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21 Gennaio 2022


Osservatorio Corte EDU: dicembre 2021

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Edoardo Zuffada (artt. 3, 8, 10, 11 e 14 Cedu) e Gaia Caneschi (artt. 5, 6 e 8 Cedu).

 

In dicembre abbiamo selezionato pronunce relative a: tutela della salute psichica in caso di espulsione (art. 3 Cedu); tutela delle vittime di violenza domestica (artt. 3 e 14 Cedu); tutela di manifestanti pro LGBT da aggressioni omofobe (artt. 3, 11 e 14 Cedu); garanzie processuali in materia di detenzione preventiva (art. 5 Cedu); legittimità delle operazioni sotto copertura (art. 6 Cedu); tutela dei legami sociali maturati nel Paese ospitante in caso di espulsione (art. 8 Cedu); limiti alla perquisizione effettuata senza previa autorizzazione del giudice (art. 8 Cedu); atti intimidatori dello Stato nei confronti di un giornalista (art. 10 Cedu); scioglimento abusivo di un’associazione di giornalisti (art. 11 Cedu).

 

 

ART. 3 CEDU

C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 7 dicembre 2021, Savran c. Danimarca

Trattamenti inumani e degradanti – ordine di espulsione – effettività delle cure psichiatriche – esclusione

Il ricorrente, un cittadino turco residente in Danimarca dal 1991 insieme con la madre e i fratelli, nel 2006 prendeva parte a un brutale pestaggio, dal quale derivava la morte della vittima in conseguenza dei gravi traumi subiti (§ 13). Prosciolto dall’accusa di lesioni aggravate per infermità di mente in ragione di una grave patologia psichiatrica manifestatasi già all’epoca della commissione del reato, i giudici danesi ne ordinavano il ricovero in un istituto di cura, nonché la sua espulsione e rimpatrio in Turchia con divieto permanente di reingresso in Danimarca (§ 26). Il ricorrente si rivolgeva alla Corte di Strasburgo lamentando che l’esecuzione dell’ordine di espulsione avrebbe potuto pregiudicare gravemente la cura della malattia psichiatrica di cui era affetto, con serio rischio di rapido decadimento dello stato di salute e diminuzione dell’aspettativa di vita (§ 89). La grande camera, discostandosi dalle valutazioni formulate dalla sezione semplice, ha escluso che l’ordine di espulsione, il quale peraltro era stato eseguito dalle autorità danesi già nel 2015, abbia esposto il ricorrente al rischio di trattamenti inumani e degradanti ai sensi dell’art. 3 CEDU (v. peraltro infra con riferimento alla rilevata violazione dell’art. 8 CEDU). In via generale, la Corte europea – dopo aver confermato il suo generale orientamento secondo cui l’applicazione dell’art. 3 CEDU può venire in gioco anche nel caso in cui i maltrattamenti non siano intenzionalmente provocati dall’azione dell’autorità pubblica, ma siano connessi a condizioni di malattia del soggetto che possono aggravarsi irrimediabilmente a fronte di negligenza o trascuratezza da parte dello Stato (§§ 121-123) – ha ribadito la validità del principio formulato nell’ambito del giudizio Paposhvili c. Belgio, secondo cui dall’art. 3 CEDU deriva un obbligo per le autorità nazionali di definire procedure adeguate ad accertare che lo straniero gravemente malato, in caso di esecuzione di un ordine di espulsione o rimpatrio, non corra il rischio di una compromissione del proprio stato di salute (§§ 124-132). Con riguardo al caso di specie, la Corte edu, pur non sottovalutando la gravità della malattia di cui soffre il ricorrente, ha negato che l’esecuzione dell’ordine di espulsione abbia determinato un pericolo di decadimento irreversibile del suo stato di salute, sia perché i medicinali necessari per curare la patologia sono facilmente accessibili anche nella città di provenienza del ricorrente, sia perché gli effetti collaterali connessi all’assunzione dei farmaci possono essere tenuti sotto controllo anche dalle autorità sanitarie turche (§§ 140-148). (Edoardo Zuffada)

Riferimenti bibliografici: S. Santini, Espulsione di stranieri affetti da gravi patologie: una pronuncia coraggiosa della Corte di Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 360; P. Bernardoni, Detenzione e infermità psichica sopravvenuta: un problema Europeo e una soluzione nazionale, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2019, p. 1065.

