Osservazioni a Corte cost., sent. 24 settembre (dep. 22 novembre 2019), n. 242, Pres. Lattanzi, est. Modugno
Per leggere il testo della sentenza, clicca qui.
Il contributo, muovendo dalle motivazioni della sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale, offre una prima lettura sistematica della ‘doppia pronuncia’ sul caso Cappato, ricostruendo le nuove ipotesi di liceità dell’agevolazione al suicidio, anche in rapporto all’art. 32, co. 2 Cost., quale cardine del diritto di rifiutare o interrompere tutte e solo le cure sino al punto di lasciarsi morire, e alla legge n. 219 del 2017, che circoscrive la non punibilità all’esclusivo ambito della relazione terapeutica.
1. Con il deposito, lo scorso 22 novembre, della sentenza n. 242, la Corte costituzionale prosegue nel percorso intrapreso, un anno fa, con l’ordinanza n. 207 del 2018, giungendo a dichiarare l’illegittimità dell’art. 580 c.p. “per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017 – ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi dianzi indicati –, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente” [1].
Già dalla semplice lettura del dispositivo, si coglie l’importanza del passo compiuto, che apre la porta all’ampliamento dei margini dell’autodeterminazione individuale, spostandone i confini – nel rispetto dell’esigenza di bilanciare la salvaguardia del bene vita – oltre la linea del semplice diritto di rifiutare o interrompere trattamenti sanitari, sinora garantito dall’art. 32, co. 2 Cost. e dalla legge n. 219 del 2017.
2. L’odierna pronuncia dà concreta attuazione alla decisione di liceizzare la condotta di agevolazione al suicidio, in presenza di ben circoscritte condizioni, assunta nell’udienza del 24 settembre 2019, ma soprattutto completa il disegno tratteggiato con l’ordinanza n. 207 del 2018, nella quale, come si ricorderà, riconoscendo, ma non (ancora) dichiarando, la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., era stato impostato un dialogo – rivelatosi poi infruttuoso – con il Parlamento, invitato, nel rispetto della sua discrezionalità (vieppiù al cospetto di materie eticamente sensibili), a intervenire, in ossequio alle modalità suggerite dalla stessa Corte, per colmare il ravvisato vulnus costituzionale.
Appare dunque necessario, seguendo le scansioni della sentenza, ripercorrere anzitutto, in sintesi, i termini della vicenda, muovendo dal ricordare come l’intervento della Corte costituzionale abbia tratto origine, nell’ambito della ben nota storia di Fabiano Antoniani, dai dubbi di legittimità sollevati, con ordinanza 14 febbraio 2018[2], dai giudici della Corte di Assise di Milano nel processo a carico di Marco Cappato[3].
Partendo dal fatto, Fabiano Antoniani (noto come DJ Fabo), nel giugno 2014, a seguito di un grave incidente automobilistico, rimane tetraplegico e affetto da cecità permanente, non autonomo nella respirazione, nell’alimentazione e nell’evacuazione e in stato di costante e acuta sofferenza, lenibile solo mediante sedazione profonda.
Conservando intatte le facoltà intellettive, esprime – consapevole dell’irreversibilità di tale condizione – la ferma volontà di porre fine alla sua esistenza; volontà in alcun modo scalfita dai numerosi tentativi di fargli cambiare idea da parte dei suoi cari e anzi ribadita dapprima con uno sciopero della fame e della parola e successivamente con varie comunicazioni pubbliche. In questa fase entra in contatto con Marco Cappato, il quale gli prospetta inizialmente la possibilità di interrompere in Italia i trattamenti di ventilazione, idratazione e nutrizione artificiale, con contestuale sottoposizione a sedazione profonda.
A fronte del saldo proposito di recarsi all’estero per ottenere assistenza alla morte volontaria, lo stesso Cappato decide di assecondare le richieste di Fabiano e di accompagnarlo, guidando un’autovettura medicalmente attrezzata, in Svizzera, ove, dopo un’ulteriore verifica, da parte del personale della struttura prescelta delle sue condizioni di salute, del permanere del consenso e della capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte, si compie, due giorni dopo il ricovero (esattamente il 27 febbraio 2017), il suicidio, realizzato azionando con la bocca uno stantuffo, attraverso il quale viene iniettato nelle vene il farmaco letale.
