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10 Giugno 2020


Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo 'schema-Cappato' e passa la palla al Parlamento, rinviando l'udienza di un anno

Ufficio stampa della Corte costituzionale, comunicato del 9 giugno 2020



 

1. Con una decisione assunta all’esito della camera di consiglio del 9 giugno 2020, la Corte costituzionale ha affrontato la questione della legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 21, 117, co. 1 e 10 Cedu, della comminatoria della pena detentiva per il delitto di diffamazione a mezzo stampa. La questione è stata sollevata con due diverse ordinanze, che qui possono leggersi in allegato, da parte del Tribunale di Salerno e del Tribunale di Bari. Essa riguarda, in particolare, gli artt. 595, co. 3 c.p. e 13 l. 8 febbraio 1948, n. 47, che puniscono la diffamazione a mezzo stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, con le pene congiunte della reclusione da uno a sei anni e della multa non inferiore a euro 250 (se difetta l’attribuzione di un fatto determinato, l’art. 595, co. 3 c.p. commina la pena, in questo caso alternativa, della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a 516 euro).

Le questioni portate all’attenzione della Corte costituzionale pongono il problema della compatibilità con il principio della libertà di espressione di una normativa che minacci il carcere per i giornalisti, in ipotesi di offesa alla reputazione altrui ritenuta non giustificata dal diritto di cronaca/critica. E’ un problema ormai annoso, che come è noto ha le sue premesse nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Dal 2004 (Grande Camera, Cumpana e Mazare c. Romania), si è infatti consolidato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo il principio secondo cui, al di fuori di casi eccezionali, rappresentati dai discorsi d’odio e dall’incitazione alla violenza, l'applicazione di una pena detentiva rappresenta un’ingerenza sproporzionata e non necessaria nella libertà di espressione tutelata dall’art. 10 Cedu, che attraverso un chilling effect inibisce l’esercizio della libertà di stampa e limita l’essenziale funzione svolta dai giornalisti quali cani da guardia (watchdogs) della democrazia. Il principio è stato affermato, tra l’altro, in tre fondamentali sentenze relative all’Italia: Belpietro c. Italia (2013), Ricci c. Italia (2013), Sallusti c. Italia (2019).

 

2. Riportiamo di seguito il testo del comunicato:

"La Corte costituzionale ha esaminato oggi le questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari sulla legittimità costituzionale della pena detentiva prevista in caso di diffamazione a mezzo stampa, con riferimento, in particolare, all’articolo 21 della Costituzione e all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. In attesa del deposito dell’ordinanza, previsto nelle prossime settimane, l’Ufficio stampa della Corte fa sapere quanto segue.

La Corte ha rilevato che la soluzione delle questioni richiede una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, diritti entrambi di importanza centrale nell’ordinamento costituzionale. Una rimodulazione di questo bilanciamento, ormai urgente alla luce delle indicazioni della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, spetta in primo luogo al legislatore.

Poiché sono attualmente pendenti in Parlamento vari progetti di legge in materia, la Corte, nel rispetto della leale collaborazione istituzionale, ha deciso di rinviare la trattazione delle questioni all’udienza pubblica del 22 giugno 2021, per consentire alle Camere di intervenire con una nuova disciplina della materia.

In attesa della futura decisione della Corte, restano sospesi i procedimenti penali nell’ambito dei quali sono state sollevate le questioni di legittimità discusse oggi".

 

3. La Corte costituzionale, per la seconda volta nella sua storia, e ancora una volta in materia penale, adotta la tecnica del rinvio di un anno della trattazione delle questioni, per consentire al Parlamento di intervenire riformando la disciplina della diffamazione a mezzo stampa. E’ la stessa soluzione adottata nel caso Cappato, in tema di aiuto al suicidio, con l’ordinanza n. 207/2018: una tecnica che si fa dunque strada nella giurisprudenza costituzionale. Particolarmente significativo è il richiamo alla “leale collaborazione istituzionale” con il Parlamento, presso il quale – si legge nel comunicato – pendono diversi disegni di legge in materia. La decisione della Corte si inserisce in una più ampia linea di tendenza della giurisprudenza costituzionale, orientata alla collaborazione con le istituzioni e tra le istituzioni; linea di tendenza sottolineata dalla Presidente Cartabia nella Relazione sull’attività della Corte nel 2019 osservando, in particolare, come una comunicazione tra la Corte costituzionale e il legislatore – secondo quanto avviene in altri ordinamenti – sia fondamentale per la piena attuazione e il pieno rispetto dei principi costituzionali. L’idea è che la separazione dei poteri non impedisce la cooperazione tra i poteri, pur nel rispetto delle rispettive funzioni e prerogative.

Il comunicato stampa della Corte, a differenza di quanto accaduto nel caso Cappato, non sembra tuttavia necessariamente annunciare una dichiarazione di incostituzionalità, nel caso di inattività del legislatore. Nel comunicato si individua il nodo della questione in “una complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona”; operazione che richiede, “in primo luogo da parte del legislatore”, una “rimodulazione di questo bilanciamento, ormai urgente alla luce delle indicazioni della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Corte segnala dunque l’urgenza di un intervento legislativo e invita il Parlamento a compiere le scelte politico-criminali che ritenga opportune e che, naturalmente, dovranno tenere conto delle indicazioni della giurisprudenza di Strasburgo, che si sono sopra cursoriamente compendiate.