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, 14 dicembre 2021, Tunikova e altri c. Russia

Trattamenti inumani e degradanti – obblighi sostanziali e procedurali – effettività delle misure volte a proteggere le vittime di violenza domestica – effettività delle indagini in casi di violenza domestica – violazione

Le quattro ricorrenti, vittime di violenza domestica da parte dei rispettivi partner, lamentano una violazione dell’art. 3 CEDU in ragione, da un lato, dell’insufficienza dei rimedi predisposti dal sistema normativo russo per contrastare efficacemente le violenze perpetrate in ambito familiare e, dall’altro lato, dell’inadeguatezza delle indagini svolte dalle autorità nazionali rispetto ai maltrattamenti subiti. La Corte di Strasburgo ha accolto le doglianze delle ricorrenti (v. anche infra sub art. 14 in relazione all’art. 3 CEDU). In particolare, la Corte europea, dopo aver ricordato che rientrano nel raggio applicativo dell’art. 3 CEDU non soltanto le violenze fisiche ma anche quei comportamenti che, attraverso l’umiliazione e la degradazione dell’individuo, manifestano una mancanza di rispetto per la dignità umana o ingenerano un tale stato di paura e angoscia da annientare ogni resistenza psico-fisica della vittima (§§ 73-75), ha evidenziato che: a) la legislazione russa, non fornendo alcuna nozione di “violenza domestica” e non prevedendo adeguati strumenti di carattere sostanziale e procedurale a protezione delle vittime di tale tipologia di reati, non soddisfa l’obbligazione positiva scaturente dall’art. 3 CEDU in base alla quale gli Stati membri devono dotarsi di un quadro normativo idoneo a contrastare efficacemente ogni forma di violenza in ambito familiare e a salvaguardare le vittime (§§ 87-100); b) le autorità russe non si sono prontamente attivate per proteggere le vittime, eliminando o quantomeno riducendo il rischio di reiterazione delle condotte violente nei loro confronti, sebbene le circostanze del caso concreto lasciassero chiaramente presagire una recrudescenza dei maltrattamenti (§§ 103-111); c) le autorità russe non hanno svolto indagini adeguate pur a fronte di denunce documentate e attendibili da parte delle vittime (§§ 114-121). In considerazione del fatto che le censure mosse alla legislazione russa assumono carattere strutturale e che, per giunta, le medesime lacune normative erano già state rilevate in larga misura nel caso Volodina c. Russia del 2019, la Corte europea ha fatto ricorso allo strumento della sentenza pilota, sollecitando la Russia ad adeguare la propria legislazione agli standard richiesti dall’art. 3 CEDU in relazione al grave fenomeno della violenza domestica. (Edoardo Zuffada)

Riferimenti bibliografici: B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli organi inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 2112.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 16 dicembre 2021, Women’s Initiative Supporting Group e altri c. Georgia

Trattamenti inumani e degradanti – obblighi positivi e negativi – effettività delle misure di protezione contro aggressioni omofobe – effettività delle indagini – violazione

