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19 Ottobre 2020


Osservatorio Corte EDU: settembre 2020

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Alessandro Faina* (artt. 3, 3 e 14, 11 Cedu) e Luca Pressacco (artt. 5, 6 e 8 Cedu).

 

In settembre  abbiamo selezionato pronunce relative a: condizioni di legittimità della contenzione psichiatrica (art. 3 Cedu); operazioni di polizia nei confronti di comunità rom (artt. 3, 14 Cedu); custodia cautelare con riguardo alle motivazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti (art. 5 Cedu); procedimento disciplinare nei confronti di un pubblico ministero e imparzialità dei giudici (art. 6 Cedu); limitazioni al diritto di visita, di comunicazione e di corrispondenza del detenuto (art. 8 Cedu); interferenze nella libertà di associazione per finalità religiose mediante l’imposizione di natura penale (art. 11 Cedu).

 

ART. 3 CEDU

C. edu, sez. II, 15 settembre 2020, Aggerholm c. Danimarca

Divieto di trattamenti inumani o degradanti – misure di contenzione fisica in ospedale psichiatrico – contenzione quale misura di ultima istanza strettamente necessaria a prevenire un danno immediato o imminente – violazione

Il ricorrente, cittadino danese affetto da schizofrenia paranoide, lamentava la violazione da parte delle autorità danesi del divieto di trattamenti inumani o degradanti ex art. 3 Cedu, in relazione alle misure di contenzione fisica applicate nei suoi confronti nell'ospedale psichiatrico in cui era ricoverato a seguito di condanna penale (§ 63). I giudici di Strasburgo hanno innanzitutto sottolineato che le misure di contenzione implicanti la privazione della libertà personale devono caratterizzarsi come misure di ultima istanza strettamente necessarie e commisurate al fine di prevenire un danno immediato o imminente al paziente o ad altri (§§ 82, 84). La Corte ha quindi ritenuto che l'immobilizzazione del ricorrente al letto di contenzione era stata inizialmente disposta nel rispetto di tali parametri (§ 98), ma ha altresì rilevato che le autorità giudiziarie danesi non hanno sottoposto a sufficiente scrutinio se anche il protrarsi di tale immobilizzazione per quasi ventitré ore si sia reso strettamente necessario al fine di prevenire un danno immediato o imminente al paziente o ad altri (§§ 102, 110, 114). La Corte ha perciò ravvisato la violazione da parte delle autorità danesi dell'art. 3 Cedu (§ 115). (Alessandro Faina)*

Riferimenti bibliografici: D. Sibilio, Secondo la Corte europea lo Stato ha il dovere di proteggere i minorenni vulnerabili… anche da se stessi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 982; D. Sibilio, L'esame coatto delle urine tramite catetere, finalizzato all'ottenimento di prove, costituisce trattamento inumano e degradante, secondo la Corte di Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 2250.

Precedenti: C. edu, Grande Camera, 28 settembre 2015, Bouyid c. Belgio.

 

ARTT. 3 e 14 CEDU

C. edu, sez. III, 1 settembre 2020, R.R. e R.D. c. Slovacchia

Divieto di trattamenti inumani o degradanti – obblighi positivi sostanziali – uso della forza indispensabile e non eccessivo da parte della polizia – violazione – obblighi positivi procedurali – obbligo di condurre indagini effettive – violazione – divieto di discriminazione – mancato accertamento in merito alla lamentata discriminazione – violazione

