opzioni securitarie e interventi di segno moderatore. Ne risulta un quadro di elevata protezione (o, meglio, di eccessiva penalizzazione) soprattutto riguardo a valori tipici di uno Stato autoritario e di una società non solidale, con conseguenti problemi di plateale anacronismo (e vuoti concomitanti di tutela per diritti emergenti). Assestamenti disorganici sono stati ottenuti, per lungo tempo, allargando i margini della discrezionalità giudiziale (si pensi alla risalente introduzione delle attenuanti generiche, ed alla “liberalizzazione” del giudizio di comparazione tra circostanze) e poi, più recentemente, restringendo quegli stessi margini, a protezione dell’effettività di politiche sanzionatorie concepite in termini di deterrenza, di valori edittali sempre più esasperati, di meccanismi applicativi sempre più rigorosi e caratterizzati da automatismi sfavorevoli.

Al centro della critica giudiziale, per ragioni cui già accennavo e che emergeranno progressivamente, il tema della proporzionalità del trattamento sanzionatorio.

Il principio di proporzionalità eccede grandemente la materia penale, e costituisce da molti anni un cardine fondamentale della giurisdizione costituzionale. Semplificando al massimo, una giurisprudenza particolarmente ispirata dal confronto con la dimensione unionale e con i sistemi sovranazionali di garanzia dei diritti fondamentali afferma il principio per il quale, in tale materia, ogni compressione deve trovare riscontro in una speculare e proporzionale espansione di tutela di altri diritti fondamentali: compressioni senza causa (id est con cause diverse), o comunque senza riscontri adeguati, sono da considerare in linea di tendenza illegittime (sentenza n. 270 del 2010 e successive). In altre parole, esistono un requisito di necessità e un dovere di individuazione del minor sacrificio utile. Recenti ed autorevoli contributi dottrinali hanno posto in evidenza la differenza strutturale tra questa espressione del principio, definita prospettica, e quella propria del sindacato sui trattamenti sanzionatori, definita retrospettiva. Certo, ma si può ben dire che la protezione penale di determinati beni comporta dei costi sociali, umani e finanziari sempre elevati, e che l’applicazione della pena deve trovare compensazione proporzionale in termini di prevenzione e repressione dei comportamenti lesivi dei beni in questione.

 

2. È opportuna una considerazione introduttiva di carattere generale. Il problema della proporzionalità può essere posto in termini logici tanto riguardo ad eccessi del trattamento sanzionatorio quanto con riferimento ad una ingiustificata levità della pena, fino al piano contiguo delle omissioni di tutela a fronte di ipotetici obblighi costituzionali di protezione penale.

Qui però il terreno è stato storicamente segnato da un altro principio fondamentale della giurisdizione costituzionale, sempre costruito sul secondo comma dell’art. 25 Cost., cioè il divieto di decisioni in malam partem, ritenuto perché, altrimenti, la punizione dei consociati dipenderebbe in tutto od in parte dalla decisione della Corte, e non dalla legge in senso formale.

Anche qui, com’è noto, la giurisprudenza è in movimento, perché sono state individuate situazioni nelle quali l’intervento correttivo è possibile, fermo restando il divieto di sua efficacia retroattiva. Penso ovviamente alla categoria delle norme penali di favore (sentenza n. 394 del 2006 e successive), o alle più recenti soluzioni per atti normativi assunti in violazione dell’art. 76 Cost., o ancora con riguardo a materie per le quali ricorrano specifici obblighi internazionali di adeguata protezione (per una puntuale e aggiornata ricognizione, a cura della stessa Consulta, può vedersi la sentenza n. 95 del 2025, concernente l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio).

L’argomento chiederebbe ovviamente una trattazione dedicata. Mi limito a dire, in questa sede, che la Corte non ha mai elevato valori edittali di pena per l’asserito difetto di proporzionalità rispetto al valore del bene giuridico, anche in termini di comparazione con livelli sanzionatori per beni ritenuti analoghi.

Ancor oggi, in altre parole, il discorso sulla proporzionalità della pena si sostanzia in sollecitazioni ad un decremento della risposta sanzionatoria.

 

3. Il sindacato sulla proporzionalità della pena si è storicamente affermato anzitutto sotto il profilo del principio di eguaglianza ex art. 3 Cost. Da tale principio si è tratta la naturale implicazione della necessità che, a fatti di diverso disvalore, corrispondano diverse reazioni sanzionatorie, così come è necessario che fatti di disvalore analogo siano sanzionati con pene comparabili.

Si è progressivamente legittimato un sindacato sulla misura della pena secondo uno schema triadico, imperniato sul confronto tra la previsione sanzionatoria censurata e quella – di portata inferiore – apprestata per altra figura di reato di pari o addirittura maggiore gravità, assunta quale tertium comparationis.

Ovviamente, il carattere geometrico del ragionamento è più apparente che reale. Esclusa l’ipotesi marginale di una sostanziale duplicazione delle fattispecie incriminatrici, risulta decisiva l’identificazione dei criteri di comparazione tra le diverse figure (oggetto di tutela, modalità delle condotte, oggetto materiale e portata dell’offesa, ecc.).

Per la verità, vi sono casi nei quali il differente trattamento cozza contro divieti espressi di discriminazione. Per esempio, si possono richiamare i risalenti interventi della Consulta sulle fattispecie lato sensu mirate alla tutela del sentimento religioso, segnate da maggior rigore punitivo per condotte lesive della religione cattolica, interventi soprattutto di parificazione al ribasso delle pene, ritenuta la violazione dell’art. 3 Cost. ma anche dell’art. 8 (il principio di laicità dello stato e di piena equiparazione della tutela penale dei culti: sentenze n. 327 del 2002, n. 508 del 2000 e n. 329 del 1997).

Allo schema puro del ragionamento triadico la Corte si è comunque rifatta in varie ed ormai risalenti occasioni, con varianti che qui non possiamo analizzare partitamente. Qualche esempio: sentenza n. 218 del 1974, relativamente a sperequazioni interne alla disciplina penale della caccia, sentenza n. 409 del 1989, in materia di renitenza alla leva obbligatoria.

Già quei primi interventi si caratterizzavano per le diverse tipologie di incisione sul dettato normativo. In alcuni casi v’era la classica sostituzione dei valori edittali attraverso il riferimento a fattispecie ritenute analoghe per gravità (per un esempio, sentenza n. 409 del 2009, in materia di renitenza alla leva e obiezione di coscienza). In altri casi si rinunciava alla sostituzione espressa, rimuovendo la norma censurata e lasciando il compito di perequazione alla “espansione” di norme generali, sempre con riferimento alla necessità di adeguare la sanzione, in termini di differenza non sproporzionata, rispetto a fatti analoghi. Esemplare in questo senso la importante sentenza n. 341 del 1994, che giudicò intollerabile che la pena minima per l’oltraggio fosse di dodici volte più elevata di quella per l’ingiuria, e dunque eliminò la previsione edittale concernente il minimo, così che lo stesso discese a quindi giorni (lo stesso valore previsto per l’ingiuria) secondo la regola generale dell’art. 23 c.p. Ancora può citarsi, sempre a titolo di esempio riguardo a decisioni “pioneristiche”, la sentenza n. 26 del 1979, che, trovando ingiustificata la equiparazione della pena prevista dal codice militare per l’omicidio ed il tentato omicidio di un superiore, eliminò dalla previsione i riferimenti al delitto tentato, rilevando che così si “riespandeva” la norma comune del codice penale sul tentato omicidio, meno severa. Decisione reiterata riguardo ai delitti militari di lesione personale (sentenza n. 103 del 1982) e minaccia e ingiuria (sentenza n. 102 del 1985), a fattispecie di violazione del segreto militare (sentenza n. 49 del 1989) e insubordinazione militare (sentenza n. 22 del 1991).

In altri casi ancora si eliminava radicalmente l’incriminazione, o al fine di lasciare il passo a previsioni diverse e più temperate, o addirittura (ma qui si fanno vaghi i confini con il requisito di offensività) producendo di fatto una situazione di irrilevanza penale della condotta. A tale proposito si menziona una sentenza risalente, chiamata a pronunciarsi sulla normativa mirata ad imporre una copertura assicurativa per attività di caccia, che irragionevolmente parificava il trattamento di chi non fosse assicurato e quello di chi, pur essendolo, non avesse sulla persona la relativa certificazione al momento del controllo: libero il legislatore di punire anche la seconda ipotesi, ma con pena ridotta (cioè proporzionata) ma, nel frattempo, eliminata la fattispecie (sentenza n. 218 del 1974; sempre in tema di caccia, la sentenza n. 176 del 1976).

In qualche caso la Corte era giunta a sostituire l’ambito di riferimento della previsione punitiva, trasformando un delitto in contravvenzione o addirittura un reato in illecito amministrativo (sentenza n. 426 del 2004).

In tutti i casi citati il ragionamento triadico era forma essenziale ed esclusiva di valorizzazione del principio di proporzionalità, anche se – come detto – trascese ben presto lo schema della sostituzione di pene.