I ricorrenti, persone fisiche e associazioni impegnate nella promozione delle istanze della comunità LGBT, in data 17 maggio 2013 organizzavano un flash mob in una zona centrale della città di Tbilisi. A seguito delle gravi minacce pubblicate sui social network nei confronti dei ricorrenti e dell’organizzazione di una contro-manifestazione parallela da parte di gruppi ultraconservatori, le forze di polizia predisponevano un piano di sicurezza al fine di garantire il pacifico svolgimento di entrambe le manifestazioni. Tale piano di sicurezza, tuttavia, si rivelava gravemente inadeguato: i ricorrenti venivano infatti aggrediti verbalmente e fisicamente dai controdimostranti e si vedevano costretti ad abbandonare la piazza, scortati dalle forze dell’ordine, prima ancora che il flash mob avesse luogo. I ricorrenti hanno adito la C. eur. dir. uomo lamentando la violazione dell’art. 3 CEDU sulla base dei seguenti argomenti: a) l’autorità di pubblica sicurezza non avrebbe adeguatamente protetto i manifestanti dalle aggressioni poste in essere dalle frange più violente dei gruppi ultraconservatori; b) vi sarebbero stati chiari segnali della connivenza delle autorità con i contromanifestanti; c) non sarebbero state svolte indagini effettive in merito alle violenze subite dai ricorrenti (§ 50). La Corte di Strasburgo ha ritenuto fondate le doglianze (v. anche infra sub art. 14 in relazione all’art. 3 CEDU). In particolare, con riguardo agli obblighi procedurali, è stato acclarato che le autorità georgiane non hanno svolto adeguate indagini in relazione alle aggressioni omofobe subite dai ricorrenti (§§ 64-67); con riguardo, poi, agli obblighi sostanziali, è risultato in modo incontrovertibile come l’autorità di pubblica sicurezza non abbia predisposto un’adeguata protezione nei confronti dei ricorrenti e come, anzi, una non trascurabile parte degli agenti in servizio il giorno della manifestazione abbia manifestato connivenza, se non addirittura aperta adesione ideologica, alle violenze omofobe perpetrate nei confronti dei ricorrenti (§§ 70-78). (Edoardo Zuffada)

 

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 7 dicembre 2021, Danilenko c. Russia

Legalità della detenzione provvisoria – diritto al controllo sulla legalità della detenzione provvisoria – omessa valutazione delle istanze di rilascio del ricorrente da parte delle corti nazionali - violazione

Accusato di truffa, il ricorrente veniva sottoposto alla misura cautelare della detenzione pre-processuale, rinnovata ripetutamente per intervalli regolari di tempo. Nonostante le plurime istanze di rilascio presentate e la richiesta di applicazione di una misura preventiva alternativa alla detenzione nel corso del processo, i ricorsi venivano rigettati dalle corti nazionali competenti. Solo in seguito all’emissione della sentenza di condanna, la Corte Suprema russa, pronunciandosi sulla legalità della detenzione pre-processuale, annullava tutti gli ordini di detenzione emessi: di conseguenza, il ricorrente intentava con successo una causa civile per il risarcimento dei danni per l’eccessiva durata della detenzione e per i correlati danni morali subiti (§ 14). La Corte europea ha ritenuto che la decisione delle corti nazionali di non esaminare le istanze di rilascio con un provvedimento separato rispetto alla decisione finale sul merito del processo penale fosse illegittima. Anche la Corte costituzionale nazionale, nell’analizzare la normativa interna, aveva espressamente stabilito che i ricorsi inerenti alla detenzione preventiva devono essere esaminati nel merito da una corte di seconda istanza (§ 39). Pertanto, pur ribadendo che l’art. 5 comma 4 Cedu non obbliga gli Stati contraenti ad istituire un secondo grado di giudizio per esaminare la legalità della detenzione, la Corte europea ha ricordato che, laddove un tale sistema sia invece istituito, esso deve accordare ai detenuti che impugnino in appello contro l’ordine di detenzione un livello di garanzie pari a quello accordato loro in prima istanza (§ 40). Il rifiuto di decidere sulle richieste di rilascio presentate dal ricorrente ha quindi determinato una violazione del diritto del ricorrente al controllo sulla legalità della detenzione. (Gaia Caneschi)

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Impugnazioni de libertate e garanzie minime dell’equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 968.

