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15 Febbraio 2024


L’obbligo positivo di risarcire le vittime delle schiavitù moderne: la compensation secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo

C. eur. dir. uomo, Sez. III, Krachunova c. Bulgaria, n. 18269, 28 novembre 2023



1. Premessa. Il percorso interpretativo della Corte europea dei diritti dell’uomo ha disegnato i confini dell’art. 4 della Convenzione e ne ha riempito gli spazi mediante l’evoluzione dell’opera ermeneutica, tesa ad attualizzarne le norme in base ai fenomeni che cambiano ed alle legislazioni sovranazionali e nazionali. Il contenuto dell’art. 4 e le relative obbligazioni positive che ne discendono in capo agli Stati membri aggiungono un ulteriore tassello, costituito dalla decisione del 28 novembre 2023 nel caso Krachunova c. Bulgaria. Per la prima volta, infatti, la Corte EDU ha dedicato il suo intervento al profilo del risarcimento del danno in favore delle vittime.

Il giudizio in questione ha riguardato essenzialmente due questioni:

- se l’articolo 4 della Convenzione preveda un obbligo positivo che consenta alle vittime della tratta di esseri umani di chiedere il risarcimento dai trafficanti in relazione al mancato guadagno;

- se e in quali circostanze tale obbligo positivo possa essere assolto in relazione ai guadagni ottenuti dalla vittima attraverso la prostituzione e sottratti dal trafficante.

 

2. Il fatto. La vicenda riguardava una giovane che, fino all’aprile 2012, viveva in un piccolo villaggio situato nella Bulgaria nord-occidentale, con i genitori e la sorella maggiore. Dopo il diploma di scuola secondaria ed un breve periodo lavorativo, a causa di rapporti familiari tesi, nell’aprile 2012 conosceva il suo futuro sfruttatore e con lui, all’età di ventisei anni, lasciava il villaggio per recarsi a Sofia, dove l’uomo, già gravato da precedenti penali, la faceva prostituire su strada. Non vi fu costrizione; all’inizio si trattò di una libera scelta della ricorrente. Lo sfruttatore agiva nei confronti della donna istruendola sulle attività da compiere, su come vestirsi, sui soldi da chiedere per le prestazioni, ma dopo alcuni mesi, all’idea della giovane di cambiare vita, la minacciava e la induceva a proseguire nell’attività di prostituzione, trattenendo in buona parte gli introiti economici.

La donna veniva fermata dalla polizia in diverse occasioni mentre si prostituiva su strada. Dopo qualche mese provò a smettere di prostituirsi ed a scappare, ma poco dopo tornò dallo sfruttatore, sia perché minacciata di ripercussioni fisiche, sia perché egli lasciava intendere che avrebbe riferito al villaggio quale fosse il vero lavoro intrapreso, diversamente da quanto ella aveva raccontato ai genitori, di collaborare in un negozio di abbigliamento.

Da quel momento, fino al 13 febbraio 2013, la ricorrente riprendeva i suoi turni quotidiani su strada. Gli agenti di polizia che pattugliavano la zona la controllavano in numerose occasioni. Secondo la ricorrente, durante tutto il periodo lo sfruttatore le sottraeva tutti i suoi guadagni, ma provvedeva ai bisogni e le dava piccoli quantitativi di denaro. La donna non rivelava all’uomo che avrebbe voluto smettere perché aveva paura. Tuttavia, la sera del 13 febbraio 2013, scappava con un cliente. Veniva nuovamente rintracciata e minacciata dall’uomo e suo malgrado, tornava a prostituirsi per altri due giorni, fino a che, nuovamente fermata da agenti di polizia in abiti civili, riferiva tutto e chiedeva aiuto. Dopo averla interrogata, la polizia convocava l’uomo ed otteneva da questi la restituzione dei documenti di identità, sottratti alla donna con la falsa e banale giustificazione che così sarebbero stati al sicuro.

Lo stesso giorno la donna veniva assistita e condotta presso una struttura di accoglienza.

Le indagini si concludevano con l’accusa di tratta di persone e incitamento alla prostituzione.

Dopo due gradi di giudizio il tribunale distrettuale di Sofia ammetteva la costituzione di parte civile della ricorrente, la quale presentava istanza per il risarcimento dei danni materiali, quantificati nei guadagni che lo sfruttatore le aveva sottratto, e dei danni non patrimoniali.