 

4. A questo punto va detto, per altro, come già negli anni ‘90 la giurisprudenza costituzionale esplicitamente valorizzasse anche la diretta relazione esistente tra pena e fatto, a prescindere dal raffronto con norme analoghe, raffronto che tendeva ad individuare un sintomo della sproporzione, pur restando riferimento ineliminabile per la individuazione di un editto ragionevole.

Prendiamo a prestito da una sentenza fondamentale nella nostra materia (sentenza n. 341 del 1994), concernente come detto la figura originaria dell’oltraggio a pubblico ufficiale: «[…] il principio secondo cui appartiene alla discrezionalità del legislatore la determinazione della quantità e qualità della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale che deve essere riconfermato: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, né stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, come è stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza più recente, alla Corte rimane il compito di verificare che l’uso della discrezionalità legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza». Più avanti, citando la sentenza n. 409 del 1989 o le sentenze n. 343 e n. 422 del 1993: «il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3, primo comma, della Costituzione, esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali». Più in generale, «il principio di proporzionalità […] nel campo del diritto penale equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest’ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni». Come già accennato, e come si vede, una declinazione specifica del più generale schema di bilanciamento tra diritti fondamentali quale strumento di misurazione della proporzionalità.

In altre decisioni dell’epoca, inoltre, la Corte aveva espresso la convinzione che la finalizzazione rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell’esecuzione, ma costituisca parametro di conformazione della stessa ed astratta previsione punitiva. Dalla nota sentenza n. 313 del 1990 (in tema di patteggiamento): «[…] la necessità costituzionale che la pena debba “tendere” a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue […] Se la finalità rieducativa venisse limitata alla fase esecutiva, rischierebbe grave compromissione ogniqualvolta specie e durata della sanzione non fossero state calibrate (né in sede normativa né in quella applicativa) alle necessità rieducative del soggetto».

Parlerei insomma di una sorta di transizione, dalla logica della uguaglianza formale ad una logica meno rigida, ove resta centrale la comparazione ma il ragionamento comprende pur sempre una relazione diretta tra fatto e pena. Per usare un linguaggio più aggiornato, compare sul campo la questione della cd. proporzionalità intrinseca della previsione punitiva.

 

5. Se di transizione si trattava, comunque, occorre prevenire l’idea di un salto nel processo evolutivo della giurisprudenza. Pur dopo la sentenza sull’oltraggio la Corte giudicava indispensabile la individuazione di un tertium comparationis, anche quale strumento di verifica della irragionevolezza della norma punitiva, prima ancora che della ammissibilità della questione. Ecco, per esempio, la sentenza (n. 217 del 1996) concernente il reato di blocco stradale: «[…] non risultando nella specie rinvenibile un pertinente e univoco termine di raffronto, qualsiasi intervento che si proponesse di soddisfare l’obiettivo che i rimettenti mostrano di perseguire, finirebbe ineluttabilmente per risultare invasivo della sfera delle scelte discrezionali che soltanto il legislatore è abilitato a compiere».

Ancora nel 2001 (sentenza n. 287): «[…] Nel quadro di questi orientamenti giurisprudenziali occorre dunque accertare se la fattispecie oggetto della norma censurata sia omologa rispetto al tertium comparationis individuato dal rimettente con riferimento alla corrispondente condotta […]».

E ancora nel 2005 (sentenza n. 325): « […] le sentenze di accoglimento per avere il legislatore superato il limite della ragionevolezza sono state pronunciate in situazioni in cui l’arbitrarietà delle scelte legislative derivava dal diretto confronto tra fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio (sentenze n. 102 del 1985, n. 341 del 1994 e n. 287 del 2001), ovvero in casi in cui era prevista la medesima pena sia per il delitto consumato (omicidio), sia per il tentativo del medesimo delitto (commesso da un militare contro un superiore: sentenza n. 26 del 1979)».

 

6. Una spinta decisiva all’evoluzione verso l’assetto attuale può essere a mio avviso attribuita alla valorizzazione di parametri ulteriori del dettato costituzionale, in aggiunta a quello iniziale e fondamentale dell’art. 3 Cost.

Il “bisogno” di sindacato ha portato a ragionare sulle implicazioni di una norma fondamentale della materia penale costituzionale, qual è l’art. 27 Cost., ed anzitutto il terzo comma della disposizione, relativamente alla necessaria finalizzazione rieducativa della pena.

Semplificando all’osso, il ragionamento è questo. Una pena sproporzionata per eccesso rispetto alla gravità del fatto tipico (ma vedremo tra breve che la sequenza si estenderà alla gravità del fatto concreto ed alla personalità dell’autore) non può che essere vissuta dal destinatario come ingiusta, con un obiettivo conseguente ostacolo alla risocializzazione attraverso la pena stessa (ad esempio, sentenza n. 68 del 2012, introduttiva dell’ipotesi del fatto lieve per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione).

Si può dire con le parole della sentenza n. 112 del 2019 (in materia di confisca obbligatoria per reati societari): «La valorizzazione, accanto all’art. 3 Cost., del parametro rappresentato dall’art. 27, terzo comma, Cost. – e in particolare del necessario orientamento alla rieducazione che la pena deve possedere – ha condotto in altre pronunce questa Corte (a partire dalle sentenze n. 343 del 1993, n. 422 del 1993 e n. 341 del 1994) a estendere il proprio sindacato anche a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in rapporto – direttamente – alla gravità delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, senza che sia più necessaria l’evocazione di alcuno specifico tertium comparationis da parte del rimettente, se non al limitato fine di assistere questa Corte nell’individuazione del trattamento sanzionatorio che possa sostituirsi, in attesa di un sempre possibile intervento del legislatore, a quello dichiarato incostituzionale (in questo senso, in particolare, sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016). Ciò nella consapevolezza che pene eccessivamente severe tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato, e finiscono così per risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione (sentenza n. 68 del 2012).

La proporzionalità viene qui in considerazione nel suo profilo “intrinseco”, anziché “relazionale”: in gioco non è più un imperativo di coerenza interna dell’ordinamento, ma un profilo di “giustizia” – o quanto meno, l’esigenza di evitare l’inflizione di sanzioni manifestamente eccessive rispetto alla gravità del fatto commesso. A essere poste direttamente in relazione sono, in altre parole, per un verso le sofferenze provocate dalla pena (o dalla sanzione “punitiva”) e, per altro verso, il danno provocato attraverso l’illecito ai diritti delle vittime e agli interessi lesi dalla condotta illecita. In questi casi, l’attenzione della Corte si concentra, essenzialmente, sulla sanzione minima prevista dal legislatore, che segna il confine sotto il quale il giudice non può scendere, per valutare se questo risultato sanzionatorio, normativamente imposto, possa giustificarsi come reazione non manifestamente eccessiva a fatti collocati in corrispondenza del livello inferiore di gravità tra tutti quelli ricompresi della fattispecie astratta.

 

7. C’è da aggiungere, nel quadro di progressiva emersione dei parametri rilevanti in materia di proporzionalità, un riferimento all’influenza crescente dell’art. 49, terzo comma, CDFUE, anche se va ricordato che la disposizione si applica solo a materie regolate dal diritto unionale (da ultimo, e per esempio, la sentenza n. 7 del 2025, concernente la legittimità costituzionale dell’art. 2641, primo e secondo comma, del codice civile).

Per la verità, a prescindere dal suo ambito applicativo, la norma è stata a lungo considerata improduttiva di effetto diretto (la Corte europea ha negato efficacia diretta all’art. 49 con la sentenza Link Logistic (C-384/17), pronunciata il 4 ottobre 2018). Molto di recente tuttavia, secondo autorevole dottrina, vi è stato un overruling ad opera della Grande Sezione, con una sentenza dell’8 marzo 2022 in causa N.E.

La sentenza in questione ha definito un secondo rinvio pregiudiziale della giurisdizione amministrativa austriaca, in un caso di pena pecuniaria proporzionale, ritenuta eccessiva. La questione per vero riguardava direttamente l’articolo 20 della direttiva 2014/67, concernente la disciplina dell’assegnazione transfrontaliera di lavoratori, norma che recita: «Gli Stati membri stabiliscono le sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione della presente direttiva e adottano tutte le misure necessarie per garantirne l’osservanza. Le sanzioni previste sono effettive, proporzionate e dissuasive».

Nel confermare il contrasto con l’art. 20 della norma nazionale, già ritenuto a seguito di un primo rinvio pregiudiziale (ordinanza 19 dicembre 2019), la Grande Sezione scrive che, per eliminare l’incompatibilità della legge nazionale con il diritto UE, non è necessario disapplicare interamente la normativa nazionale, essendo viceversa sufficiente una disapplicazione parziale che consenta di ricondurre entro i limiti della proporzione le sanzioni applicabili.