Di ritorno dal viaggio, Cappato si autodenuncia ai Carabinieri di Milano; la Procura della Repubblica, all’esito delle indagini, chiede in prima battuta l’archiviazione, ritenendo che, sulla base di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 580 c.p., la condotta debba ritenersi non punibile; in via subordinata, chiede che venga sollevata questione di legittimità costituzionale del medesimo articolo.
Il GIP rigetta entrambe le richieste, disponendo invece, ai sensi dell’art. 409, co. 5 c.p.p., l’imputazione coatta nei confronti di Cappato, il quale viene così tratto a giudizio davanti alla Corte di Assise di Milano, chiamato a rispondere, con riferimento alla morte di Antoniani, sia per averne rafforzato il proposito suicidario, sia per averne materialmente agevolato l’esecuzione.
La tenuta dell’art. 580 c.p. è posta in discussione dalla Corte di Assise di Milano con riferimento al suo perimetro applicativo e con riguardo al trattamento sanzionatorio.
Più precisamente: 1) nella parte in cui “incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o rafforzamento del proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13 comma 1 e 117 Cost., in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione Europea Diritti dell’Uomo”; 2) laddove “prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul processo deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25 comma 2 e 27 comma 3 Cost.”.
3. Venendo all’ordinanza n. 207 del 2018, il contenuto è richiamato espressamente nel Considerato in diritto (§§. 1-2) della sentenza in commento[4].
Si ricorda così come la Corte abbia dapprima chiarito come la tesi dell’illegittimità costituzionale, sostenuta dal giudice a quo, non potesse essere condivisa “nella sua assolutezza”; l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non è infatti di per sé incompatibile con la Costituzione, trovando essa anzi una perdurante giustificazione (anche nell’ipotesi di chi ne agevoli «in qualsiasi modo» l’esecuzione) nella finalità di “proteggere il soggetto da decisioni in suo danno”, creando intorno al soggetto ‘debole’ una sorta di “«cintura protettiva», inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui”.
L’incriminazione non può essere ritenuta in contrasto neppure con il diritto alla vita, ricondotto dalla Corte d’Assise all’art. 2 Cost. e all’art. 2 CEDU (§ 5), con il generico “diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, che il rimettente fa discendere dagli artt. 2 e 13, co. 1, Cost.” (§ 6) o con il “diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata”, rapportato all’art. 8 CEDU (§ 7).
Ciò nondimeno, possono delinearsi situazioni, “inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”, nelle quali l’incriminazione dell’aiuto al suicidio entra in contrasto con i principi costituzionali, mettendo in discussione “le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio” (§ 2.3).
Traendo spunto dalla vicenda oggetto del giudizio, si fa riferimento alle eventualità in cui a essere agevolata a procurarsi la morte sia una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli (dunque di autodeterminarsi); in queste circostanze, “l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, co. 2, Cost.” (§ 8).
A dire il vero, prosegue la Corte, al malato in queste condizioni si presenta anche la possibilità di lasciarsi morire richiedendo l’interruzione di trattamenti di sostegno vitale in atto e la contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua; richiesta peraltro vincolante nei confronti dei terzi, sulla scorta di quanto riconosciuto dalla stessa giurisprudenza costituzionale con riferimento al peso e al valore del consenso informato nell’ambito del trattamento sanitario[5], dai giudici comuni, tanto in sede civile che penale (nei casi Englaro e Welby)[6], e soprattutto dalla legge 22 dicembre 2017, n. 219 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”)[7].
Attraverso una ricostruzione della trama della legge, la Corte ricorda come vada riconosciuto “a ogni persona capace di agire il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5)” e che “in ogni caso, il medico «è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza di ciò, [...] esente da responsabilità civile o penale» (art. 1, comma 6)”; insiste poi nel rammentare come “la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, co. 1)”, rimarcando inoltre la possibilità di fare ricorso alla “sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari”; non potendo tale disposizione non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale (quali ventilazione, idratazione o alimentazione artificiali), l’effetto è quello di innescare “un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte” (§ 2.3). Ciò che, allo stato, è invece precluso al medico è “mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti non già ad eliminare le sue sofferenze ma a determinarne la morte”, così costringendolo – “per congedarsi dalla vita” – a subire “un processo più lento e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care” (§ 2.3).
A ben vedere, si precisa ulteriormente, “la sedazione profonda continua, connessa all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale – sedazione che rientra nel genus dei trattamenti sanitari – ha come effetto l’annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto sino al momento del decesso”, comprendendosi dunque “come la sedazione terminale possa essere vissuta da taluni come una soluzione non accettabile”, o meglio – richiamando quanto detto nell’ordinanza n. 207 – “meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire” (§ 9, ord. 207/2018).