Nel gennaio 2017 il tribunale emetteva condanna per tratta di esseri umani a tre anni di reclusione. Con riferimento alla richiesta di risarcimento l’imputato veniva condannato a pagare alla ricorrente una somma a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, mentre la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale veniva respinta.

Il giudice riteneva che la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale presentata dalla ricorrente non potesse essere accolta perché: «ciascun contratto per prestazioni sessuali stipulato tra la [ricorrente] e il rispettivo cliente era nullo in quanto lesivo dei buoni costumi … Ciò premesso, la [ricorrente] non ha alcun diritto a ricevere le somme [stipulate] in base a tali contratti, e non vi può essere alcuna questione di danni, … che sorga a questo proposito. Questa richiesta deve quindi essere respinta».

Il riferimento all’immoralità delle retribuzioni provento di contrari alla buona morale era previsto dall’art. 329 del codice penale bulgaro del 1968, concepito ed ispirato dalla legge sovietica che condannava ogni forma di “parassitismo sociale”. La norma in questione è stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte costituzionale bulgara il 27 settembre 2022, ma fino ad allora anche la giurisprudenza di legittimità bulgara aveva ritenuto che la prostituzione fosse una pratica immorale, ricadente nella previsione del citato articolo, poi espunto per contrasto con i principi di legalità e di protezione della vita privata.

 

3. Le norme sovranazionali. La Corte europea non ha avuto nessun dubbio che la ricorrente sia stata vittima di tratta, in forza di quanto previsto dalla normativa sovranazionale.

Il Protocollo per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare donne e bambini, addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale del 2000, all’articolo 6, comma 6 recita: «ciascuno Stato Parte assicura che il proprio ordinamento giuridico interno contenga misure che offrano alle vittime della tratta di persone la possibilità di ottenere un risarcimento per i danni subiti». Inoltre, l’interpretazione comune dell’espressione abuso ... di una posizione di vulnerabilità, di cui all’art. 3(a) del Protocollo va intesa come qualsiasi situazione in cui la persona coinvolta non ha alcuna alternativa reale e accettabile se non quella di sottomettersi all'abuso in questione.

Nessun dubbio per la Corte che nel caso di specie siano sussistiti tutti gli elementi costitutivi richiesti dall’art. 4 CEDU (condotta, mezzi e scopo).

È altrettanto certo, afferma la Corte, che le vittime di tratta abbiano diritto a chiedere il risarcimento dei danni subiti. La guida legislativa aggiornata sul Protocollo di Palermo sottolinea che il risarcimento delle vittime di tratta include il pagamento di tutti i redditi e i salari dovuti in base alle leggi e ai regolamenti nazionali.

A tale proposito, la Corte fa propria la considerazione secondo cui «gli Stati devono fornire alle vittime della tratta di persone un risarcimento per qualsiasi danno economicamente valutabile, in modo appropriato e proporzionale alla gravità della violazione e alle circostanze di ciascun caso. La mera difficoltà di quantificare il danno non può essere invocata come motivo per negare il risarcimento».

Inoltre, il pagamento dei danni materiali riguarda la perdita di guadagno, compresa la perdita del potenziale guadagno, il mancato guadagno e i salari dovuti in base alla legge e ai regolamenti nazionali in materia di salari.

Il diritto al risarcimento viene riconosciuto anche dal Consiglio d’Europa nella Convenzione sull’azione contro la tratta di esseri umani siglata a Varsavia il 16 maggio 2005. All’art. 15, comma 3 si stabilisce: «ciascuna Parte dovrà prevedere, nel proprio diritto interno, il diritto delle vittime al risarcimento da parte degli autori del reato».

Nella relazione esplicativa della Convenzione si spiega che: «il paragrafo 3 stabilisce il diritto delle vittime al risarcimento. Il risarcimento è pecuniario e copre sia il danno materiale … sia il danno non materiale… Il diritto delle vittime al risarcimento consiste in una richiesta di risarcimento nei confronti degli autori della tratta – sono i trafficanti a sostenere l'onere di risarcire le vittime. Se, nei procedimenti contro i trafficanti, i tribunali penali non sono in grado di determinare la responsabilità civile nei confronti delle vittime, queste ultime devono avere la possibilità di presentare le loro richieste ai tribunali civili competenti in materia e con il potere di concedere danni con interessi».