Si aggiunge tra l’altro, nel confutare le obiezioni al principio, che alla disapplicazione non osta il concorrente principio di legalità; che la certezza del diritto non è posta in discussione dal divieto di pene sproporzionate, che ha carattere generale e rappresenta solo una specifica estrinsecazione del principio di proporzionalità, la cui concreta gestione da sempre è affidata al giudice nel sistema giuridico dell’Unione; che il rischio di applicazioni diseguali della legge è fisiologico ogniqualvolta si richiede al giudice di concretizzare clausole generali.

Ma qui interessa la proiezione generale della pronuncia, secondo cui il principio di proporzionalità costituisce un principio generale del diritto dell’Unione, che «si impone agli Stati membri nell’attuazione di tale diritto anche in assenza di armonizzazione della normativa dell’Unione nel settore delle sanzioni applicabili»; principio sancito in materia penale dall’art. 49, paragrafo 3, della Carta, «che l’articolo 20 della direttiva 2014/67 si limita a richiamare» e che «presenta carattere imperativo».

Per quanto si fondi ancora su esili argomenti di carattere logico e letterale, non avendo per quel che consta ancora trovato nel dibattito scientifico e giurisprudenziale un rilievo adeguato alla importanza del principio, la soluzione di applicazione diretta del divieto di irrogare pene sproporzionate rappresenterà nell’immediato futuro un tema dominante. Sempre fin d’ora ricordando come, nella propria giurisprudenza recente, la Consulta abbia chiarito che le questioni afferenti a norme che potrebbero essere disapplicate dal giudice rimettente sono comunque ammissibili, e che anzi il ricorso alla Corte appare consigliabile in vista della eliminazione in radice della norma illegittima, così da prevenire trattamenti disuguali dovuti al difforme orientamento di singoli giudici comuni in materia di disapplicazione.

Si può aggiungere qui anche un brevissimo riferimento all’art. 4 del Protocollo addizionale n. 7 alla CEDU, che concerne il divieto di bis in idem riguardo a misure sostanzialmente penali.

Com’è noto il principio ha una dimensione propriamente processuale (divieto di un secondo giudizio), ma ne sono progressivamente emersi i profili sostanziali, nella prospettiva del doppio regime sanzionatorio (amministrativo e penale) e per la conseguente possibilità che dalla doppia condanna emerga una pena complessivamente sproporzionata.

Come pure è noto, in base alla giurisprudenza convenzionale (ad esempio A. e B. contro Norvegia, Corte Edu, Grande Sezione, 15 novembre 2016), il doppio regime è considerato legittimo ed altrettanto vale per l’eventualità della doppia sanzione, a condizione che tra il procedimento amministrativo e quello penale sussista una connessione sostanziale e temporale tale per cui le sanzioni siano parte di un unico sistema, e che, in tal caso, sia comunque garantito un meccanismo compensativo che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima, onde evitare che la pena complessivamente irrogata sia sproporzionata (nella giurisprudenza comune si vedano Cass., sez. 3, 11 aprile 2024, n. 26527, CED n. 286792-4; Cass., sez. 3, 15 ottobre 2021, n. n. 2245/22, CED n. 282799-01).

A conclusioni sostanzialmente conformi è giunta anche la giurisprudenza unionale, tenuto conto che le norme della Convenzione dei Diritti dell’uomo si applicano sempre nell’interpretazione data dalla Corte Edu. La Corte di Giustizia, in applicazione dell’art. 50 della Carta di Nizza, applica infatti le norme convenzionali nell’interpretazione data dalla Corte Edu (sentenze Garlsson Real Estate SA/altri, C-537/2016, Di Puma/Consob C598/2016 e C-597/2016 e Menci C-524/2015).

Dunque, va considerata la complessiva congruenza del trattamento sanzionatorio, che, nel momento dell’irrogazione della “seconda” sanzione, non può prescindere dalla valutazione del livello di afflittività attinto dalla sanzione irrogata “per prima”, al fine di verificare la proporzionalità della risposta complessiva al fatto illecito. A tal fine, se di questo si tratta, il giudice penale può applicare circostanze attenuanti generiche, può adeguare gli aumenti di pena applicabili per i reati-satellite, può tener conto delle condizioni economiche del reo affinché il trattamento sanzionatorio sia, nel suo complesso, dissuasivo-rieducativo (e non solo meramente retributivo). Ma lo stesso giudice può anche applicare una sanzione inferiore ai minimi edittali.

 

8. Stiamo ricostruendo un processo evolutivo, segnato in larga parte, come detto, dalla valorizzazione di ruolo dell’art. 27 Cost. (anche con riguardo al primo comma, come si vedrà tra breve).

Nella fase che ora interessa, il ruolo del tertium comparationis tende a slittare dal giudizio di merito (la pena è sproporzionata in quanto diversa da quella comminata altrove) al piano della ammissibilità (la Corte non può inventare sanzioni diverse, ma deve individuare una soluzione costituzionalmente obbligata, pena la violazione della discrezionalità riservata al legislatore).

L’approdo risulta evidente, ad esempio, grazie alla sentenza n. 22 del 2007. In particolare, la sentenza descrisse la disciplina penale dell’immigrazione come «quadro normativo [che] presenta squilibri, sproporzioni e disarmonie, tali da rendere problematica la verifica di compatibilità con i principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità della pena e con la finalità rieducativa della stessa». Il «sindacato di costituzionalità, tuttavia, può investire le pene scelte dal legislatore solo se si appalesi una evidente violazione del canone della ragionevolezza, in quanto ci si trovi di fronte a fattispecie di reato sostanzialmente identiche, ma sottoposte a diverso trattamento sanzionatorio (ex plurimis, tra le pronunce più recenti, sentenze n. 325 del 2005, n. 364 del 2004; ordinanze numeri 158 e 364 del 2004). Se non si riscontra una sostanziale identità tra le fattispecie prese in considerazione, e si rileva invece, come nel caso in esame, una sproporzione sanzionatoria rispetto a condotte più gravi, un eventuale intervento di riequilibrio di questa Corte non potrebbe in alcun modo rimodulare le sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria valutazione a quella che spetta al legislatore».     

Insomma, finanche in situazioni conclamate di irragionevolezza (o di violazione dei principi di proporzionalità e di finalizzazione rieducativa della pena), la giurisprudenza costituzionale si arrestava sulla trincea del divieto d’esercizio d’una propria discrezionalità.

Si può citare nello stesso senso una decisione ancor più recente, la n. 179 del 2017, relativa al comma 4 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/90, e dunque ai livelli sanzionatori per fatti di narcotraffico.

Nella sentenza la Corte ricapitola lo stato dell’arte e chiarisce come la propria giurisprudenza si dispieghi tra due poli, in costante tensione fra loro: da un lato, il dovuto riguardo alle scelte politiche, quale componente necessaria del principio di legalità; dall’altro, la indefettibile tutela degli ulteriori principi e diritti costituzionali, a cui deve conformarsi anche il legislatore della punizione. Una volta identificata la violazione del dettato costituzionale, residua il problema del trattamento sanzionatorio da “sostituire” a quello rimosso, non potendo la Corte sostituire alle scelte del legislatore, pur ritenute costituzionalmente illegittime, proprie e autonome quantificazioni punitive, senza invadere un ambito affidato in primo luogo al legislatore.

Va messo in rilievo come, anche nel caso di specie, la Corte abbia riconosciuto di trovarsi di fronte ad una disciplina illegittima, riscontrando ciò che ha definito un’anomalia sanzionatoria. Tuttavia, e sempre nel caso di specie, sono apparse possibili più opzioni sanzionatorie. Conseguentemente, «il “rispetto della priorità di valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per raggiungere un fine costituzionalmente necessario” (sentenza n. 23 del 2013) [ha comportato] una dichiarazione di inammissibilità delle questioni».

A questo proposito, comunque, conviene compiere una piccola incursione sul terreno delle metodologie utilizzate dalla Corte per fronteggiare i casi di violazione della legalità costituzionale in presenza di forti margini di discrezionalità per la reductio ad legitimitatem. In chiusura della sentenza si legge infatti un “pressante auspicio” rivolto al legislatore, affinché eserciti le proprie prerogative ed elimini la violazione in atto. Come in altri casi, il legislatore è poi rimasto inerte, tanto che nel giro di un biennio la Corte ha comunque eliminato la disciplina incostituzionale (infra, sentenza n. 40 del 2019).

 

9. Comunque, proprio sul piano della disciplina di riferimento per l’individuazione della sanzione proporzionata, è poi maturato un sensibile scarto nel percorso della giurisprudenza costituzionale.

Con la sentenza n. 236 del 2016 la Corte – fondando la decisione sui principi di ragionevolezza e di proporzionalità – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 567, secondo comma, cod. pen., nella parte in cui puniva il delitto di alterazione di stato mediante falso con la pena della reclusione da cinque a quindici anni, anziché con la pena della reclusione da tre a dieci anni, prevista dal primo comma del medesimo art. 567 con riguardo all’alterazione di stato mediante sostituzione di un neonato.