 

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V, 16 dicembre 2021, Yakhymovych c. Ucraina

Equità processuale – operazione sotto copertura – criteri per distinguere la tecnica investigativa legittima e l’attività provocatoria (c.d. entrapment) - violazione

Un’operazione sotto copertura veniva condotta allo scopo di raccogliere prove contro il ricorrente, il quale, secondo un informatore della polizia, sarebbe stato intenzionato a pianificare l’omicidio di una persona. All’opposto, secondo la versione difensiva sostenuta dal ricorrente nel processo, egli sarebbe stato incastrato dall’informatore e dall’agente sotto copertura, che si sarebbe offerto di compiere il reato sfruttando lo stato di soggezione suscitato nel ricorrente stesso. In seguito alla condanna in primo grado, in appello veniva riconosciuto che il ricorrente aveva avuto un ruolo non di “organizzatore” ma di “istigatore” e, conseguentemente, la pena irrogata veniva ridotta. Nel ricorso alla Corte europea veniva osservato in primo luogo che negli atti non c’era evidenza della dichiarazione iniziale dell’informatore della polizia sulla base della quale era stata organizzata l’operazione sotto copertura; in secondo luogo, quell’operazione era stata organizzata dagli agenti di polizia dell’unità anti-crimine senza alcuna supervisione; infine, sebbene sottoposto ad un confronto durante le indagini preliminari, l’agente sotto copertura non aveva potuto essere esaminato nel processo (§ 24). In via preliminare, pur riconoscendo le difficoltà correlate al compito della polizia di cercare e raccogliere prove ai fini dell’accertamento di un reato, la Corte europea afferma che l’impiego dello speciale metodo investigativo delle indagini sotto copertura deve essere mantenuto entro limiti definiti (§ 27). In altre parole, non è precluso dalla Cedu l’impiego di tali tecniche di indagine, ma l’utilizzo processuale dei risultati di simili attività è accettabile solo qualora siano state previste adeguate garanzie per prevenire gli abusi, quali una chiara e predeterminata procedura di autorizzazione e supervisione dell’operazione (§ 29). La Corte di Strasburgo mette in luce la differenza tra le operazioni sotto copertura e l’attività provocatoria (c.d. entrapment): si configura quest’ultima quando la polizia non si limita ad investigare in maniera “passiva”, ma esercita un’influenza sul soggetto tale da incitarlo alla commissione di un reato che altrimenti egli non avrebbe commesso (§ 31). Per compiere tale distinzione e dunque valutare se sia stata posta in essere un’attività provocatoria contraria all’art. 6 c. 1 Cedu occorre compiere un duplice test. Sotto il profilo sostanziale, è necessario stabilire se le attività investigative siano state essenzialmente “passive”, nonché se sia stata adottata una chiara e predeterminata procedura di autorizzazione e di supervisione (§ 33-34). Dal punto di vista processuale, nonostante la Corte edu lasci alle autorità nazionali il compito di decidere quali procedure debbano essere seguite per valutare il c.d. “entrapment plea”, è richiesto che esse avvengano nel contraddittorio tra le parti e siano esaustive e complete (§ 37). Nel caso di specie, con riferimento al primo step del test, la Corte europea ha rilevato che l’operazione sotto copertura si era fondata sulla dichiarazione dell’informatore di polizia che aveva riferito la richiesta del ricorrente e che era stato esaminato nel corso del processo; tuttavia, tale operazione era stata organizzata e svolta senza alcuna autorizzazione e supervisione indipendente. Anche la registrazione delle conversazioni avvenute tra il ricorrente e l’agente sotto copertura consentiva di stabilire che quest’ultimo non era rimasto totalmente passivo (§ 47-51). Per quanto riguarda il versante processuale della valutazione, le Corti nazionali avrebbero dovuto valutare, in esito al contraddittorio tra le parti, le ragioni dell’operazione sotto copertura, la condotta degli agenti e la natura dell’istigazione alla quale il ricorrente era stato sottoposto (§ 54). In proposito, rileva conclusivamente la Corte di Strasburgo, nonostante il suo ruolo determinante, l’agente provocatore non è stato sentito come testimone in ragione del suo stato detentivo, che non costituisce – a parere della Corte – una condizione di indisponibilità assoluta (§ 58). Dunque, sebbene prese singolarmente le carenze procedurali possano non essere state sufficienti a determinare l’iniquità complessiva della procedura, nel loro insieme hanno avuto tale effetto, determinando una violazione dell’art. 6 c. 1 Cedu. (Gaia Caneschi).

Riferimenti bibliografici: S. Basilico, L’agente sotto copertura: il confine tra tecnica investigativa legittima e istigazione a delinquere, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1819.