 

4. La riflessione sui principi generali. Il quesito ulteriore e centrale che si pone la Corte è se l’art. 4 esprima una obbligazione positiva che abiliti le vittime di tratta ad agire nei confronti degli sfruttatori per il risarcimento anche del guadagno mancato o sottratto.

La giurisprudenza della Corte è nel senso che l’articolo 4 della Convenzione stabilisce obblighi positivi per gli Stati contraenti (cfr. Siliadin c. Francia; Rantsev c. Russia e Cipro; S.M. c. Croazia) che consistono: a) nell’obbligo di istituire un quadro legislativo e amministrativo che vieti e punisca la tratta; (b) nell’obbligo di adottare misure operative per proteggere le vittime, o le potenziali vittime, della tratta; (c) nell’obbligo procedurale di indagare sulle situazioni di potenziale tratta.

Nel valutare se l’articolo 4 della Convenzione consenta effettivamente alle vittime della tratta di chiedere un risarcimento ai loro trafficanti per il mancato guadagno, la Corte si serve di tre canoni interpretativi ordinari.

Il primo è che l’oggetto e lo scopo della Convenzione, in quanto strumento di protezione dei diritti, richiedono che le sue disposizioni e quelle dei suoi Protocolli siano interpretate secondo criteri di concretezza ed effettività.

Inoltre, la Convenzione e i suoi Protocolli devono essere interpretati in armonia con le altre norme di diritto internazionale. Con riferimento all’art. 4 si è rimarcato spesso che esso vada interpretato alla luce della Convenzione anti-tratta e secondo i principi espressi dal GRETA (Group of Experts on Action against Trafficking in Human Beings), organismo di esperti incaricato di monitorare l'attuazione di tale Convenzione (cfr. Chowdury e altri c. Grecia; V.C.L. e A.N. c. Regno Unito).

Gli obblighi positivi[1] derivanti dall’articolo 4 della Convenzione possono essere influenzati dal modo in cui il diritto interno disciplina determinate materie. Con riguardo alla richiesta del risarcimento dei danni, la Corte ha già affermato, ad esempio, che la preclusione del diritto al risarcimento per alcuni tipi di danni può violare l’articolo 2 della Convenzione (ad esempio, Sarishvili-Bolkvadze c. Georgia). Il silenzio dell’art. 4 CEDU non è decisivo, tanto è vero che neanche l’art. 2 prevede un obbligo positivo analogo.

L’utilizzo dei parametri interpretativi applicati dalla Corte agli articoli 2 e 3 è il riferimento da mutuare anche nel caso specifico.

Più volte la Corte ha ribadito che, insieme agli articoli 2 e 3, l’articolo 4 sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche e la tratta, che minaccia la dignità e le libertà fondamentali delle sue vittime, è incompatibile con tali valori (si vedano le citate cause Siliadin c. Francia; Rantsev c. Russia e Cipro; Chowdury e altri c. Grecia; V.C.L. e A.N. c. Regno Unito; Zoletic e altri c. Azerbaigian). Inoltre, è indiscusso che gli Stati contraenti debbano adempiere agli obblighi di cui all’art. 4 secondo un approccio globale che tenga conto di quanto richiesto dal Protocollo di Palermo e dalla Convenzione anti-tratta. Le controversie relative all’art. 4 sono oggi sostanzialmente concentrate non tanto sull’esistenza degli obblighi positivi, quanto sulla loro interpretazione che ne consenta una realizzazione effettiva a tutela dei diritti fondamentali delle vittime.

Fino al caso in esame, la giurisprudenza della Corte relativa alle tutele successive ai fatti di tratta ha riguardato essenzialmente l’efficacia delle indagini e le pene. Già con il caso V.C.L. e A.N. c. Regno Unito è stata inaugurata una prospettiva diversa, finalizzata a garantire la protezione delle vittime dopo la commissione del fatto. Anche le considerazioni riguardanti il risarcimento delle vittime di tratta, in particolare il mancato guadagno, attengono analogamente alle tutele successive. La possibilità di chiedere un risarcimento per i mancati guadagni, in particolare per quelli trattenuti o sottratti dagli sfruttatori, costituirebbe un mezzo per garantire pieno ristoro alle vittime per il danno subito e fornirebbe loro i mezzi finanziari per affrontare il reinserimento sociale e prevenire forme di re-vittimizzazione. Questo aspetto, scrive la Corte, non è secondario, ma deve essere considerato una parte essenziale della risposta integrata dello Stato alla tratta, imposta dall’articolo 4 della Convenzione.