La lettura della sentenza è utile in primo luogo per l’accurata ricognizione dei parametri rilevanti per il giudizio di proporzionalità, ovviamente riguardo all’epoca della decisione. Erano citati l’art. 3 e l’art. 27, terzo comma, Cost. non senza un richiamo all’art. 49, terzo paragrafo, della Carta di Nizza.

Ma rileva qui soprattutto la nuova puntualizzazione concernente il ruolo del tertium comparationis. La Corte è giunta alla declaratoria di illegittimità costituzionale in seguito a «un controllo di proporzionalità sulla cornice edittale stabilita dalla norma censurata» e «non già [in forza di] una verifica sull’asserito diverso trattamento sanzionatorio di condotte simili o identiche». Insomma, il vizio che inficiava la norma censurata è consistito in un difetto di proporzione tra la cornice edittale e il reale disvalore del fatto. Certo, ha proseguito la Corte, «anche nel giudizio di “ragionevolezza intrinseca” di un trattamento sanzionatorio penale, incentrato sul principio di proporzionalità, è […] essenziale l’individuazione di soluzioni già esistenti, idonee a eliminare o ridurre la manifesta irragionevolezza lamentata (sentenza n. 23 del 2016)». In questa prospettiva, la parificazione sanzionatoria rispetto alla fattispecie di cui al primo comma del medesimo art. 567 cod. pen. è stata considerata come «unica soluzione praticabile» e dunque quale “grandezza già rinvenibile nell’ordinamento”, senza «sovrapporre, dall’esterno, una dosimetria sanzionatoria eterogenea rispetto alle scelte legislative».

Insomma, ed ovviamente, veniva ribadita la preminenza dell’opzione legislativa nella determinazione “finale” della disciplina sanzionatoria, nel contesto però di un esplicito abbandono della logica di “sostituzione” con la pena per fatto analogo, dovendosi piuttosto reperire una “soluzione adeguata” (attraverso la identificazione di situazioni assimilabili nei profili soggettivi e oggettivi del fatto).

La questione ha preso contorni ancor più netti grazie alla già citata sentenza n. 40 del 2019, quella intervenuta sul comma 1 dell’art. 73 del d.P.R. n. 309/90 dopo un biennio di inerzia legislativa.

La Corte aveva già ritenuto illegittima la disciplina, fermandosi però innanzi alla ritenuta pluralità di soluzioni adeguate. Ecco però il passaggio evolutivo: «[…] con la recente sentenza n. 233 del 2018, questa Corte, dopo aver ribadito che le valutazioni discrezionali di dosimetria della pena spettano anzitutto al legislatore, ha precisato che non sussistono ostacoli al suo intervento quando […] il sistema legislativo consenta l’individuazione di soluzioni, anche alternative tra loro, che siano tali da “ricondurre a coerenza le scelte già delineate a tutela di un determinato bene giuridico, procedendo puntualmente, ove possibile, all’eliminazione di ingiustificabili incongruenze” (in tal senso richiamando la sentenza n. 236 del 2016). Similmente, la sentenza n. 222 del 2018 di poco precedente aveva già ritenuto che […] non è necessario che esista, nel sistema, un’unica soluzione costituzionalmente vincolata in grado di sostituirsi a quella dichiarata illegittima […] essendo sufficiente che il “sistema nel suo complesso” offra alla Corte “precisi punti di riferimento” e soluzioni “già esistenti” (sentenza n. 236 del 2016)», ancorché non “costituzionalmente obbligate”, “che possano sostituirsi alla previsione sanzionatoria dichiarata illegittima”».

In perfetta coerenza del resto, pur avendo sostituito la previsione edittale minima per il delitto di cui al comma 1 dell’art. 73, la Corte ha chiuso la propria disamina specificando che la misura sanzionatoria adottata, non costituendo una opzione costituzionalmente obbligata, restava soggetta a un diverso apprezzamento da parte del legislatore, sempre nel rispetto del principio di proporzionalità.

Quanto al ragionamento sulla “rima adeguata”, può essere esemplare proprio il percorso seguito nella sentenza in questione: «la misura della pena individuata dal rimettente, benché non costituzionalmente obbligata, non è tuttavia arbitraria: essa si ricava da previsioni già rinvenibili nell’ordinamento, specificamente nel settore della disciplina sanzionatoria dei reati in materia di stupefacenti, e si colloca in tale ambito in modo coerente alla logica perseguita dal legislatore […] In una parola, la pena di sei anni è stata ripetutamente indicata dal legislatore come misura adeguata ai fatti “di confine”, che nell’articolato e complesso sistema punitivo dei reati connessi al traffico di stupefacenti si pongono al margine inferiore delle categorie di reati più gravi o a quello superiore della categoria dei reati meno gravi».

 

10. Per quanto innegabilmente connotato da una marcata gestione discrezionale della ricerca di soluzioni adeguatrici, l’assetto raggiunto dalle regole di sindacato in tema di proporzionalità non pare legittimare sospetti di elusione dell’art. 28 della legge n. 87 del 1953, né sul piano teorico, né sul terreno della prassi.

Ancora negli anni più recenti, ed anche in casi di grande rilievo, la Corte ha giudicato inammissibile un proprio intervento proprio alla luce dell’assenza di una “grandezza predata”, cioè di parametri utili ad identificare un orientamento legislativo suscettibile di congruente trasposizione nell’ambito della fattispecie presa in considerazione.

Nella sentenza n. 117 del 2021, concernente il minimo edittale previsto per il delitto di cui all’art. 624-bis cod. pen., si può leggere: «[…] L’ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’entità della pena edittale è subordinata all’indicazione da parte del giudice a quo di previsioni sanzionatorie già rinvenibili nell’ordinamento, le quali, trasposte all’interno della norma censurata, garantiscano coerenza alla logica perseguita dal legislatore, una volta emendata dai vizi di illegittimità costituzionale addotti e riscontrati (sentenze n. 40 del 2019 e n. 233 del 2018)». Insomma, anche nel giudizio di “ragionevolezza intrinseca” di un trattamento sanzionatorio penale, incentrato sul principio di proporzionalità, resta essenziale l’individuazione di soluzioni già esistenti. E nel caso di specie «[…] La mancata indicazione di una grandezza predata, non meno che la palese eterogeneità dei tertia comparationis, rende inammissibile la questione sollevata dal [rimettente] in ordine alla congruità del minimo di pena detentiva stabilito dall’art. 624-bis, primo e terzo comma, cod. pen. per il furto in abitazione».

Conviene citare anche un altro caso recente e rilevante, a sua volta caratterizzato dal sostanziale giudizio di fondatezza della questione di proporzionalità posta dal rimettente, e però da un deliberato di inammissibilità, dovuto proprio all’assenza della ormai famosa grandezza predata. Si tratta della sentenza n. 138 del 2024, concernente la sanzione minima edittale (venti anni di reclusione) prevista per il delitto associativo di cui all’art. 74, comma 1, del d.P.R. 309/90.

La Corte ha riconosciuto che «una volta accertato un vulnus a un principio o a un diritto riconosciuti dalla Costituzione, non può essere di ostacolo all’esame nel merito della questione l’assenza di un’unica soluzione a “rime obbligate” per ricondurre l’ordinamento al rispetto della Costituzione, ancorché si versi in materie riservate alla discrezionalità del legislatore […] risultando a tal fine sufficiente la presenza nell’ordinamento di una o più soluzioni “costituzionalmente adeguate”, tratte da discipline già esistenti, che si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore». Tuttavia, ha proseguito la Corte (la cui verifica nella materia specifica degli stupefacenti è paradigmatica dei criteri da seguire per la ricerca dei parametri di “sostituzione”), la complessiva e specifica disciplina di riferimento non evidenzia “grandezze predate” alle quali «possa mettersi eventualmente capo al fine di riequilibrare l’assetto sanzionatorio censurato».

 

11. Ad ogni modo, e come si vede, la questione dei tertia sembra ormai definitivamente migrata dal giudizio di proporzionalità all’identificazione del rimedio ammissibile.

Uno sguardo alla giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni consente di cogliere – per quanto il quadro sia straordinariamente complesso – una strategia di valorizzazione della discrezionalità giudiziale quale rimedio fondamentale per gli eccessi sanzionatori nelle previsioni punitive.

La tendenza si riscontra anzitutto attraverso una decisa focalizzazione della critica riguardo ai minimi edittali fissati dal legislatore, il che appare logico considerando che il sindacato di proporzionalità mira quasi sempre ad ottenere un decremento della reazione punitiva, grazie alla rimozione delle previsioni ostative, a cominciare appunto dalla fissazione di soglie minime elevate.

La centralità del problema è stata ad esempio evidenziata nella sentenza n. 63 del 2022, in cui si legge tra l’altro come «la severità della pena comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva e soggettiva del reato: il che accade, in particolare, ove il legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto, chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità (da ultimo, sentenza n. 28 del 2022)».