 

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, Grande Camera, 7 dicembre 2021, Savran c. Danimarca

Rispetto della vita privata – ordine di espulsione con divieto permanente di reingresso – persona affetta da grave malattia psichiatrica – violazione

Per la ricostruzione dei fatti, v. supra sub art. 3 CEDU. Il ricorrente ha sostenuto che il diniego opposto dalle autorità danesi alla domanda di revoca dell’ordine di espulsione abbia comportato anche una violazione dell’art. 8 CEDU, in ragione del fatto che egli, oltre a essere una persona gravemente malata e dunque particolarmente vulnerabile, vive in Danimarca dall’età di sei anni e quivi risiedono i suoi unici affetti stabili (segnatamente, la madre e i fratelli) e che, quindi, un’espulsione con divieto permanente di reingresso lo priverebbe di fatto della sua unica famiglia (§§ 151-156). La grande camera ha ritenuto fondata la doglianza del ricorrente. In particolare, la Corte edu, dopo aver precisato che nel caso di specie viene in gioco il rispetto non tanto della vita familiare quanto piuttosto della vita privata del ricorrente (§§ 174-175), ha evidenziato – sulla scorta dei criteri elaborati nel caso Maslov c. Austria – che le corti danesi non hanno tenuto in debito conto, da un lato, l’infermità di mente di cui è affetto il ricorrente e i progressi compiuti sul piano clinico e comportamentale dopo la commissione del reato (§§ 196-197); e, dall’altro lato, la maggiore solidità dei legami sociali, culturali e familiari del ricorrente con il paese ospitante rispetto al paese di destinazione (§ 198). Inoltre, il carattere permanente del divieto di reingresso in Danimarca rappresenta, agli occhi della Corte di Strasburgo, una misura troppo drastica e, dunque, sproporzionata (§ 199). (Edoardo Zuffada)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, 21 dicembre 2021, Kuzminas c. Russia

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – perquisizione domiciliare illegittima – riesame giurisdizionale inadeguato – violazione

Nell’ambito di un’indagine per traffico di stupefacenti, durante un interrogatorio venivano forniti agli inquirenti il nome e l’indirizzo del ricorrente, indicato come abituale spacciatore. Il giorno successivo, sulla base delle informazioni ricevute durante l’interrogatorio, il pubblico ministero disponeva una perquisizione urgente nell’appartamento del ricorrente, motivando l’urgenza sulla base del pericolo di disperdere materiale probatorio rilevante per le indagini. Solo sei giorni dopo il compimento dell’atto, il pubblico ministero presentava una richiesta di convalida della perquisizione, che veniva accolta dalla Corte distrettuale. Il ricorrente presentava appello contro questa decisione, sostenendo da un lato che il pubblico ministero avesse avuto sufficiente tempo per chiedere l’autorizzazione del giudice prima della perquisizione e, dall’altro lato, che la richiesta di convalida dell’atto fosse stata presentata oltre i termini previsti dalla legge (sei giorni dopo il compimento della perquisizione, anziché tre). La Corte regionale rigettava tuttavia l’appello del ricorrente affermando che l’ordine di perquisizione era fondato ed era stato eseguito in circostanze connotate dal carattere dell’urgenza. Giunge a conclusioni opposte la Corte europea, che rileva come, nel caso di specie, l’ingerenza della pubblica autorità nell’esercizio del diritto alla vita privata e familiare del ricorrente non fosse «prevista dalla legge» (come disposto dall’art. 8 comma 2 Cedu), determinandosi così una violazione del dettato convenzionale. Più nel dettaglio, l’ordine di perquisizione del pubblico ministero non esplicitava in alcun modo quali fossero le circostanze urgenti che avevano reso necessario il compimento dell’atto senza un’autorizzazione preventiva, né vi erano evidenze a supporto dell’affermazione secondo cui procrastinare la perquisizione avrebbe potuto comportare la perdita di elementi rilevanti per le indagini; al contrario, tra l’interrogatorio durante il quale era emerso il nome del ricorrente e la perquisizione era intercorso un lasso di tempo sufficiente a chiedere un’autorizzazione al giudice (§ 23). La Corte di Strasburgo ha altresì osservato che l’assenza di un’autorizzazione giudiziale preventiva non era controbilanciata dalla disponibilità di un controllo giurisdizionale postumo, dal momento che le Corti nazionali non avevano valutato l’urgenza che ha determinato la necessità di procedere senza una preventiva autorizzazione, né avevano esaminato se la misura potesse valutarsi come «necessaria in una società democratica» e proporzionata rispetto allo scopo prefissato (§ 24). Tra l’altro, a parte il decreto di perquisizione, nessun altro documento del fascicolo delle indagini era stato trasmesso al giudice incaricato del ricorso che, pertanto, non era nella condizione di valutare il grado di ragionevole sospetto che le autorità avevano avuto nei confronti del ricorrente prima di procedere alla perquisizione del suo appartamento, né l’urgenza che aveva determinato la necessità di procedere senza un’autorizzazione preventiva. (Gaia Caneschi)