Questa misura di “ristoro patrimoniale” va a comporre il mosaico degli obblighi positivi ex art. 4. È importante che si affermi la possibilità per le vittime di recuperare i guadagni sottratti dai loro sfruttatori. Ciò contribuirebbe a modificare la percezione diffusa della tratta come un crimine a basso rischio e ad alto profitto[2].

D’altronde, ciò è in linea con la moderna propensione del diritto penale a colpire i patrimoni illeciti e non solo gli autori dei reati dal punto di vista personale.

Conclude, quindi, la Corte che «l’articolo 4 della Convenzione, interpretato alla luce del suo oggetto e del suo scopo e in modo da rendere le sue garanzie pratiche ed efficaci, stabilisce un obbligo positivo da parte degli Stati contraenti di consentire alle vittime della tratta di chiedere un risarcimento ai loro trafficanti per il mancato guadagno».

La conclusione è supportata da altre fonti internazionali. Sono stati citati i casi del Protocollo addizionale ONU e della Convenzione anti-tratta del Consiglio d’Europa. Peraltro, gli organismi in seno alle Nazioni Unite sottolineano la necessità che gli Stati consentano il risarcimento pieno per le vittime per i danni riferiti anche a restituzioni, perdita di guadagno e retribuzioni dovute[3].

La Corte trova conforto anche nella posizione di molte legislazioni nazionali, conforme alla decisione. Nei Paesi anglosassoni ed in alcuni Paesi europei (per lo più del nord Europa) il trend è nel senso di consentire alle vittime di tratta di recuperare dai loro sfruttatori i guadagni che questi ultimi hanno realizzato sfruttandole. In altri Stati contraenti, la questione non sembra essere affrontata espressamente.

In conclusione sul punto, l’obbligo positivo degli Stati contraenti di consentire alle vittime della tratta di esseri umani di chiedere ai loro trafficanti un risarcimento per il mancato guadagno rafforza la tutela dei diritti già sanciti dall’art. 4, interpretato alla luce del contesto attuale.

Conseguentemente, la Corte si concentra sulla violazione dell’obbligo positivo descritto. Le ragioni del mancato accoglimento del ricorso da parte dell’autorità giudiziaria bulgara consistono nel fatto che: 1) i guadagni sottratti erano stati ottenuti tramite prostituzione, sanzionata penalmente dal previgente art. 329 del codice penale bulgaro; 2) l’attività fonte del guadagno era contraria alla morale.

Con riferimento al primo profilo, l’autorità giudiziaria bulgara non aveva riscontrato la sussistenza degli elementi costitutivi dell’illecita condotta di prostituzione. Peraltro, ove ciò fosse accaduto avrebbe costituito violazione dell’obbligo positivo di protezione della vittima di tratta ex art. 4 CEDU, come sancito nel caso V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, visto che la ricorrente era stata costretta (o indotta) a prostituirsi.

 

5. Il richiamo sfuggente all’immoralità. La Corte rileva che il richiamato art. 329 del codice penale bulgaro era un portato del regime sovietico e successivamente, ma solo nel 2022, veniva dichiarato dalla Corte costituzionale incompatibile con i diritti fondamentali. Infatti, questa norma giocava un ruolo in favore dei gruppi criminali poiché induceva le vittime vulnerabili a non denunciare o collaborare con le autorità onde evitare la punizione che ne sarebbe derivata, inabissandole ulteriormente nel sommerso. Direttamente collegata a questa impostazione si pone, secondo i giudici bulgari, la censura delle ragioni della ricorrente, la quale reclamava guadagni sottratti dallo sfruttatore, ma percepiti attraverso l’attività immorale.

Il tema della morale e della regolamentazione della prostituzione è estremamente delicato, poiché coinvolge sentimenti e visioni disparate. Come è noto, in Europa esistono diverse posizioni. La stessa Corte nella sua pronuncia ne è ben consapevole e non entra nel merito. La diversità di approccio all’argomento condiziona anche e soprattutto i legislatori; si pensi all’attuale processo di revisione della direttiva 2011/36/EU ed alle spinte di diversa matrice che supportano le idee estreme della criminalizzazione o della liberalizzazione della prostituzione e tutte le soluzioni intermedie compromissorie che, però, dovrebbero sempre avere come obiettivo la tutela dei diritti umani delle persone, in particolare se vulnerabili.