In questa prospettiva, va segnalata soprattutto la recente sentenza n. 46 del 2024, che ha eliminato la previsione del minimo edittale dalla fattispecie di appropriazione indebita, così riportando la pena (ex art. 23 cod. pen.) fino al valore originario di quindici giorni di reclusione, dopo che una riforma del 2019 l’aveva elevato fino ai due anni.

La decisione rileva soprattutto per una illustrazione sistematica del metodo fondato sulla ablazione dei minimi edittali, ma nella prospettiva “sostanziale” del presente contributo va segnalato soprattutto che il giudizio di sproporzione è maturato anche per effetto di una analisi diacronica della disciplina censurata. Nell’ambito di una complessiva ricognizione del sistema di tutela del patrimonio, infatti, si coglie la constatazione della «[…] assenza di qualsiasi plausibile giustificazione – ricavabile dai lavori preparatori, o comunque ricostruibile dall’interprete sulla base delle rationes ascrivibili alla riforma – di un così rilevante inasprimento della pena per tutti i fatti di appropriazione indebita, e conseguentemente di una compressione assai più gravosa della libertà personale per i destinatari del precetto penale rispetto alla situazione preesistente». L’assenza di una giustificazione congruente nell’opera legislativa di fissazione della pena «[…] rende di per sé costituzionalmente illegittima la disciplina censurata, al duplice metro degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. evocati dal rimettente […]».

Ma la sentenza è rilevante anche per la critica ad argomenti che pure sono stati utilizzati dalla stessa Corte costituzionale, in passato, per “salvare” previsioni edittali troppo draconiane. Anzitutto le possibilità di abbattimento legate all’uso di attenuanti generiche. Si legge in motivazione, sulla scia di analoghi spunti precedenti, che tali attenuanti «non svolgono nel sistema una funzione genericamente indulgenziale, quasi si trattasse di un beneficio sistematicamente concesso a qualsiasi condannato», e che dovrebbero essere applicate solo in presenza di «specifiche e puntuali caratteristiche del singolo fatto di reato o del suo autore […] che connotano il fatto di un minor disvalore, rispetto a quanto la conformità della condotta alla figura astratta del reato lasci a prima vista supporre” (sentenza n. 197 del 2023)». Dunque, la previsione attenuante non può assolvere, almeno in misura sempre decisiva, al compito di neutralizzare una previsione edittale non proporzionata.

Per ragioni analoghe la Corte ha negato rilievo alla possibilità per il giudice di riconoscere la sussistenza della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., oppure della causa di estinzione del reato di cui all’art. 162-ter cod. pen. Entrambi gli istituti sono infatti condizionati al ricorrere di stringenti requisiti normativi, che non è detto sussistano nel caso concreto.

Infine, le diminuzioni connesse al rito: la scelta di un rito alternativo costituisce un diritto dell’imputato (comportando rinunce sul piano degli strumenti di difesa), e non può invece risolversi nell’onere da accollarsi, da parte dell’accusato, al fine di ottenere l’applicazione di una pena proporzionata. Va ben ricordato, in effetti, che la pena congrua deve essere quantificata prima della riduzione per il rito, e non all’esito di questa.

Come accennato, il ragionamento prelude ad una ricostruzione di sistema sul ruolo del tertium, ormai deputato solo ad evitare che l’abbattimento del minimo edittale, nei casi di sproporzione, produca “insostenibili vuoti di tutela” per gli interessi protetti dalla norma incisa: come, ad esempio, quando ne deriverebbe «[…] una menomata protezione di diritti fondamentali dell’individuo o di beni di particolare rilievo per l’intera collettività rispetto a gravi forme di aggressione, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali» (sentenza n. 185 del 2021). Laddove invece una simile situazione non ricorra […] l’intervento rimediale di questa Corte ben può limitarsi all’ablazione, totale o parziale, della disposizione censurata».

Fermo restando, ancora una volta, che il legislatore può intervenire nuovamente fissando un limite più alto ma proporzionato (a conferma della pluralità di situazioni costituzionalmente compatibili).

 

12. Una larga parte delle politiche securitarie seguite negli ultimi anni (non senza una “selezione” ben riconoscibile delle situazioni eccettuate) è stata fondata sulle deroghe al regime di libera comparazione fra circostanze di segno diverso (art. 69 cod. pen.), cui nel 1974 il legislatore aveva fatto ricorso, rinunciando ad una organica ridefinizione delle previsioni sanzionatorie astratte ed affidando piuttosto alla discrezionalità giudiziale il compito di moderare il trattamento nei casi che lo richiedessero.

Negli ultimi anni, l’intento di aumentare la pressione sanzionatoria per determinate categorie di reati o di persone è stato perseguito non solo incidendo sui valori edittali delle pene, ma riducendo appunto i margini della discrezionalità nella gestione dei meccanismi di computo della pena, in particolare mediante il divieto di subvalenza di determinate circostanze aggravanti nel concorso con fattispecie attenuanti.

L’effetto di queste manovre ha creato gravi tensioni in tema di proporzionalità della pena, specie alla luce della più recente e matura elaborazione della giurisprudenza costituzionale circa le implicazioni in materia del principio di personalità della responsabilità penale, posto notoriamente al primo comma dell’art. 27 Cost., e notoriamente significativo ben oltre il mero divieto della responsabilità per fatto altrui. È la prospettiva di sindacato che la dottrina più autorevole propone di definire “individualizzante”.

L’impostazione giurisprudenziale del tema è ormai risalente, e si è sviluppata anzitutto con riguardo al problema delle pene fisse. Può citarsi qui la sentenza n. 50 del 1980, che per altro richiamava enunciazioni di principio ancor più risalenti.

Si legge nella decisione: «In via di principio […] la “individualizzazione” della pena, in modo da tenere conto dell’effettiva entità e delle specifiche esigenze dei singoli casi, si pone come naturale attuazione e sviluppo di principi costituzionali, tanto di ordine generale (principio d’uguaglianza) quanto attinenti direttamente alla materia penale. Lo stesso principio di “legalità delle pene”, sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., dà forma ad un sistema che trae contenuti ed orientamenti da altri principi sostanziali come quelli indicati dall’art. 27, primo e terzo comma, Cost. ed in cui “l’attuazione di una riparatrice giustizia distributiva esige la differenziazione più che l’uniformità” (sentenza n. 104 del 1968). Di qui il ruolo centrale, che nei sistemi penali moderni è proprio della discrezionalità giudiziale, nell’ambito e secondo i criteri segnati dalla legge […] L’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti in termini di uguaglianza e/o differenziazione di trattamento contribuisce da un lato, a rendere quanto più possibile “personale” la responsabilità penale, nella prospettiva segnata dall’art. 27, primo comma; e nello stesso tempo è strumento per una determinazione della pena quanto più possibile “finalizzata”, nella prospettiva dell’art. 27, terzo comma, Cost. […] L’uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, “proporzione” della pena rispetto alle “personali” responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano […] Di tale esigenza, appropriati ambiti e criteri per la discrezionalità del giudice costituiscono lo strumento normale. In linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono pertanto in armonia con il “volto costituzionale” del sistema penale […]».

Come si vede, erano state poste le basi per un incisivo sindacato sulle cd. pene fisse (infra), anche se la Corte, nella specie, aveva finito per dichiarare infondata la specifica questione sottoposta al suo giudizio, utilizzando tra gli altri l’argomento (poi svalutato per vero nella già citata sentenza n. 46 del 2024) fondato sulla applicabilità delle circostanze aggravanti e delle attenuanti (comprese le generiche).

Fin da allora, in sostanza, era emersa la pertinenza al tema della proporzionalità di una precisa misurazione della pena rispetto ad ogni profilo del fatto, compresi quelli individuali e soggettivi, da attuare anche e soprattutto mediante il ricorso a meccanismi circostanziali governati dalla discrezionalità giudiziale.

Ora, le regole che condizionano in astratto l’esito del meccanismo di comparazione tra circostanze valgono proprio a precludere una relazione “fine” (e non presuntiva) tra fatto concreto ed esiti sanzionatori e, se si considera la parte fondamentale assunta in questo quadro dalla recidiva, riveste particolare importanza l’approdo giurisprudenziale che collega esplicitamente e direttamente il proporzionamento della pena «non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo» (sentenza n. 73 del 2020).

Il concetto è stato ribadito ad esempio nella sentenza n. 197 del 2023. Dalla motivazione: «[…] il principio della “personalità” della responsabilità penale, sancito dal primo comma dell’art. 27 Cost., richiede che la pena applicata a ciascun autore di reato costituisca «una risposta – oltre che non sproporzionata – il più possibile “individualizzata”, e dunque calibrata sulla situazione del singolo condannato» (sentenza n. 222 del 2018)».

 

13. Anche e soprattutto nella prospettiva della “individualizzazione” si scorge, nel complesso degli interventi correttivi operati dalla Consulta alla luce del principio di proporzionalità, una logica rimediale di ripristino della discrezionalità giudiziale nella gestione del concorso eterogeneo di circostanze del reato.