Sulla fattispecie ritagliata dalla Corte costituzionale nei limiti delle quattro condizioni descritte si annidano i profili di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p., i cui presupposti logico-argomentativi sono essenzialmente due: se il preminente valore riconosciuto alla vita “non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale”.
Ancora, se pure è innegabile che malati irreversibili esposti a gravi sofferenze possano essere considerati soggetti vulnerabili da proteggere, una volta che l’ordinamento consideri chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale “in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede la ragione per la quale la stessa persona, a determinate condizioni, non possa ugualmente decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri” (§ 2.3).
Si ricava a questo punto – “nello specifico ambito considerato” – il margine di incompatibilità fra il divieto assoluto di aiuto al suicidio e la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie (comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze) che scaturisce dagli artt. 2, 13 e 32, co. 2 Cost., “ingiustificatamente nonché irragionevolmente” limitata dall’imposizione di “un’unica modalità per congedarsi dalla vita” (§ 2.3).
Perimetrata l’area d’incostituzionalità, viene quindi ricostruita la scelta di scartare la soluzione più immediata – la declaratoria di illegittimità dell’art. 580 c.p. in parte qua (laddove cioè l’aiuto venga prestato nei confronti di soggetti che versino nelle condizioni appena descritte) – per l’avvertita necessità di farsi carico del vuoto legislativo che ne sarebbe scaturito e degli abusi che ne sarebbero potuti derivare a carico dei soggetti più fragili (§ 2.4.)[8]. In ragione di ciò, vengono riproposti i plurimi profili (“ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali”) rispetto ai quali l’esigenza di una regolazione della materia appariva fondamentale, dalle “modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto” alla “disciplina del relativo “processo medicalizzato”, passando per la “riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale” e “la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura” (§ 2.4).
Sempre nell’ordinanza, poi, ci si è spinti a suggerire vere e proprie linee guida per il futuro intervento, riprese anche nella sentenza 242, tra le quali la sede ove inserire l’auspicata regolamentazione (la legge n. 219 del 2017), la previsione di una disciplina ad hoc per le vicende pregresse, anch’essa variamente calibrabile, e l’adozione di “opportune cautele affinché «l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a mettere il paziente nella concreta possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza», in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la legge n. 38 del 2010”, considerato che “il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente” (§ 2.4)[9].
Quanto alla tecnica decisoria, la Corte ricorda poi come sia stata ritenuta non percorribile pure la strada tradizionalmente seguita in situazioni analoghe, vale a dire la declaratoria di inammissibilità della questione sollevata, accompagnata da un monito al legislatore affinché rimuova il ravvisato vulnus adottando la necessaria disciplina legislativa, in ragione dell’effetto che ne sarebbe conseguito: quello, cioè, di “lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione”, col corollario dell’inevitabile condanna di Marco Cappato (§ 2.3).
La soluzione che, “facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale”, la Corte ha escogitato nel 2018 per contemperare l’esigenza del caso concreto (evitare che la norma trovi applicazione) con quella, di carattere sistematico, di lasciare “al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse alla sua discrezionalità”, è stata dunque la sospensione del giudizio a quo, con contestuale fissazione di “una nuova udienza di trattazione delle questioni, a undici mesi di distanza”, in esito alla quale “avrebbe potuto essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge regolatrice della materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela” (§ 2.5).
4. Giunti al 24 settembre 2019 (data fissata per la nuova udienza), la Corte, preso atto della sostanziale inerzia del legislatore (§ 3), ha ritenuto di non potersi ulteriormente esimere “dal pronunciare sul merito delle questioni, in guisa da rimuovere il vulnus costituzionale già riscontrato con l’ordinanza n. 207 del 2018” (§ 4), non ravvisando un ostacolo nel fatto che, come da essa stessa rilevato nella precedente ordinanza, “la decisione di illegittimità costituzionale faccia emergere specifiche esigenze di disciplina che, pur suscettibili di risposte differenziate da parte del legislatore, non possono comunque sia essere disattese”.