Ciò premesso, la Corte sgombera il campo da un equivoco. L’azione promossa dalla ricorrente non può essere considerata contraria alla moralità, poiché opera su un piano diverso. La ricorrente non ha chiesto il riconoscimento di diritti derivanti da un contratto di lavoro sessuale, bensì rivendicava i proventi trattenuti dal suo sfruttatore, ingiustamente arricchitosi, peraltro in forza dello sfruttamento sessuale.

Il caso non riguardava la validità ed azionabilità dei contratti aventi come causa ed oggetto il lavoro sessuale, tema che sarebbe di ardua soluzione unitaria. In Italia, ad esempio, tuttora vi sarebbero dubbi applicativi, venendo in gioco le norme di cui agli artt. 1343 e 2035 cod. civ.. Il tema è più semplicemente se l’obbligo positivo di consentire alle vittime della tratta di chiedere e ottenere un risarcimento dai loro trafficanti per il mancato guadagno possa, in questo caso, essere evitato sulla base del fatto che i guadagni in questione sono stati ottenuti in modo immorale. E considerato che nelle moderne schiavitù il principale fine di sfruttamento attuale è ancora quello sessuale, una soluzione di tal fatta, oltre che illogica, sarebbe beffarda. Seguendo tale ragionamento si avrebbe la paradossale conseguenza che anche somme sottratte dall’aguzzino con violenza non sarebbero ripetibili, se provento di prostituzione (forzata).

La lacuna nella protezione economica della vittima di tratta sulla base dell’asserita immoralità della fonte di guadagno dei proventi può scaturire non soltanto – come nel caso bulgaro – a causa della vigenza di una legge specifica.

Occasioni indirette di rottura del portato complessivo dell’art. 4 CEDU possono anche derivare da interventi interpretativi condizionati da stereotipi o pregiudizi che, forse, sono ancora più subdoli e difficili da contrastare.

In sostanza, l’impostazione culturale  soggettiva potrebbe condurre l’interprete (e quindi il giudice) ad applicare la propria morale individuale in luogo di un’oggettiva analisi tecnico giuridica, sia in tema di risarcimento per guadagno ed ancora prima in ordine allo stesso riconoscimento della condizione di vittima.

Alcune manifestazioni di pregiudizio le ricaviamo anche dall’esame di casi giurisprudenziali concreti e recenti. Ad esempio, la Corte europea nel caso J.L. c. Italia [4] lo specifica chiaramente. La decisione punta il dito contro l’autorità giudiziaria italiana con riferimento alle espressioni contenute in sentenza ed al metodo utilizzato, evidenziando pregiudizi e stereotipi che – influenzati da valutazioni morali soggettive che andrebbero superate nel momento della valutazione dei casi – avevano ritenuto inattendibili le dichiarazioni rese dalla presunta vittima (di un abuso sessuale di gruppo) sulle base delle sue scelte sessuali pregresse, libere e disinibite, effettuando così un (pre)giudizio sulla persona più che sui fatti descritti. Il giudizio di scarsa credibilità si fondava in parte sulle incoerenze del racconto, sulla mancanza di riscontri esterni e sulla presenza di dati contraddittori, ma altresì su fatti e valutazioni relativi alla vita privata della denunciante, alla sua vita familiare ed alle sue abitudini sessuali, alle passate esperienze artistiche, agli atteggiamenti tenuti in pubblico dalla stessa prima che si verificassero i fatti denunciati. L’esplicita menzione di tali aspetti nella sentenza dei giudici di appello ha supportato l’assoluzione degli imputati, poiché si riteneva esistente la prova di un preventivo consenso ai rapporti sessuali, malgrado lo stato di alterazione dovuto all’assunzione di sostanze alcoliche.

Non è l’unico esempio di sentenze censurate per l’utilizzo di espressioni all’interno di provvedimenti giurisdizionali o di processi decisori da cui possono trasparire pregiudizi, se non addirittura giudizi morali soggettivi che dovrebbero essere estranei al ragionamento logico giuridico[5].

Non agevola la disciplina civilistica dell’art. 2035 cod. civ., su cui si registrano oscillazioni giurisprudenziali. Se la prestazione è contraria al “buoncostume” allora potrebbe non essere ripetibile, come nel caso del denaro consegnato dalla vittima allo sfruttatore.