I ricorrenti, cittadini slovacchi appartenenti alla comunità rom, a seguito di un'operazione di polizia condotta su larga scala in un'area prevalentemente abitata da cittadini rom, lamentavano la violazione da parte delle autorità slovacche degli obblighi sostanziali e procedurali discendenti dal divieto di trattamenti inumani o degradanti ex art. 3 Cedu (§§ 134, 136, 166), nonché la violazione del divieto di discriminazione di cui all'art. 14 Cedu (§§ 190, 194) in relazione alla lamentata violazione dell'art. 3 Cedu. I giudici di Strasburgo, analizzando la sussistenza nel caso in esame della violazione dell'art. 3 Cedu nella sua dimensione sostanziale, hanno innanzitutto ricordato che l'uso della forza da parte della polizia nel corso di un arresto legittimo deve sempre caratterizzarsi come indispensabile e non eccessivo (§ 146), e che l'onere della prova al riguardo spetta allo Stato nei cui confronti la violazione è lamentata (§ 148). La Corte ha quindi ritenuto che in particolare l'utilizzo di bastoni contro i ricorrenti, nel corso di quella che doveva essere un'operazione di ricerca, non appariva giustificato da circostanze straordinarie (§ 152) ma appariva anzi indicativo della natura repressiva dell'operazione nei loro confronti (§ 158), e ha pertanto ravvisato la violazione da parte delle autorità slovacche degli obblighi sostanziali di cui all'art. 3 Cedu (§ 160). In relazione alla lamentata violazione dell'art. 3 Cedu nella sua dimensione procedurale, i giudici di Strasburgo hanno ribadito che in casi come quello in esame l'effettività delle indagini è in larga misura subordinato alla loro tempestività (§ 183). In considerazione del considerevole lasso temporale trascorso tra i trattamenti inumani e degradanti subiti dai ricorrenti e alcuni fondamentali atti d'indagine eseguiti dalle autorità (§ 184), la Corte ha ravvisato la violazione da parte delle autorità slovacche degli obblighi procedurali di cui all'art. 3 Cedu (§ 187). I giudici di Strasburgo hanno poi analizzato la sussistenza della violazione del divieto di discriminazione ex art. 14 Cedu in relazione alla accertata violazione dell'art. 3 Cedu. Dopo aver riconosciuto di non potersi esprimere sul ruolo eventualmente giocato dal razzismo nell'ambito dell'operazione di polizia ai danni dei ricorrenti (§ 206), la Corte ha comunque ritenuto la mancanza di un appropriato accertamento in tal senso da parte delle autorità slovacche incompatibile con gli obblighi derivanti dall'art. 14 Cedu (§ 207), e ha pertanto ravvisato la violazione del divieto di discriminazione in relazione all'art. 3 Cedu (§ 217). (Alessandro Faina)*

Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1192; A. Aimi, La mancata punizione dei torturatori di Bolzaneto: una nuova macchia sulla “fedina convenzionale” dello Stato italiano, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 351; D. Sibilio, Secondo la Corte europea lo Stato ha il dovere di proteggere i minorenni vulnerabili… anche da se stessi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 982; D. Sibilio, L'esame coatto delle urine tramite catetere, finalizzato all'ottenimento di prove, costituisce trattamento inumano e degradante, secondo la Corte di Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 2250.

Precedenti: C. edu, sez. III, 11 dicembre 2018, Lakatošová and Lakatoš c. Slovacchia; C. edu, Grande Camera, 28 settembre 2015, Bouyid c. Belgio; C. edu, sez. V, 12 aprile 2007, Ivan Vasilev c. Bulgaria.

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, 15 settembre 2020, Bilal Akyildiz c. Turchia

Diritto di accesso alla Corte europea – legittimazione a ricorrere – status di “vittima” – diritto alla libertà e alla sicurezza – legalità della detenzione cautelare – ragionevoli motivazioni a sostegno della privazione della libertà personale – non violazione

La vicenda del ricorrente risale al 2002, anno in cui una serie di aggressioni sessuali nei confronti di soggetti minorenni aveva destato grave allarme sociale presso la comunità urbana di Istanbul. In tale contesto, il ricorrente era stato dapprima arrestato e, in seguito, aveva trascorso un periodo in custodia cautelare; salvo, infine, essere assolto da tutte le accuse per non aver commesso i fatti contestati. Egli, pertanto, si duole per la violazione del suo diritto alla libertà e alla sicurezza, sostenendo di essere stato detenuto in assenza di plausibili indizi di colpevolezza. La Corte di Strasburgo deve, in primo luogo, verificare la legittimazione a ricorrere dell’attore: lo Stato convenuto, infatti, asserisce che il ricorrente non potrebbe più essere considerato una “vittima” della violazione convenzionale, avendo già beneficiato – conformemente alla normativa interna – di una riparazione per l’ingiusta detenzione sofferta. La Corte europea rigetta questa obiezione preliminare e sancisce l’ammissibilità del ricorso. Invero, poiché secondo la legislazione interna l’indennizzo monetario rappresenta una conseguenza automatica dell’assoluzione nel processo di merito, le corti nazionali non hanno ritenuto necessario verificare la legittimità della privazione della libertà personale, né – tanto meno – riconoscere espressamente la violazione dell’habeas corpus (§ 42). Ad ogni modo, per quanto riguarda il merito delle doglianze, la Corte europea ritiene che le pretese del ricorrente siano infondate. È ben vero che i test genetici – effettuati già nella fase delle indagini preliminari – dimostravano l’estraneità del ricorrente rispetto alle aggressioni sessuali. Residuavano, tuttavia, elementi persuasivi a sostegno della misura cautelare, almeno in relazione a due episodi di tentato rapimento di minori: alcuni dei fanciulli coinvolti, infatti, avevano individuato il ricorrente – quale soggetto responsabile di tali condotte – nel corso di una regolare ricognizione di persona (§ 55). (Luca Pressacco)

Riferimenti bibliografici: M.C. Ubiali, Legittimazione a ricorrere, esaurimento delle vie di ricorso interne ed adeguatezza del rimedio risarcitorio già concesso dal tribunale nazionale in una recente sentenza della C. eur. dir. uomo in materia di artt. 3 e 5 Cedu, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 1845 ss.