Gli automatismi sanzionatori introdotti disciplinando la recidiva (artt. 69 e 99 cod. pen.) sono stati l’oggetto principale del sindacato di legittimità, ma vanno almeno citati i casi ulteriori dell’ultimo comma dell’art. 577 cod. pen. e dell’art. 628, terzo comma, cod. pen.

Ebbene, nell’ambito di una più generale bonifica dell’ordinamento (gli automatismi producono violazioni del principio di uguaglianza, quando non sorretti da presunzioni corrispondenti ad elevatissime percentuali di ricorrenza effettiva del fattore condizionante), la Corte è intervenuta più volte a garantire strumenti di ragionevole corrispondenza tra fatto e punizione, eliminando i casi obbligatori di applicazione della recidiva, ed eliminando altresì, con un processo forse non ancora concluso, molti dei suoi effetti indiretti.

A parte gli interventi sui divieti di subvalenza, che rappresentano appunto effetti indiretti della recidiva, e per limitarsi ad approdi recenti, si possono richiamare: la sentenza n. 55 del 2021 (illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza sulla recidiva reiterata della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen.); la sentenza n. 217 del 2023 (in tema di rapina ed estorsione): l’art. 628, quinto comma, cod. pen., dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non consentiva di ritenere prevalente o equivalente la circostanza attenuante prevista dall’art. 89 cod. pen., allorché concorra con l’aggravante di cui al terzo comma, numero 3-bis, dello stesso art. 628 cod. pen.

Da ultimo, vanno menzionate le sentenze n. 56 e n. 151 del 2025, che hanno posto in essere la tredicesima e la quattordicesima dichiarazione di illegittimità dell’art. 69, comma 4, cod. pen.

Con la prima delle due decisioni la Corte ha osservato, secondo tradizione, che «il giudizio di bilanciamento tra circostanze eterogenee consente al giudice di valutare il fatto in tutta la sua ampiezza circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze (equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono», aggiungendo che «deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato in via generale dall’art. 69 cod. pen., sono costituzionalmente ammissibili e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, risultando sindacabili soltanto ove trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio».

Con la seconda decisione, depositata il 16 ottobre 2025, è stata nuovamente dichiarata l’illegittimità della norma censurata, nella parte in cui prevedeva, relativamente al reato di sequestro di persona a scopo di estorsione, il divieto di prevalenza delle attenuanti generiche sulla recidiva reiterata ex art. 99, quarto comma, cod. pen. Anche in questo caso, tra gli argomenti concorrenti, il rilievo dell’ampia gamma delle condotte riconducibili alla previsione incriminatrice, e l’implicazione dell’eccessiva determinazione del minimo edittale, da cui derivava tra l’altro l’imponenza dello scarto rispetto alla sanzione che avrebbe potuto essere irrogata con la riduzione indotta dalla prevalenza di attenuanti generiche.

Riguardando in larga parte la forza conferita con la legge 251 del 2005 alla circostanza di cui al quarto comma dell’art. 99 cod. pen., la giurisprudenza costituzionale ha posto in chiara evidenza come la recidiva reiterata non possa assumere, nell’economia del computo di pena, un ruolo inemendabile di sterilizzazione di ogni e qualsiasi fattispecie attenuante.

Un’occasione particolarmente rilevante di applicazione del principio si è posta con la sentenza n. 251 del 2012, pronunciata in un contesto nel quale la previsione del comma 5 dell’art. 73 d.P.R. n. 309/90, relativa ai fatti di narcotraffico di lieve entità, era ancora pacificamente qualificata come circostanza attenuante del delitto previsto dal comma 1 della medesima disposizione. Ebbene, nel rimuovere il divieto di prevalenza della circostanza in questione, la Corte aveva enfatizzato la forte eterogeneità del fatto lieve rispetto alla ipotesi base del reato, sul piano dell’offesa e della capacità criminale espressa dal reo. Una differenza posta in evidenza dallo stesso legislatore con la «enorme divaricazione delle cornici edittali stabilite […] per il reato circostanziato e per la fattispecie base prevista dal primo comma della disposizione». Una divaricazione significativa e però nullificata, appunto, dalla norma censurata, «che indirizza l’individuazione della pena concreta verso un’abnorme enfatizzazione delle componenti soggettive riconducibili alla recidiva reiterata, a detrimento delle componenti oggettive del reato […]. La recidiva reiterata riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo».

Si può aggiungere come talvolta l’ansia legislativa per una stigmatizzazione non emendabile del recidivo produca non solo conseguenze inaccettabili sul piano della proporzionalità del trattamento, ma anche conseguenze irrazionali, cioè effetti che contraddicono la stessa ratio perseguita con l’introduzione di nuove fattispecie.

È il caso, piuttosto clamoroso, del solito quarto comma dell’art. 69 cod. pen., nella parte in cui vietava un giudizio di subvalenza della recidiva reiterata rispetto all’attenuante delineata all’art. 625-bis cod. pen., mirata ad incentivare mediante sostanziosi sconti di pena la collaborazione processuale dell’autore di un furto. Il divieto impediva alla disposizione premiale di produrre pienamente i suoi effetti e ne frustrava la ratio, eliminando l’incentivo mirato a stimolare l’attività collaborativa. Ove sussistano condizioni effettive di applicazione della circostanza, sarebbe irrazionale disconoscere il distacco almeno parziale del reo dall’ambiente criminale, apprezzabile anche (e forse a maggior ragione) quando riferito ad un soggetto recidivo.

Con la sentenza n. 56 del 2025 la Consulta, nel rimuovere la preclusione, ha ribadito la necessità di un corretto equilibrio tra la valorizzazione della recidiva e l’idoneità dei meccanismi di computo della pena a garantire il giusto rilievo ai fattori concorrenti di valutazione del reato.

Un ragionamento speculare si rinviene nella sentenza n. 217 del 2023, concernente il divieto di prevalenza della diminuente riconosciuta per il vizio parziale di mente sull’aggravante prevista, in tema di rapina, dal terzo comma, numero 3-bis dell’art. 628 cod. pen. Si legge nel provvedimento che la fattispecie incriminatrice può comprendere condotte di modesto disvalore: «anche rispetto a simili fatti, la disciplina vigente impone una pena minima di cinque anni di reclusione: una pena che risulterebbe, però, manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità oggettiva dei fatti medesimi – anche in rapporto alle pene previste per la generalità dei reati contro la persona – se l’ordinamento non prevedesse meccanismi per attenuare la risposta sanzionatoria nei casi meno gravi». Di qui la rimozione dell’automatismo nella comparazione tra circostanze concorrenti che coinvolga la diminuita imputabilità del reo.

 

14. Si diceva che la giurisprudenza più recente della Consulta, relativamente alla proporzionalità delle pene, gravita in sostanza sulla garanzia di una disciplina circostanziale capace di assicurare una corrispondenza “fine” (cioè sufficientemente individualizzata) tra le caratteristiche dei casi concreti ed il trattamento sanzionatorio, da attuarsi mediante il dispiego incondizionato della discrezionalità giudiziale.

Se per un verso la tendenza si manifesta con la progressiva eliminazione degli automatismi concernenti il concorso tra circostanze eterogenee, per altro verso appare ugualmente sintomatica la scelta di sentenze additive che introducono una previsione attenuante relativa ai fatti di moderata gravità riconducibili a determinate figure incriminatrici, cioè nuove ipotesi circostanziali, destinate ad operare secondo l’ordinaria meccanica di riduzione della pena fino ad un terzo.

Questa tecnica di intervento, piuttosto creativa nonostante l’aggancio ad ipotesi corrispondenti di matrice legislativa, presenta un vantaggio evidente e rilevantissimo nella ricerca della “grandezza predata”, perché valorizza come parametro di riferimento la scelta sanzionatoria del legislatore con riguardo ad ogni specifica figura criminosa, operando una diminuzione proporzionale sui pertinenti valori edittali.

L’attenuante “indefinita” della lieve (o minore) entità del fatto è stata progressivamente estesa dalla recente giurisprudenza della Corte a numerose ipotesi di reato per le quali il legislatore ha previsto minimi edittali particolarmente elevati: in particolare, oltre che al sequestro estorsivo (sentenza n. 68 del 2012), al sabotaggio militare (sentenza n. 244 del 2022), all’estorsione (sentenza n. 120 del 2023), alla rapina (sentenza n. 86 del 2024), alla pornografia minorile (sentenza n. 91 del 2024), e da ultimo alla deformazione o sfregio permanente del viso (sentenza n. 83 del 2025). Non è stata invece accolta la sollecitazione per un analogo intervento riguardo al reato di violenza sessuale di gruppo, cui è stata attribuita una speciale e (più) elevata carica offensiva rispetto a fatti analoghi per i quali lo stesso legislatore ha invece previsto ipotesi di attenuazione per i casi di minor gravità (sentenza n. 325 del 2025)

La Corte ha osservato in genere, pur con vari accenti, che la mancata previsione di una “valvola di sicurezza” al cospetto di un minimo edittale particolarmente aspro implica il rischio di irrogazione di una sanzione non proporzionata all’effettiva gravità del fatto, ove il fatto medesimo risulti immune dai profili di allarme sociale che hanno indotto il legislatore a stabilire un minimo edittale particolarmente severo (ad esempio, sentenza n. 120 del 2023 o sentenza n. 86 del 2024).