Riferimenti bibliografici: F. Cassibba, Perquisizione domiciliare e ricorso effettivo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1749.

 

 

ART. 10 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 7 dicembre 2021, Yefimov e Youth Human Rights Group c. Russia

Libertà di espressione – condanna del giornalista – inserimento del giornalista in una lista nazionale di terroristi ed estremisti – violazione

I ricorrenti sono un giornalista e l’organizzazione non governativa da lui fondata, la quale si occupa di fornire assistenza legale alle vittime di violazioni dei diritti umani. Nel dicembre 2011 il giornalista pubblicava sulla rivista online dell’associazione un breve articolo in cui, con toni sarcastici e sferzanti, criticava la Chiesa Russa Ortodossa e gli stretti legami da questa intrattenuti con il potere politico locale (§ 5). A seguito della pubblicazione dell’articolo, l’autorità giudiziaria russa avviava nei confronti del giornalista un procedimento penale per il reato di “incitamento all’odio, all’ostilità e all’umiliazione della dignità umana”, lo inseriva nella lista nazionale dei terroristi ed estremisti e ordinava il suo internamento in un istituto psichiatrico (§ 10). Nel frattempo il giornalista riusciva a lasciare la Russia e otteneva asilo politico in Estonia (§ 14). Successivamente, le autorità russe ordinavano lo scioglimento dell’associazione (§§ 17-21). Il primo ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10 CEDU in quanto l’avvio del procedimento penale per il reato d’odio e l’ordine di internamento in una struttura psichiatrica avrebbero avuto un’esclusiva finalità intimidatoria, non essendo l’attivismo del giornalista tollerato dagli apparati politici locali (§ 32). Richiamando la propria giurisprudenza consolidata, la Corte di Strasburgo ha accolto il ricorso sulla base dell’argomento che l’articolo per il quale il giornalista è stato processato non presentava contenuti che potessero in qualsiasi modo incitare violenza, odio o intolleranza, né tanto meno causare disordini sociali e che, dunque, nel caso di specie, una limitazione della libertà di espressione non appare “necessaria in una società democratica” (§§ 40-48). Con riferimento alle doglianze formulate dall’organizzazione non governativa fondata dal ricorrente, v. infra sub art. 11 (Edoardo Zuffada)

Riferimenti bibliografici: M. Crippa, La pubblicazione di dichiarazioni diffamatorie altrui: la Corte Edu condanna l’Italia per la violazione del diritto di cronaca in relazione all’omicidio Tobagi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 1164; M. Crippa, La violazione della libertà di stampa nell’ordinamento turco: ancora una condanna della Corte Edu per la custodia cautelare dei giornalisti di un quotidiano antigovernativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 336.