In giurisprudenza non vi sono chiari casi di richieste di risarcimento per i guadagni sottratti, trattandosi sempre di richieste risarcitorie per danni patrimoniali o non patrimoniali in genere. E se il reo fosse scaltro e avveduto e, invece di percepire denaro si facesse (acquistare e) intestare beni, allora potrebbe anche trovare pronunce di legittimità favorevoli, come Cass. Civ. sez. II, 25 marzo 2013, n. 7480 che ha stabilito che «la donazione indiretta, consistente nell’intestazione in favore del beneficiario di una quota di immobile acquistata con danaro proprio della disponente, proveniente dall’attività di meretricio di quest’ultima, dalla quale il primo traeva guadagno, non è affetta da nullità per illiceità della causa, rimanendo la condotta di sfruttamento della prostituzione irrilevante rispetto all'atto di liberalità, espressione di piena autonomia negoziale ed oggetto di semplice accettazione da parte del donatario».

Tuttavia, in siffatti casi non è centrale il riferimento alla “morale sociale esistente in un determinato momento storico” – per come la giurisprudenza di legittimità interpreta la nozione di buoncostume (Cass. Civ. sez. lav., 26 gennaio 2018, n. 2014) – bensì la scelta autonoma e volontaria di effettuare la prestazione, che nel caso della tratta è certamente insussistente, poiché la vittima è condizionata e privata della libertà di autodeterminazione.

 

6. Prospettive di sviluppi normative. Il 19 dicembre 2022 la Commissione europea ha proposto una revisione della direttiva anti-tratta 2011/36/EU sulla base della valutazione sul suo stato di attuazione.

Al fine di ricomporre le diversità di approccio e le lacune, i lavori di revisione della direttiva 2011/36/EU[6] sul tema specifico del risarcimento alle vittime potrebbero licenziare un testo rinnovato dell’art. 17 caratterizzato da diverse opzioni innovative.

In ogni caso gli Stati membri dovranno provvedere affinché le vittime della tratta abbiano diritto a un ricorso effettivo e tempestivo ai sensi del diritto nazionale in caso di violazione degli obblighi derivanti dalla direttiva, eventualmente richiamando la disciplina dei reati intenzionali violenti, ma indipendentemente dal fatto che sia stato avviato un procedimento giudiziario. Peraltro, andrebbe inteso che la soluzione soddisfacente ai sensi dell’art. 4 CEDU non può essere esaurita nella direttiva 2004/80/EU poiché molto spesso la tratta non si manifesta in modo “violento”.

Nell’ambito del percorso di revisione in atto, sarebbe necessario prevedere, altresì, che gli Stati membri adottino le misure necessarie per garantire che il risarcimento concesso alla vittima della tratta di esseri umani a seguito di una decisione adottata in un procedimento penale o civile sia corrisposto alla vittima in tempo utile dopo l’adozione della decisione da parte dello Stato. Lo Stato membro interessato dovrebbe in seguito perseguire i responsabili del danno causato per rimborsare il risarcimento anticipato dallo Stato alla vittima.

Ulteriore elemento di innovazione dovrebbe essere costituito dall’obbligo per gli Stati membri di istituire un fondo nazionale per le vittime o uno strumento analogo, conformemente alla loro legislazione nazionale, con i proventi oggetto di sequestro e confisca nell’ambito di procedimenti per i reati di cui alla direttiva e con gli strumenti utilizzati per la commissione dei reati medesimi, al fine di risarcire le vittime.

Tuttavia, uno dei maggiori ostacoli ad un risarcimento efficace per le vittime di tratta è la mancanza di beni confiscati, poiché gli autori dei reati sono soliti nascondere i loro patrimoni o, se stranieri, trasferirli nei Paesi d’origine. In questo senso, di grande ausilio può essere la nuova strategia di contrasto ai patrimoni illeciti della criminalità organizzata. La relazione del Parlamento europeo sulla nuova proposta di direttiva (del Parlamento europeo e del Consiglio) riguardante il recupero e la confisca dei beni[7] potrebbe garantire il congelamento e la confisca tempestivi dei proventi del reato, e quindi anche il risarcimento completo delle vittime.

Non si può dire che un meccanismo efficiente sia attivo e funzionante allo stato in Italia. Il risarcimento al di fuori del processo può essere ottenuto colpendo i beni degli autori del reato attraverso procedimenti giudiziari e azioni civili e/o dallo Stato o attraverso un fondo ad hoc per le vittime di tratta. L’articolo 12 della legge 11 agosto 2003, n. 228 (come modificata e integrata dal decreto legislativo 4 marzo 2014, n. 24) istituisce il fondo per le misure anti-tratta per il finanziamento di programmi di assistenza e integrazione sociale a favore delle vittime di tratta. Di fatto è un rimedio virtuale, poiché il fondo necessita di capienza ed è comunque limitato ad un indennizzo di 1.500 euro per ogni vittima di tratta.