A tal fine, si osserva, “decorso un congruo periodo di tempo, l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta la priorità”, dal momento che – come già più volte accaduto in passato – “posta di fronte a un vulnus costituzionale, non sanabile in via interpretativa – tanto più se attinente a diritti fondamentali – la Corte è tenuta comunque a porvi rimedio” (§ 4); ciò al fine precipuo di “evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale”, specialmente “negli ambiti, come quello penale, in cui è più impellente l’esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore” (sentenza n. 99 del 2019).
Viene richiamato all’uopo l’orientamento tradizionale secondo cui “non può essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina – reale o apparente – che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti” (sentenza n. 59 del 1958), arricchito dalle più recenti acquisizioni (il riferimento è alle sentenze n. 236 del 2016, n. 233 e 222 del 2018 e n. 40 del 2019) che conducono a ritenere che “ove i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta – come nel caso di specie – in una menomata protezione di diritti fondamentali (suscettibile anch’essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell’inerzia legislativa)”, la Corte “può e deve farsi carico dell’esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento «secco» della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento” (§ 4).
5. Sulla base di tali premesse, la Corte – per fronteggiare l’esigenza di rimuovere i vulnera costituzionali evitando al contempo vuoti di tutela per i valori protetti conseguenti a una declaratoria secca di illegittimità dell’art. 580 c.p. (e i segnalati rischi di abusi “per la vita di persone in situazioni di vulnerabilità”) – fa ricorso alla tecnica già sperimentata in passato su temi ‘eticamente sensibili’, quali aborto (sentenza n. 27 del 1975) e fecondazione assistita (sentenze n. 96 e n. 229 del 2015): subordinare “la non punibilità dei fatti che venivano di volta in volta in rilievo al rispetto di specifiche cautele, volte a garantire – nelle more dell’intervento del legislatore – un controllo preventivo sull’effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la condotta” (§ 5).
Un utile “punto di riferimento già presente nel sistema”, in attesa dell’intervento del Parlamento, è così individuato nella “disciplina racchiusa negli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017”, tenuto conto del fatto che l’intervento del giudice delle leggi è circoscritto “in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge stessa: disposizione che, inserendosi nel più ampio tessuto delle previsioni del medesimo articolo, prefigura una “procedura medicalizzata” estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo” (§ 5).
Proprio la procedura delineata nella legge n. 219 del 2017 appare la più idonea a fronteggiare le esigenze di disciplina già messe in luce nell’ordinanza n. 207. In particolare, sulla base della trama normativa dei primi due articoli di tale legge, vengono enucleate le “modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto”, a partire dall’accertamento della capacità di autodeterminazione del paziente e del carattere libero e informato della scelta espressa.
Più nel dettaglio, provando a schematizzare, la richiesta di essere agevolati al suicidio da parte di una persona “capace di agire” dovrà essere: a) espressa nelle forme previste per il consenso informato e dunque “nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente”; b) documentata “in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare”; c) inserita nella cartella clinica, ferma restando ovviamente “la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà” (il che, con riguardo all’aiuto al suicidio, “è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale”; § 5).
Inquadrandosi la materia nell’ambito della relazione terapeutica, il medico, dal canto suo, dovrà: i) prospettare al paziente “le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative”; ii) promuovere “ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”; iii) dare conto nella cartella clinica tanto “del carattere irreversibile della patologia”, quanto delle “sofferenze fisiche o psicologiche”, dal momento che “il promovimento delle azioni di sostegno al paziente, comprensive soprattutto delle terapie del dolore, presuppone una conoscenza accurata delle condizioni di sofferenza” (§ 5).
Particolare attenzione è riservata al coinvolgimento dell’interessato in un percorso di cure palliative; il riferimento immediato è a quanto previsto all’art. 2 della legge n. 219, e cioè all’esigenza che sia “sempre garantita al paziente un’appropriata terapia del dolore e l’erogazione delle cure palliative previste dalla legge n. 38 del 2010”, estensibile all’ipotesi che qui interessa, sul presupposto che “l’accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita” (§ 5).
Ancora, la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio è affidata, “in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore”, a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, cui spetterà vagliare anche “le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze” (§ 5).
L’importanza dei valori in gioco porta a richiedere, quale ulteriore requisito, “l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze”, idoneo a “garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”; sempre nell’attesa delle scelte legislative, il compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti, già investiti di funzioni consultive “che involgono specificamente la salvaguardia di soggetti vulnerabili e che si estendono anche al cosiddetto uso compassionevole di medicinali nei confronti di pazienti affetti da patologie per le quali non siano disponibili valide alternative terapeutiche” (§ 5).