 

 

ART. 11 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 7 dicembre 2021, Yefimov e Youth Human Rights Group c. Russia

Libertà di associazione – scioglimento di un’associazione a seguito del rifiuto opposto alla cancellazione di un membro – violazione

Per la ricostruzione dei fatti, v. supra sub art. 10 CEDU. L’associazione ricorrente lamenta la violazione dell’art. 11 CEDU in ragione dello scioglimento ordinato dalle autorità russe a seguito del rifiuto opposto alla cancellazione dai propri membri del giornalista processato per il reato di “incitamento all’odio, all’ostilità e all’umiliazione della dignità umana” e inserito nella lista di sospetti terroristi. La Corte europea, nel ricordare che la libertà di associazione di cui all’art. 11 CEDU può essere limitata solo in presenza di una base legale che soddisfi adeguati standard qualitativi di prevedibilità e accessibilità (§§ 57-58), ha ritenuto fondata la doglianza dell’associazione ricorrente sulla base dell’argomento che la disciplina relativa allo scioglimento delle associazioni in caso di partecipazione di sospetti terroristi attribuisce un elevatissimo margine di discrezionalità all’autorità amministrativa, rendendo di fatto non prevedibili i casi in cui può essere ordinata la cessazione dell’ente (§§ 59-74). (Edoardo Zuffada)

Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, Libertà di riunione ed affiliazione ad un’associazione illegale: per la Corte di Strasburgo il limite è la prevedibilità della condanna, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 359; C. Cataneo, L’intervento dell’autorità di pubblica sicurezza al fine di disperdere una riunione pacifica non autorizzata integra una violazione dell’art. 11 Cedu, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 311.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 16 dicembre 2021, Women’s Initiative Supporting Group e altri c. Georgia

Libertà di riunione – obblighi positivi – impossibilità di svolgimento di una manifestazione a causa di aggressioni omofobe – violazione

Per la ricostruzione dei fatti, v. supra sub art. 3 CEDU. La Corte europea ha ritenuto fondata anche la doglianza dei ricorrenti relativa all’art. 11 CEDU, attribuendo particolare rilievo al fatto che le autorità georgiane, pur a fronte di evidenti segnali di rischio, si sono limitate a predisporre un piano di fuga in caso di disordini, mentre non hanno mai preso in considerazione la possibilità di adottare misure più effettive per assicurare il pacifico svolgimento della manifestazione (§§ 79-84). (Edoardo Zuffada)

 

 

ART. 14 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, 14 dicembre 2021, Tunikova e altri c. Russia

Divieto di discriminazione – perdurante mancata adozione di misure idonee a contrastare la violenza di genere e a salvaguardare le vittime - violazione

Per la ricostruzione dei fatti, v. supra sub art. 3 CEDU. Le ricorrenti sostengono che l’inadeguatezza dell’apparato legislativo e le negligenze delle autorità nella conduzione delle indagini abbiano integrato anche una violazione del divieto di discriminazione (fondata sul sesso) di cui all’art. 14 CEDU in relazione all’art. 3 CEDU. La C. eur. dir. uomo, nel ricordare che la violenza contro le donne e, in particolare, la violenza domestica devono essere considerate come forme di discriminazione in base al sesso e che l’incapacità dello Stato di fornire un’adeguata protezione alle donne vittime di violenza in ambito familiare vìola il loro diritto a una eguale protezione di fronte alla legge (§ 127), ha accolto la doglianza delle ricorrenti, ricordando che già nel caso Volodina c. Russia del 2019 era stata rilevata una carenza strutturale sotto il profilo della parità di genere ed evidenziando che tale situazione è rimasta immutata anche dopo la menzionata sentenza (§§ 128-130). (Edoardo Zuffada)

Riferimenti bibliografici: C. Pagella, Gli stereotipi come violazione di un diritto fondamentale: l’Italia condannata (ancora) per le discriminazioni di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 1149.

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 16 dicembre 2021, Women’s Initiative Supporting Group e altri c. Georgia

Divieto di discriminazione – mancata protezione dei partecipanti a una manifestazione da aggressioni omofobe – violazione

Per la ricostruzione dei fatti, v. supra sub art. 3 CEDU. La Corte di Strasburgo ha ritenuto che le riscontrate violazioni degli artt. 3 e 11 CEDU siano connotate da un intento discriminatorio in rapporto all’orientamento sessuale dei ricorrenti, e ciò in ragione della connivenza di fondo mostrata dalle forze dell’ordine con le aggressioni omofobe perpetrate in occasione della manifestazione di piazza. (Edoardo Zuffada)