Inoltre, il legislatore nazionale approvando la legge 23 luglio 2016, n. 122, che negli articoli da 11 a 16 attua la direttiva 2004/80/CE, aveva istituito un “fondo di rotazione per la solidarietà delle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive, dell’usura e dei reati intenzionali violenti”. La disciplina è stata modificata dalla legge europea 2017 (legge 20 novembre 2017, n. 167) e dal combinato disposto dei due provvedimenti si ricava che il legislatore riconosce l'accesso al fondo e dunque il diritto all'indennizzo statale, anche “alla vittima di un reato doloso commesso con violenza alla persona e comunque del reato di cui all'articolo 603-bis del codice penale”.

Le complessità procedurali sono tali da rendere l’accesso anche a questo fondo solo ipotetico. È dimostrato che sono rarissimi i casi in cui le vittime ottengono un risarcimento, anche a seguito di processi contro sfruttatori conclusi con condanna.

La giurisprudenza di legittimità ha certificato questa inadeguatezza. L’indennizzo “equo ed adeguato” va ricondotto allo schema della responsabilità “contrattuale” per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato ed il criterio parametrico basilare per la sua valutazione e liquidazione, al di là dell’eventuale sussistenza di un maggiore pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale, è costituito dall'ammontare dell’indennizzo che la vittima avrebbe avuto “ab origine” come bene della vita garantito dall’obbligo di conformazione del diritto nazionale alla direttiva europea, quando ancora non tempestivamente attuata[8].

Ma ciò che più rileva è che la condizione del preventivo infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva nei confronti dell’autore del reato (introdotta dalla legge nazionale) se rileva quanto all’azione diretta ad ottenere l'indennizzo ai sensi della normativa interna, non rileva però quanto alla verifica della corretta attuazione della direttiva.

Infatti, il considerando 10 della direttiva 2004/80/EU prevede che «le vittime del reato in molti casi non possono ottenere un risarcimento dall’autore del reato in quanto questi può non possedere le risorse necessarie per ottemperare a una condanna al risarcimento dei danni, oppure può non essere identificato o perseguito». Esso pone in rilievo come la ratio della direttiva sia rappresentata dalla necessità di ovviare alle oggettive difficoltà che la vittima di reato intenzionale violento può incontrare nel conseguire il risarcimento del danno patito, in conseguenza di fattori diversi attinenti dalla persona del reo.

Il presupposto del risarcimento non è il preventivo ed infruttuoso esperimento dell’azione esecutiva nei confronti dell'autore del reato, bensì l’esistenza, appunto, di una “oggettiva difficoltà” nel conseguire il risarcimento, e ciò sulla base di “fattori diversi” tra i quali anche l’assenza di “risorse economiche sufficienti” in capo al medesimo, desumibili da una serie di indicatori evidenziati dalla direttiva[9].

Il terzo round di valutazione dell’implementazione della direttiva europea anti-tratta da parte degli Stati membri della Convenzione anti-tratta del Consiglio d’Europa, gestito dal GRETA, ha recentemente sollecitato il miglioramento delle legislazioni e delle politiche. È in corso di pubblicazione del terzo rapporto relativo all’Italia. Già in passato era stato evidenziato che, durante il secondo round di valutazione, in ben dieci Paesi membri (tra cui l’Italia) non vi erano meccanismi statali efficienti per il risarcimento delle vittime di tratta in caso di impossibilità o insuccesso di ottenere il risarcimento dagli autori del reato[10]. Non vi sono ragioni per ritenere che le conclusioni del terzo rapporto sull’Italia siano differenti.

Uno dei motivi per cui le vittime di tratta non ottengono il risarcimento è la mancanza di informazioni adeguate e comprensibili sui diritti a ottenere un risarcimento, sui rimedi disponibili e sulle procedure per ottenerlo.