Alquanto scarno, infine, il riferimento all’obiezione di coscienza del personale sanitario: ci si limita ad osservare come, con la declaratoria di illegittimità costituzionale, si escluda solo “la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici”, restando pertanto affidato “alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato (§ 6).
6. Più articolata la scansione degli effetti della pronuncia sul piano temporale (§ 7). Nessun dubbio che i requisiti procedimentali individuati quali “condizioni per la non punibilità dell’aiuto al suicidio prestato a favore di persone che versino nelle situazioni indicate analiticamente” possano valere per i soli fatti successivi alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale (avvenuta il 27 novembre scorso).
Ammettendosi che le medesime condizioni procedimentali “non possono essere richieste, tal quali, in rapporto ai fatti anteriormente commessi, come quello oggetto del giudizio a quo, che precede la stessa entrata in vigore della legge n. 219 del 2017” (per l’ovvia considerazione che “le condizioni in parola non risulterebbero, in pratica, mai puntualmente soddisfatte”), si aggiunge opportunamente che in siffatte evenienze “la non punibilità dell’aiuto al suicidio rimarrà subordinata, in specie, al fatto che l’agevolazione sia stata prestata con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee, comunque sia, a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti” (§ 7).
Sarà quindi necessario che il giudice, nel caso concreto, accerti che “le condizioni del richiedente che valgono a rendere lecita la prestazione dell’aiuto – patologia irreversibile, grave sofferenza fisica o psicologica, dipendenza da trattamenti di sostegno vitale e capacità di prendere decisioni libere e consapevoli – abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico” (§ 7); che “la volontà dell’interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni”; che “il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all’accesso alle cure palliative ed, eventualmente, alla sedazione profonda continua”.
Perimetrato il confine di liceità e fissate le procedure di garanzia, si perviene, nella conclusione, a dichiarare l’art. 580 c.p. costituzionalmente illegittimo, nei termini riportati in apertura, restando di conseguenza assorbite sia l’ulteriore questione sollevata in via principale per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost., in riferimento agli artt. 2 e 8 CEDU, sia le questioni subordinate attinenti alla misura della pena. La Corte si congeda quindi ribadendo “con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente enunciati” (§ 9).
* * *
7. Rinviando a un più articolato commento sugli effetti della sentenza, soprattutto in rapporto alla concreta praticabilità della soluzione procedurale individuata dalla Corte costituzionale, e sulla capacità di reazione, nell’esercizio della propria discrezionalità, del Parlamento, si può in questa sede avanzare solo qualche considerazione, a primissima lettura, muovendo dalla necessaria ‘saldatura’ tra l’ordinanza del 2018 e la sentenza appena depositata e dall’esigenza di procedere a una lettura sistematica dei due provvedimenti, provando infine a riflettere su taluni scenari problematici che il completamento del percorso compiuto dai giudici schiude, sul duplice piano sostanziale e metodologico.
L’elemento centrale della ‘doppia pronuncia’ è rappresentato dall’equilibrato bilanciamento compiuto dalla Corte. Da un lato, infatti, si continua a valutare positivamente, in astratto, l’art. 580 c.p. in termini di meritevolezza del bene tutelato, ribadendo in generale la non incompatibilità dell’incriminazione dell’aiuto al suicidio con la Costituzione e con le norme convenzionali; si contribuisce così – meritoriamente – a ridisegnare in termini più moderni e coerenti con l’impianto costituzionale la ratio della fattispecie, ancorata oggi – a prescindere dalle concezioni di cui era portatore il legislatore del 1930 – alla “tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio”, assolvendo “allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere”[10].
Dall’altro lato, se ne giudica però in termini negativi la perdurante applicabilità a talune situazioni, selezionando, mediante un chirurgico ritaglio del petitum, una precisa area di non conformità costituzionale della fattispecie, coincidente con la peculiare condizione della persona affetta da malattia incurabile e produttiva di gravi sofferenze, la quale, ancora pienamente capace, completamente informata e libera di scegliere, non può darsi legittimamente la morte (trovandosi nell’impossibilità di farlo autonomamente), se non attraverso la richiesta di interruzione dei trattamenti sanitari necessari alla sua sopravvivenza (con eventuale somministrazione di sedazione profonda); modalità, questa, che il malato non reputa tuttavia conforme alla propria visione della dignità nel morire[11].