Rispetto a quanto avvenuto nel caso Cappato sembra dunque, almeno a leggere il comunicato, che il Parlamento potrà disporre di più ampi margini di azione. Salvo naturalmente attendere il deposito dell’ordinanza, la Corte costituzionale, infatti, non sembrerebbe aver voluto prescrivere le linee essenziali di una riforma della diffamazione. L’unico criterio richiamato – e non poteva che essere così – è rappresentato dalla giurisprudenza di Strasburgo sull’art. 10 Cedu, cioè dal parametro interposto di legittimità costituzionale.

 

4. In attesa di più approfonditi commenti, che certo non mancheranno, data la rilevanza della questione, mi sembra che si possano sin d’ora abbozzare due spunti di riflessione.

Il primo, tutto penalistico, riguarda la pena detentiva: la Corte costituzionale, sulla scia e sulla spinta della Corte EDU, invita il Parlamento a riflettere sull’opportunità di rinunciare al carcere per una particolare ipotesi di reato. In una stagione politica ispirata a ‘legge, ordine e carcere’, si potrebbe dubitare delle possibilità di successo dell’iniziativa parlamentare; senonché il verosimile sostegno dei media, in questo caso, potrebbe forse aumentare le chance di una riforma in tempo utile, che escluderebbe uno scenario analogo a quello del caso Cappato.

Il secondo spunto di riflessione riguarda, ancora, la tecnica decisoria. La Corte non ha dichiarato inammissibili le questioni sollevate, ma ha sospeso per un anno i giudizi a quibus in attesa che il Parlamento decida se e come compiere le scelte politiche che gli competono e, naturalmente, riservandosi di decidere tra un anno le questioni, al metro degli artt. 21 Cost. e 117 Cost., in rapporto all’art. 10 Cedu. Questa decisione – segnalo qui un’altra non banale differenza rispetto al caso Cappato – interessa potenzialmente un rilevante numero di procedimenti penali pendenti: se i procedimenti per aiuto al suicidio si contano, probabilmente, su due mani, quelli per diffamazione a mezzo stampa sono notoriamente numerosissimi. Ciò significa che in quei procedimenti, nella misura in cui analoghe questioni siano rilevanti, potranno essere sollevate questioni di legittimità costituzionale, ancorate all’ordinanza in attesa di deposito, che verosimilmente la Corte riunirebbe e deciderebbe tra un anno. L’effetto dell’ordinanza annunciata dal comunicato stampa della Corte potrebbe dunque essere quello di congelare per un anno – anche agli effetti della prescrizione del reato (per effetto della sospensione ex art. 159 c.p.) –un numero rilevate di procedimenti per diffamazione a mezzo stampa. Potrebbe pertanto presentarsi uno scenario nuovo, rispetto al precedente del caso Cappato: quello di ulteriori questioni di legittimità costituzionale, sollevate da giudici di merito o dalla Corte di cassazione, che potrebbero rappresentare un ulteriore stimolo per l’attività parlamentare.

Non è difficile ipotizzare che la decisione della Corte incontrerà critiche analoghe a quelle sollevate nei confronti del precedente caso Cappato. Si dirà, tra l’altro e in sostanza, che la Corte ha deciso di non decidere e di passare la palla al Parlamento, il quale a sua volta potrebbe decidere di non decidere (o non riuscire nemmeno a decidere), ripassando di fatto la palla a Palazzo della Consulta. Senonché si tratta di dinamiche e rischi insiti nella logica della collaborazione istituzionale. Anziché rinunciare a intervenire (con una decisone di inammissibilità) o, piuttosto, anziché entrare a gamba tesa (con una decisione di incostituzionalità), la Corte invoca e attende la collaborazione del Parlamento, consapevole di come alcuni progetti di riforma siano già in discussione. Se poi il Parlamento dovesse restare inerte, o non dovesse realizzare un bilanciamento degli interessi contrapposti conforme a Costituzione, la Corte, nell’esercizio delle proprie prerogative, sarebbe ancor più legittimata a intervenire, se del caso manipolando il testo della legge penale vigente (trasformando ad esempio la comminatoria di pena dell’art. 13 l. n. 47/1948 da congiunta in alternativa). Nel recente passato la Corte, in più occasioni, è intervenuta sulle pene, principali (ad es., per l’alterazione di stato) e accessorie (ad es., per la bancarotta), comminate per questo o per quel reato. Si è trattato di interventi dettati, per lo più, dall’esigenza di rispettare il principio di proporzione; interventi non andati esenti da critiche, proprio per l’asserita invasione di campo rispetto alle prerogative del Parlamento. Nel caso della diffamazione, invece, la Corte ha ritenuto opportuno anteporre alla propria decisione un passaggio istituzionale, ricorrendo a una tecnica decisoria fino al recente passato inedita nel nostro sistema e alla quale, evidentemente, devono abituarsi tanto la dottrina quanto la giurisprudenza.