Un altro importante ostacolo è la mancanza di un’adeguata assistenza legale, compresa quella gratuita in fase esecutiva. L’assistenza legale dovrebbe essere fornita alle vittime non solo durante il processo, ma anche per l’esecuzione dei provvedimenti che dispongono il risarcimento. In effetti, accade che il risarcimento non avvenga a causa della mancanza di risorse finanziarie della vittima per permettersi il patrocinio legale per una procedura di esecuzione. Ciò sempre che la vittima sia adeguatamente supportata e protetta per procedere in via esecutiva nei confronti degli sfruttatori.

Inoltre, i minori vittime di tratta non ricevono alcun risarcimento nella stragrande maggioranza dei casi. Le procedure per ottenere l’accesso e l'applicazione dei rimedi devono essere accessibili ed efficaci per i minori e i loro rappresentanti, compresi i tutori legali. 

Infine, si deve considerare che una gran parte delle vittime di tratta, specialmente quelle sfruttate in ambito lavorativo, rinunciano a richiedere un risarcimento per via giudiziaria per le più disparate ragioni. Pertanto, gli Stati membri, oltre alle soluzioni giudiziarie, dovrebbero predisporre meccanismi extragiudiziali, calibrati sulle specificità della fenomenologia della tratta, in grado di offrire soluzioni risarcitorie che garantiscano tutela economica, ma al contempo tengano in considerazione le caratteristiche psicologiche ed i possibili traumi delle vittime, le quali necessitano di assistenza e protezione anche in queste fasi.

 

 

 

[1] R. G. CONTI, Gli obblighi positivi di natura convenzionale e il ruolo del giudice, di Strasburgo e nazionale, il diritto europeo e il giudice nazionale II.I, Giuffrè, 2023, p. 33 e ss.

[2] Per un’analisi globale elaborata da UNODC nei rapporti annuali, da ultimo per il 2022, https://www.unodc.org/documents/data-and-analysis/glotip/2022/GLOTiP_2022_web.pdf

[3] Committee on the Elimination of Discrimination against Women, General recommendation N. 38 (2020) on trafficking in women and girls in the context of global migration, CEDAW/C/GC/38, p. 20.

[4] Per un approfondimento sulle espressioni rese in sentenza dai giudici nel caso indicato, N. CARDINALE, Troppi stereotipi di genere nella motivazione di una sentenza assolutoria per violenza sessuale di gruppo: la Corte EDU condanna l’Italia per violazione dell’art. 8, in questa Rivista, 14 giugno 2021; M. BOUCHARD, La vittimizzazione secondaria all’esame della Corte europea dei diritti dell’uomo Come le parole dei giudici possono arrecare una seconda offesa alla vittima: il caso J.L. c. Italia 27 maggio 2021, Diritto penale e uomo, 6/2021

[7] <DocRef>(COM(2022)0245 – C9‑0186/2022 – 2022/0167(COD)). Sono significative gli emendamenti volti all’introduzione dei considerando 28 ter, 28 quater e 28 quinquies. In essi si propone: 1) gli Stati membri dovrebbero adottare le misure necessarie per garantire che le richieste delle vittime siano pienamente rispettate prima dell'adozione provvedimento finale di confisca; dovrebbero prestare particolare attenzione alle richieste delle vittime in tutti i procedimenti e soprattutto nei casi transfrontalieri; dovrebbero, ove possibile e in via prioritaria, adottare le misure necessarie per restituire alla vittima i beni in questione o, ove ciò non sia possibile, un valore equivalente a tali beni; 2) gli Stati membri dovrebbero adottare le misure necessarie per permettere di utilizzare i beni confiscati per scopi di interesse pubblico o sociale. Tali beni possono essere trasferiti agli enti locali o regionali per scopi istituzionali, sociali o economici, anche per essere assegnati a organizzazioni che svolgono attività di interesse sociale; 3) qualora i beni confiscati provengano da un paese terzo, gli Stati membri dovrebbero restituirli al detto paese sulla base di un accordo di restituzione. Tali accordi di restituzione potrebbero definire, tra l'altro, le modalità di reinvestimento dei fondi, ad esempio compensando le perdite delle vittime o contribuendo a progetti con un elevato impatto sociale selezionati in base alle esigenze delle popolazioni colpite e seguendo una procedura trasparente.</DocRef>

[8] Cass. Civ. sez. III, 24 novembre 2020 n. 26757; Cass. Civ. sez. III, 29 settembre 2021, n. 26302.

[9] Cass. Civ. Sez. III, 10 febbraio 2023, n. 4228.

[10] GRETA, 9th General report on Greta’s activities, Council of Europe, 2020, p. 61.