Si tratta, in fondo, di riconoscere la liceità – nelle ben individuate evenienze di cui in motivazione – dell’agevolazione di ipotesi suicidarie distinte e distanti rispetto a quelle prefigurate dal legislatore del 1930 (epoca nella quale, come si è detto, non erano immaginabili situazioni analoghe): come si è ben messo in evidenza, la fattispecie delineata nella ‘doppia pronuncia’ presuppone una richiesta di essere assistiti nel morire avanzata da “pazienti che si sono sottoposti talvolta per anni a trattamenti sanitari e terapie sperimentali motivati da un tenace impulso ‘a vivere’ anziché ‘a morire’”; condizioni esistenziali, queste, “che risultano assolutamente disomogenee rispetto a quelle che contraddistinguono il suicidio indotto dal ‘male dell’anima’”[12].
Assume particolare valore, in questa prospettiva, l’insistenza della Corte sulla necessità di potenziare e rendere effettivo, anche nell’ipotesi che interessa, l’accesso alle cure palliative, sul presupposto, difficilmente contestabile, che tali cure, ove idonee a eliminare la sofferenza, si prestino spesso “a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita” e possano rappresentare un efficace deterrente a scelte tragiche e ultimative.
8. Il giudizio di costituzionalità ruota attorno al canone di uguaglianza/ragionevolezza[13] e soprattutto al parametro – pur non espressamente evocato nell’ordinanza di rimessione ma abbondantemente richiamato in motivazione dalla Corte di Assise – dell’art. 32 Cost. e della libertà di autodeterminazione terapeutica[14], integrato dal riferimento alla dignità della persona[15].
In via preliminare, non può non notarsi come il riferimento alla dignità della persona appaia almeno in parte ridimensionato nella sentenza n. 242, con l’omissione di molti dei riferimenti presenti invece nell’ordinanza: il sospetto è che si sia voluto scongiurare un possibile cortocircuito tra la nozione soggettiva patrocinata nell’ordinanza n. 207 e una lettura della dignità di matrice marcatamente oggettiva, enucleabile invece dal tenore della sentenza n. 141 del 2019 in tema di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione[16].
A prescindere da ciò, nel percorso tratteggiato dalla Corte, allorquando il malato, per interrompere le sofferenze e darsi la morte, è costretto ad attraversare uno stato di degradazione della persona, lesivo della propria dignità (da salvaguardare e tutelare a maggior ragione nella fase terminale della vita, ove si è ancora più vulnerabili e indifesi), il divieto assoluto di aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p. finisce per integrare una limitazione dell’autodeterminazione del malato stesso nella scelta delle terapie, comprese quelle appunto finalizzate a liberarlo dalle sofferenze e a condurlo in via immediata alla morte, e dunque una lesione degli artt. 2, 13 e 32 Cost.; nell’indistinto divieto è ravvisata pure un’irragionevole disparità di trattamento fra malati incurabili che sono comunque in grado di togliersi la vita da soli e malati altrettanto incurabili che invece, impossibilitati a farlo, sono costretti a sottoporsi al percorso scaturente dall’interruzione del trattamento di sostegno vitale, con l’ulteriore sperequazione fra coloro ai quali l’interruzione assicura comunque una morte rapida e coloro ai quali innesca un drammatico decorso agonico.
Permane sullo sfondo il non semplice rapporto con l’art. 32, co. 2 Cost., riconosciuto quale cardine del diritto di rifiutare o interrompere tutte e solo le cure sino al punto di lasciarsi morire, e soprattutto con la non punibilità di colui che assecondi la volontà del paziente, che la legge n. 219 del 2017 continua a circoscrivere, per l’appunto, all’ambito della relazione terapeutica[17]; si tratta di indici che potrebbero rendere problematica l’estensione della copertura costituzionale dell’irresponsabilità penale al di fuori di tale ambito e oltre i limiti dell’interruzione di trattamenti medici.
Senonché, proprio nella prospettiva poc’anzi rimarcata riveste particolare significatività il riferimento operato dalla Corte a un percorso di accertamento ‘medicalizzato’ dei presupposti oggettivi (l’esistenza di una patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili al paziente, che sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale) in presenza dei quali una persona possa richiedere l’assistenza nel morire. In buona sostanza, valorizzando il canone della dignità umana in termini di tutela della qualità dell’esistenza e di libertà morale della persona e contestualizzandolo nel perimetro della libertà di autodeterminazione terapeutica nella fase terminale della vita, anche la condotta medica volta a facilitare il realizzarsi della morte – ogniqualvolta la morte segni il passaggio finale inevitabile di una malattia che non abbia alcuna speranza di guarigione – può essere ricompresa nel prisma del rapporto medico/paziente[18]; la morte, in pratica, va trattata quale esito alternativo di una patologia allo stesso modo in cui, in altre circostanze, può esserlo la guarigione.