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, 15 settembre 2020, Čivinskaitė c. Lituania

Equità processuale – indipendenza e imparzialità del giudice – procedimento disciplinare a carico di un pubblico ministero per negligenza professionale nella supervisione delle indagini – dichiarazioni pregiudizievoli da parte di importanti esponenti politici – rapporto di una commissione parlamentare d’inchiesta – ampia risonanza mediatica della vicenda – non violazione

In seguito a un grave scandalo giudiziario, la ricorrente – pubblico ministero con funzioni direttive, investita della supervisione di inchieste penali di alto profilo – viene sanzionata disciplinarmente e demansionata dal Procuratore generale lituano. Tale decisione viene confermata anche dalla giurisdizione amministrativa, che ritiene tale sanzione adeguata e proporzionata rispetto alle negligenze investigative accertate. Alla ricorrente, dunque, non rimane che rivolgersi alla Corte di Strasburgo, chiedendo che sia riconosciuta l’iniquità del procedimento disciplinare in cui è rimasta coinvolta. A suo dire, infatti, l’esito di tale procedimento è stato influenzato da molteplici fattori, idonei a minare l’imparzialità e l’indipendenza della giurisdizione amministrativa: fra questi, si segnalano le dichiarazioni pregiudizievoli di alcuni importanti esponenti politici, gli esiti di una commissione parlamentare d’inchiesta sull’operato degli uffici di pubblica accusa, nonché, la morbosa attenzione mediatica intorno alla vicenda in esame. La Corte europea respinge tali doglianze, considerando tutti i fattori potenzialmente rilevanti. In primo luogo – per quanto riguarda le conclusioni raggiunte dalla commissione parlamentare d’inchiesta – la Corte europea ha osservato che il rapporto conclusivo di tale organismo parlamentare conteneva solamente affermazioni di carattere generale circa l’operato degli uffici di pubblica accusa; senza che la posizione specifica della ricorrente nel procedimento disciplinare risultasse in alcun modo pregiudicata (§ 127). Secondariamente – per quanto concerne le esternazioni di alcuni importanti esponenti politici, tra cui il Presidente della Repubblica lituana – la Corte di Strasburgo ha precisato che tali affermazioni non solo non coinvolgevano direttamente la responsabilità della ricorrente, ma rispondevano anche alla legittima pretesa dell’opinione pubblica di essere ragguagliata in ordine alle misure intraprese dalle istituzioni per rimediare alle gravi problematiche emerse nel contesto dell’organizzazione giudiziaria (§ 133). Infine – per quanto riguarda il pervasivo intervento dei mezzi di comunicazione – la Corte di Strasburgo ha sottolineato che il procedimento disciplinare nei confronti della ricorrente era stato istruito e deciso da tre magistrati togati, che avevano meno probabilità rispetto a una giuria di essere influenzati da una campagna mediatica, in virtù della loro specifica formazione ed esperienza professionale (§ 139). (Luca Pressacco)

Riferimenti bibliografici: V. Vasta, Presunzione di innocenza e pubblicità extraprocessuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1061 ss.; P. Zoerle, La pubblicazione di immagini dell’imputato tra libertà di cronaca giudiziaria, diritto alla riservatezza e presunzione di innocenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 343 ss.