 

15. I giudici comuni stanno sottoponendo a critica, in una logica parzialmente analoga, anche la disciplina dettata dall’art. 131-bis cod. pen. per le ipotesi di particolare tenuità del fatto, disciplina che viene censurata nella parte in cui esclude, a fronte delle connotazioni oggettive o soggettive del reato, l’applicazione della causa di non punibilità.

A titolo di esempio si può citare una ordinanza del Tribunale di Cassino (in data 14 luglio 2025), che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis, comma 3, n. 3), cod. pen., «nella parte in cui prevede che l’offesa non possa essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per il delitto, consumato o tentato, previsto dall’art. 629 co. 1 c.p. e non limita, al pari di quanto avviene per il delitto di cui all’art. 628, co. 3, c.p., l’esclusione all’ipotesi aggravata di cui all’art. 629, co. 2, c.p.».

La disparità risulterebbe irragionevole anzitutto alla luce della «analoga struttura e disciplina delle fattispecie di rapina ed estorsione non aggravate e [del]la loro eguale attitudine a ricomprendere fatti espressivi di un disvalore d’evento e d’azione particolarmente tenue», secondo quanto già messo in luce dalle recenti pronunce costituzionali n. 120 del 2023 e n. 86 del 2024. La norma censurata, secondo il Tribunale, sarebbe in contrasto anche con i principi di personalità della responsabilità penale e di finalizzazione rieducativa della pena (art. 27, primo e terzo comma, Cost.): per un verso, la preclusione prevista per il delitto di estorsione si tradurrebbe «[…] in un automatismo sanzionatorio privo di fondamento sia sotto il profilo razionale sia sotto il profilo empirico-fattuale»; per altro verso «[…] l’applicazione di una pena per un fatto dotato di scarsissima offensività e di altrettanto tenue disvalore d’azione non [potrebbe] che risultare contrastante con la finalità rieducativa della pena».

 

16. Non va sottaciuto, considerando il tema della discrezionalità giudiziale quale strumento di garanzia della proporzionalità nei trattamenti sanzionatori, che l’ampliamento eccessivo dei cursori edittali provocherebbe tensioni nuove e diverse col dettato costituzionale, in particolare riguardo al principio di legalità, nella sua accezione formale: la punizione deve essere inflitta “in forza di una legge” (secondo comma dell’art. 25 Cost.) e non secondo una valutazione giudiziale sostanzialmente priva di riferimenti.

Ancor oggi presentano validità le osservazioni sviluppate dalla Corte costituzionale, ad esempio, con la sentenza n. 299 del 1992, in tema di reati militari, ed in particolare del delitto di violata consegna. La divaricazione fra un minimo di due ed un massimo di ventiquattro anni di reclusione non trovava rispondenza nella variabilità, in termini di gravità del reato, delle fattispecie concrete sussumibili nella norma incriminatrice, posto che la previsione riguardava il fatto puro e semplice della violazione di consegna, lesivo del bene giuridico della disciplina militare, ferma restando l’ulteriore sanzione prevista per fattispecie in concorso formale con la detta violazione. Si era insomma riscontrato un superamento di quel margine di elasticità che al legislatore è consentito predisporre al fine di rendere possibile al giudice la “individualizzazione” della pena ex artt. 132 e 133 cod. pen.

Con opportuna sintesi, va detto che l’ampiezza della forbice edittale deve corrispondere alla vastità del campo di fatti della vita che vengono racchiusi nel perimetro applicativo della previsione incriminatrice. Se lo scarto fra minimo e massimo risulta eccessivamente più ampio, si pone il problema della eventuale violazione del principio di legalità, ed anche la Corte costituzionale, soprattutto nell’operare interventi sui minimi edittali, deve porsi e si pone il problema. Quando invece lo spazio discrezionale tra minimo e massimo è troppo esiguo, rispetto alla variabilità del fatto punibile, si pone il problema del contrasto con il principio di proporzionalità, in assoluto (valori minimi troppo alti) o in termini relativi (schiacciamento su una scala troppo ridotta di comportamenti assai disomogenei).

 

17. In effetti, nell’ideale cursore che porta dall’estremo della pena indeterminata al punto opposto della pena fissa, le questioni ricorrenti nella pratica riguardano assai più il secondo estremo che il primo.

Le pene fisse realizzano l’effetto contrario alla individualizzazione del trattamento, imponendo per tutti i fatti e per tutte le persone responsabili una identica punizione.

L’impostazione del problema si rinviene già nella sentenza n. 50 del 1980, che per altro richiamava enunciazioni di principio ancor più risalenti. Come già detto sopra, in quella occasione si era affermato che lo strumento più idoneo al conseguimento delle finalità della pena, e più congruo rispetto al principio d’uguaglianza e di personalità della responsabilità penale, consiste nella «[…] la mobilità della pena, cioè la predeterminazione della medesima da parte del legislatore fra un massimo ed un minimo».

Il principio, in seguito, è stato più volte ribadito (ad esempio, sentenza n. 222 del 2018), ed è ormai chiaro (sentenza n. 94 del 2023) che, in via di principio, previsioni sanzionatorie rigide non sono in linea con il volto costituzionale del sistema penale, potendo esse essere giustificate solo a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato.

Il problema si è posto in genere per le sanzioni pecuniarie, che il codice espressamente distingue tra fisse e proporzionali (art. 27 cod. pen.), queste ultime non contenute da un importo massimo (infra). A questa dicotomia si sottraggono le pene variabili, quelle regolate in generale dall’art. 24 (multa) e dall’art. 26 (ammenda) e quelle fissate, in particolare, da ciascuna fattispecie incriminatrice.

Di recente si è riproposta una questione essenziale in materia di pene pecuniarie fisse, che riguarda il loro differente carattere afflittivo in rapporto alle condizioni economiche del reo.

Mentre la pena detentiva comprime la libertà personale, che è «bene primario posseduto da ogni essere vivente», la pena pecuniaria incide sul patrimonio, bene che «non inerisce naturalmente alla persona umana». Da ciò deriva che la pena pecuniaria strutturalmente «comporta l’inconveniente di una disuguale afflittività e al limite, dell’impossibilità di applicarla, in funzione delle diverse condizioni economiche dei soggetti condannati». Dunque, mentre l’impatto di pene detentive di eguale durata può in linea di principio ipotizzarsi come omogeneo per ciascun condannato, così non è per le pene pecuniarie: una multa del medesimo importo può risultare più o meno afflittiva secondo le disponibilità reddituali e patrimoniali del singolo condannato.

Con la sentenza n. 28 del 2022 la Consulta aveva tratto, da siffatte premesse, la conclusione della necessità costituzionale di un meccanismo di adeguamento della pena pecuniaria alle diverse condizioni economiche dei condannati. Nella specie, era in discussione la norma (art. 53, secondo comma, della legge n. 689/81) concernente il tasso di conversione della pena detentiva in pena pecuniaria, tale da portare il valore minimo alla soglia di 250 euro giornalieri, ritenuta inadatta a garantire una punizione proporzionata per i cittadini meno abbienti. Non mancava dunque l’indispensabile discrezionalità giudiziale, ma si era opposto un “ordinario” problema di esorbitanza della previsione edittale minima.

Nel caso affrontato dalla Corte con la sentenza n. 7 del 2025, invece, l’affermato principio di variabilità della sanzione pecuniaria ha costituito il parametro di verifica della compatibilità costituzionale di una previsione punitiva obbligatoria e non discrezionale nel quantum.

Si discuteva nella specie di disposizioni concernenti la confisca (considerata quale misura sostanzialmente punitiva), ed in particolare dell’art. 2641 cod. civ., nella parte in cui prevedeva la confisca obbligatoria di una somma di denaro o di beni di valore equivalente a quelli utilizzati per commettere uno dei reati societari delineati agli articoli precedenti.

La Corte ha posto in luce che l’applicazione non derogabile della confisca – nella misura in cui impone al giudice «[…] di applicare la misura anche quando, nel caso concreto, essa risulti sproporzionata, senza alcuna relazione con l’effettivo vantaggio patrimoniale conseguito mediante la commissione del reato e senza alcun correttivo che consenta al giudice di valutare, in ciascun caso concreto, se il soggetto disponga effettivamente delle risorse per far fronte all’ablazione patrimoniale impostagli, né quale impatto tale ablazione possa avere sulla sua esistenza futura […]» – si risolve in un meccanismo strutturalmente suscettibile di produrre risultati sanzionatori sproporzionati.