In siffatte evenienze, quando cioè il malato terminale non intenda subire ulteriori, inevitabili e non più tollerabili, sofferenze, fra i doveri del medico non vi è la difesa del paziente da se stesso, bensì, nell’ambito di un’alleanza terapeutica rimodellata in una accezione più ampia dei doveri desumibili dall’art. 32 Cost., la tutela del paziente dalle ulteriori sofferenze terminali, non più tollerabili e non corrispondenti alla sua idea di dignità. Si affievolisce la possibile antinomia rispetto alle finalità tradizionali della professione sanitaria: non si delinea un generico provocare la morte, ma una peculiare forma di agevolazione del realizzarsi (con modalità soggettivamente più dignitose) di una morte comunque inevitabile di un paziente per il quale, nella fase terminale dell’esistenza, le sofferenze non sono più sopportabili.
Il percorso argomentativo seguito dalla Corte sembra dunque profilare una diversa – più rapida, meno sofferta, maggiormente corrispondente alla percezione soggettiva di dignità – modalità di esecuzione, in ben precise circostanze, del diritto costituzionale (già cristallizzato nella legge n. 219 del 2017 e prima ancora riconosciuto in sede giurisprudenziale) di lasciarsi morire interrompendo trattamenti vitali, non più dunque solo attraverso la sedazione profonda continua[19]; modalità, quest’ultima, peraltro connotata da un tasso di irrevocabilità, visto che “la sedazione profonda continua, connessa all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale – sedazione che rientra nel genus dei trattamenti sanitari – ha come effetto l’annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà del soggetto sino al momento del decesso” (§ 2.3).
Come detto, depone in questo senso l’avere enucleato, da parte dei giudici costituzionali, una verifica medica dei presupposti in presenza dei quali il malato possa richiedere l’assistenza nel morire (volontà ferma e patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili al paziente, tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitali), e un processo medicalizzato, con la riserva al solo personale del servizio sanitario nazionale della somministrazione di tali trattamenti. Non meno decisivo il riferimento alla possibilità per il paziente, nell’ambito del rifiuto di cure, di “modificare la propria volontà”, cui si aggiunge il rilievo che ciò, nel caso specifico dell’aiuto al suicidio, “è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale”, con l’effetto di ribadire l’importanza di un avvicinamento cosciente alla fase terminale dell’esistenza.
In definitiva, si può ritenere che la Corte non abbia inteso legittimare un diritto di morire quanto valorizzare la massima declinazione dell’autonomia decisionale del paziente (richiamata proprio all’art. 1, comma 3 della legge n. 219 del 2017), in connessione alla tutela della dignità umana, della quale si rafforza lo spettro applicativo, esteso ora alla libertà di autodeterminazione nelle situazioni di estrema vulnerabilità della persona, legate alla fase terminale della vita e all’alveo dell’alleanza terapeutica tra medico e paziente (non tanto un diritto a morire con dignità, quanto piuttosto un diritto alla piena dignità anche nel morire)[20].
Ricondurre – nei termini appena accennati – la quota di liceità dell’art. 580 c.p. (anche) alla precipua copertura dell’art. 32 Cost. (confermata dal doppio regime di efficacia intertemporale per non punire ipotesi che, come quella relativa alla condotta contestata a Cappato nel giudizio a quo, vi esulino) può altresì contribuire a mitigare i dubbi avanzati in merito a possibili discriminazioni correlate alla soluzione disegnata dalla Corte e relativi all’avere circoscritto il margine di illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. – nella comparazione con l’art. 2 della legge n. 219 – alle sole ipotesi di malati che, come nel caso Antoniani, potrebbero comunque interrompere le terapie (attraverso rifiuto o interruzione di trattamenti vitali), a differenza di malati altrettanto gravemente sofferenti che, pur versando nelle medesime situazioni soggettive, siano affetti da patologie che non richiedono trattamenti sanitari salvavita suscettibili di essere interrotti[21].