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V, 17 settembre 2020, Mirgadirov c. Azerbaijan e Turchia

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – detenuto in custodia cautelare – divieto di accesso a libri e riviste socioculturali – assenza di una base legale nell’ordinamento interno – limitazioni generalizzate al diritto di visita, di comunicazione e di corrispondenza del detenuto – ingerenza sproporzionata rispetto agli obiettivi perseguiti – violazione

Il ricorrente – un noto giornalista azero accusato di alto tradimento per aver trasmesso informazioni riservate a servizi di intelligence stranieri – veniva posto in stato di custodia cautelare e trascorreva in carcere l’intero lasso temporale fra il momento dell’arresto e quello di emissione della sentenza di condanna. In tale contesto, le autorità inquirenti disponevano anche una serie di restrizioni speciali, volte espressamente ad impedire la commissione di nuovi reati e a tutelare la riservatezza dell’indagine. Il provvedimento sanciva – in particolare – il divieto per il ricorrente di scambiare corrispondenza, intrattenere conversazioni telefoniche o effettuare visite personali con soggetti diversi dai suoi avvocati. Inoltre, anche la possibilità di ricevere e di abbonarsi a qualsiasi giornale o rivista socio-politica risultava parimenti preclusa. Il ricorrente lamentava, dunque, una violazione del suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, indubbiamente compresso dalle misure citate in precedenza. La Corte di Strasburgo ha rilevato, in primo luogo, che il divieto di ricevere o abbonarsi a riviste e giornali risulta privo di una base legale nell’ambito dell’ordinamento interno e, di conseguenza, appare completamente illegittimo, già nella prospettiva della legislazione nazionale (§ 118). Secondariamente, la Corte e.d.u. ha osservato che la natura e la portata delle misure intraprese dalle autorità inquirenti era tale da impedire de facto qualsiasi contatto del ricorrente col mondo esterno, fatta eccezione per i suoi difensori (§ 122). In particolare, la Corte di Strasburgo dubita della necessità di misure così dure e omnicomprensive, tali da separare il detenuto dalla sua famiglia e dal mondo esterno: invero, il Governo convenuto non è stato in grado di addurre alcun elemento fattuale idoneo a giustificare il rischio di commissione di nuovi reati di spionaggio tramite il coinvolgimento dei familiari del ricorrente (§123). Date queste premesse, le misure in esame non possono essere considerate necessarie e proporzionate nel contesto di una società democratica (Luca Pressacco)

Riferimenti bibliografici: V. Sirello, Terrorismo e tutela dei diritti fondamentali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 2382 ss.; P. Zoerle, Diritto di informazione dei detenuti e accesso a internet, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 878 ss.

 

ART. 11 CEDU

C. edu, sez. V, 3 settembre 2020, Yordanovi c. Bulgaria

Libertà di associazione – interferenze necessarie in una società democratica – proporzionalità della interferenza – violazione

I ricorrenti, cittadini bulgari appartenenti alla minoranza turco-musulmana, lamentavano la violazione da parte delle autorità bulgare della loro libertà di associazione ex art. 11 Cedu, in relazione alla condanna penale subita per aver tentato di costituire un partito politico su base religiosa (§ 46). La Corte ha innanzitutto rilevato che il procedimento penale, avviato nei confronti dei ricorrenti e all'esito del quale gli stessi sono stati ritenuti colpevoli e condannati per aver tentato di costituire un partito politico su base religiosa, ha costituito una interferenza nella libertà di associazione garantita dall'art. 11 Cedu (§ 63). Interrogandosi sulla giustificazione di tale interferenza, ed in particolare sulla sua necessità in una società democratica, i giudici di Strasburgo hanno ritenuto di non doversi soffermare sulla necessità in generale di misure restrittive della libertà di costituire un partito su base religiosa in una società democratica, bensì si sono concentrati sulla proporzionalità in concreto di tali misure rispetto agli interessi legittimi perseguiti (§ 73). All'esito di tale analisi, la Corte ha determinato che la previsione di una sanzione di natura penale non appare proporzionata agli interessi perseguiti (§ 74), e ha dunque ravvisato la violazione da parte delle autorità bulgare dell'art. 11 Cedu (§ 78). (Alessandro Faina)*

Riferimenti bibliografici: P. Bernardoni, Libertà di riunione ed affiliazione ad un’associazione illegale: per la Corte di Strasburgo il limite è la prevedibilità della condanna, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 359; G. Spinelli, La tutela della pace religiosa interna può giustificare limitazioni alla libertà di espressione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 666.

Precedenti: C. edu, Grande Camera, 15 ottobre 2015, Perinçek c. Svizzera; C. edu, 26 aprile 1991, Ezelin c. Francia; C. edu, Grande Camera, 30 gennaio 1998, Partito comunista unificato di Turchia ed altri c. Turchia; C. edu, Grande Camera, 25 maggio 1998, Partito socialista ed altri c. Turchia; C. edu, Grande Camera, 13 febbraio 2003, Refah Partisi (Partito della prosperità) ed altri c. Turchia.

 

*The views expressed herein are those of the author and do not necessarily reflect the views of the Special Tribunal for Lebanon.