Il vizio individuato nella disciplina censurata consisteva nel fatto che obbligava «[…] il giudice a imporre al soggetto un sacrificio patrimoniale, la cui entità dipende esclusivamente dal valore dei beni che, in concreto, sono stati utilizzati per commettere il reato. Ciò […] senza alcun correttivo che consenta al giudice di valutare, in ciascun caso concreto, se il soggetto disponga effettivamente delle risorse per far fronte all’ablazione patrimoniale impostagli, né quale impatto tale ablazione possa avere sulla sua esistenza futura. Un tale meccanismo è dunque strutturalmente suscettibile di produrre risultati sanzionatori in concreto sproporzionati».

In sostanza, una doppia lesione di principi, che consiste nell’arbitrarietà del criterio di misurazione della sanzione pecuniaria e, comunque, nella impossibilità di modularne l’entità in base alle possibilità ed alle condizioni economiche del reo. Da notare l’ampiezza dei parametri considerati dirimenti (artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nonché – per ciò che concerne il diritto dell’Unione – artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 49, paragrafo 3, CDFUE).

Va posto in chiara evidenza che la Corte non ha negato la libertà per il legislatore di ricorrere alla confisca per equivalente, a cominciare dalla scelta sull’an e sul quantum della misura, tanto da suggerire un intervento che garantisca, ovviamente, il rispetto dei principi indicati. Nelle more per altro, visto che l’ablazione delle norme non implica un vuoto di tutela per beni essenziali, è stata radicalmente dichiarata l’illegittimità parziale delle previsioni contenute nel primo e nel secondo comma dell’art. 2641 cod. civ.

 

18. Problemi in buona misura analoghi sono posti, al di là del bisticcio linguistico, dal rapporto tra il principio di proporzionalità e le cd. pene proporzionali, cioè le sanzioni pecuniarie che sono determinate applicando un moltiplicatore fisso al numero di violazioni riscontrabili, nel caso concreto, rispetto ad una data disciplina.

Si è posto un caso importante, ad esempio, con riguardo all’art. 12, commi 3 e 3-ter, del decreto legislativo n. 286 del 1998, laddove l’entità della multa è stabilita in base al numero delle persone immigrate illegalmente, in misura fissa (rispettivamente, 15.000 e 25.000 euro) e senza previsione di un massimo.

Previsioni del genere pongono un duplice ordine di problemi, poiché per un verso possono condurre all’applicazione di pene gravemente sproporzionate per eccesso, senza soglia massima, e per altro verso non consentono una determinazione specificamente calibrata sulle condizioni personali ed economiche del reo.

Con la sentenza n. 142 del 2017, affrontando un quesito parzialmente segnato da un errore di lettura del rimettente, la Corte ha ritenuto che in astratto il meccanismo avrebbe (a differenza delle pene fisse in senso proprio) una spiccata connotazione di proporzionalità, anche se costruito su un moltiplicatore fisso per ogni soggetto coinvolto nella immigrazione illegale, perché il risultato rispecchierebbe la concreta portata offensiva del comportamento criminale. Secondo la giurisprudenza costituzionale, in effetti, le pene pecuniarie «proporzionali», in quanto commisurate alla gravità dell’offesa, si accordano – in linea generale – con i principi di uguaglianza, legalità, personalità e individualizzazione della pena (sentenze n. 167 del 1971 e n. 15 del 1962; ordinanze n. 91 del 2008, n. 475 del 2002 e n. 200 del 1993). Si è anzi osservato che la proporzionalità della pena pecuniaria consente di evitare inaccettabili “livellamenti sanzionatori”, che contrasterebbero con il principio di individualizzazione, insito nell’ordinamento costituzionale (sent. n. 50 del 1980).

Tuttavia, con la sentenza in questione, la Consulta non ha negato affatto l’ammissibilità del sindacato di proporzionalità per le previsioni in discorso. Si tratta solo di individuare correttamente, a fronte di risultati sproporzionati, se e quanto gli stessi dipendono dai parametri quantitativi e moltiplicativi previsti per i singoli casi. In altre parole, l’eventuale illegittimità delle pene pecuniarie proporzionali non deriva dalla loro fissità strutturale, che non sussiste, né si collegherebbe alla mancata previsione di un valore massimo. L’incompatibilità con la Costituzione, semmai, potrebbe derivare dalla irragionevolezza o dalla sproporzione dei fattori da considerare nel computo della pena: del valore-base o dell’elemento moltiplicatore prescelti dal legislatore in relazione alla fattispecie di reato alla quale si devono applicare.

Si può aggiungere come, con la già citata sentenza dell’ 8 marzo 2022, la Corte di giustizia della Unione europea abbia confermato, a sua volta, che il meccanismo proporzionale non contrasta in sé con il principio di proporzionalità: «una normativa che prevede sanzioni pecuniarie il cui importo varia in funzione del numero di lavoratori interessati dalla violazione di determinati obblighi in materia di diritto del lavoro non risulta, di per sé, sproporzionata […] spetta pertanto al giudice nazionale investito di un ricorso contro una sanzione adottata sulla base del regime nazionale applicabile in caso di violazione delle disposizioni nazionali adottate in attuazione di tale direttiva, disapplicare la parte della normativa nazionale da cui deriva il carattere sproporzionato delle sanzioni, in modo da giungere all’irrogazione di sanzioni proporzionate, che permangano, nel contempo, effettive e dissuasive […]».

Di nuovo, dalla Corte di Lussemburgo, l’assicurazione che, quando è possibile fare applicazione diretta del principio di proporzionalità, l’irrogazione di una sanzione inferiore al minimo previsto dalla normativa nazionale «non può essere considerato in contrasto con i principi della certezza del diritto, della legalità dei reati e delle pene nonché dell’irretroattività della legge penale».

 

19. Un’ultima notazione. La cogenza del principio di proporzionalità, direttamente estratto da una pluralità di disposizioni di rango costituzionale (anche derivanti dai parametri sovranazionali, i più espliciti), impone il rispetto della prima “direttiva” che l’ordinamento impone a fronte di dubbi circa la compatibilità costituzionale di una determinata disciplina, e cioè la verifica della possibilità di una interpretazione della disposizione in base alla quale la norma d’interesse risulti conforme al dettato costituzionale.

Declinata nella specifica prospettiva delle previsioni di pena, la verifica può risolversi direttamente nell’interpretazione delle disposizioni concernenti i valori edittali ed i criteri di calcolo. Ma qui interessa più intensamente, anche per un recente approdo della Consulta, la necessità di cercare soluzioni ermeneutiche che garantiscano la migliore possibile congruenza tra l’area dei comportamenti incriminati e l’ampiezza della forbice edittale, così da escludere, appunto, il vulnus al principio di proporzionalità.

Nell’ottica corrente della verifica che le previsioni minime consentano un trattamento adeguato delle condotte di minor gravità, l’indicazione comporta che, di fronte ad un caso eclatante di eccesso della sanzione applicabile, l’interprete si chieda se davvero il fatto sottoposto al suo giudizio sia riconducibile alla fattispecie astratta. In altre parole, la connotazione proporzionale della pena comminata dalla legge può essere un fattore utile a delimitare, quando possibile, l’area della condotta penalmente rilevante.

Il criterio non è certo sconosciuto nella pratica giudiziale. Si pensi ad esempio al livello delle sanzioni previste dall’art. 419 cod. pen., la cui portata, nella sostanziale assenza di segnali linguistici utili a chiarire cosa sia un “fatto di devastazione”, concorre all’opera di specificazione del fatto tipico, consentendo ad esempio di distinguerlo da reati meno gravi (in primis, quello di danneggiamento).

Questa logica caratterizza la recente sentenza n. 113 del 2025, relativa al sequestro di persona a fini di estorsione, le cui pene draconiane, dopo la legislazione reattiva seguita alla stagione dei sequestri gestiti dalla criminalità organizzata, hanno costituito una spina nel fianco del principio di proporzionalità (25 anni di minimo per la reclusione). Per la decisione si è fatto appunto ricorso alla proporzionalità come criterio ermeneutico, e come argomento utilizzabile per soluzioni costituzionalmente orientate, tali da escludere i fatti meno gravi dal perimetro di un fatto tipico punito, per l’area più bassa della sua rilevanza criminale, da una sanzione tanto elevata.

La Corte, con un dispositivo di infondatezza della questione sollevata, ha sollecitato anzitutto a verificare se non possa applicarsi, nel concreto caso di sequestro che deve essere definito, l’attenuante del fatto lieve, introdotta dalla Corte medesima (sul punto anche la sentenza n. 143 del 2021). Ma soprattutto – quel che qui rileva – l’interprete è chiamato a verificare, nel caso che la circostanza non possa operare o che la sua applicazione non valga a ridurre nella misura necessaria il trattamento punitivo, se, allora, il fatto concreto non sia addirittura privo di corrispondenza alla previsione punitiva, e magari qualificabile come sequestro semplice ex art. 605 c.p., eventualmente in concorso col reato di estorsione tentata o consumata.