9. Quanto alle condizioni di liceità dell’agevolazione al suicidio, va ricordato come la Corte abbia richiesto – in attesa di una differente declinazione da parte del legislatore – la verifica delle condizioni liceizzanti l’agevolazione al suicidio e delle modalità di esecuzione ad opera di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, accompagnata da un parere del comitato etico territorialmente competente.
La duplice esigenza sottesa alle prescrizioni è quella, manifestata a chiare lettere, di sottoporre a scrupolosa verifica le condizioni e le modalità di esecuzione, così “da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze”.
Ovviamente, l’esigenza di un presidio rafforzato di garanzia non può non essere condivisa. Purtuttavia, su tale profilo residuano perplessità: da un lato, in merito ai compiti, al ruolo e alle prospettive del servizio sanitario nazionale e alla sua reale capacità di ‘assorbire’ e fronteggiare, sul piano organizzativo, un tale compito, al contempo gravoso e ‘scottante’, soprattutto – come si vedrà - in mancanza di alcun obbligo in capo al personale medico (chi si assumerà tale onere, in concreto, nella struttura?); dall’altro, in rapporto all’effettiva idoneità del comitato etico territorialmente competente ad assumere il ruolo di “organo collegiale terzo munito delle adeguate competenze”, che possa davvero “garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità” (per la composizione, non sempre tale da assicurare competenze idonee a vagliare i requisiti richiesti, di matrice clinica e non etica; per il rischio di difformità di approccio e di soluzioni e conseguenti possibili disparità di trattamento fra diversi comitati; per la non meglio precisata caratura del parere espresso, vincolante o no).
Inoltre, come si ricorderà, nell’ordinanza n. 207 la Corte aveva ‘suggerito’ al legislatore la necessità di contemplare (colmando l’attuale lacuna della legge n. 219 del 2017) una regolamentazione dell’obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura di agevolazione al suicidio in presenza delle più volte ricordate circostanze. Nella sentenza, il punto, invero centrale, è sbrigativamente risolto attraverso la precisazione che, esclusa la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, alcun obbligo è creato in capo al singolo medico, affidandosi alla sua coscienza la scelta “se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”.
Orbene, se si reputa legittimo assecondare, nelle ristrette ipotesi selezionate, la libertà di autodeterminazione del malato di essere aiutato a porre fine alle proprie insostenibili sofferenze in modo più dignitoso, purché ci si allinei alle garanzie procedurali richieste per il rifiuto o l’interruzione di cure vitali e all’interno di un percorso medicalizzato, come può tale assunto conciliarsi con l’assenza del diritto di ottenere tale agevolazione quantomeno da parte di un medico all’interno della struttura sanitaria pubblica deputata? In altri termini al riconoscimento – nelle ipotesi considerate - di un diritto del malato ad essere agevolato nel morire, condizionato però nei modi e nelle forme al necessario coinvolgimento del servizio sanitario nazionale, dovrebbe fare da pendant un corrispondente obbligo di assicurare questa prestazione in capo alla struttura sanitaria interessata; il che dovrebbe implicare, come ulteriore corollario, un’organizzazione interna che, nel rispetto di possibili obiezioni di coscienza, garantisca che vi sia almeno un medico pronto a darvi attuazione.
Il dubbio è che altrimenti l’importanza del passo avanti compiuto dalla Corte si arresti allo stadio del mero riconoscimento ‘formale’ di un diritto, reso tuttavia ineffettivo poiché non azionabile in concreto e rimesso alla volontà e alla coscienza del singolo medico operante nel servizio sanitario nazionale.
10. Una ulteriore peculiarità è certamente rappresentata dalla modulazione degli effetti temporali della pronuncia; scomponendo il dispositivo, si può addirittura cogliere una doppia incostituzionalità dell’art. 580 c.p., avente come spartiacque la data di pubblicazione della sentenza sulla Gazzetta Ufficiale (27 novembre 2019) e riferita alla non esclusione della punibilità:
- per il futuro, delle sole condotte di agevolazione del proposito suicidario successive a tale momento, pienamente rispettose di tutte le condizioni e le modalità esecutive, consultive e di verifica, dettate dalla Corte (qui il compito del giudice è di semplice verifica del rispetto della procedura);
- per il passato, di quei fatti (come quello da cui la vicenda è sorta) che, pur non rientrando nelle maglie procedimentali imposte dalla pronuncia, siano tuttavia connotati dall’essere stata prestata l’agevolazione “con modalità anche diverse da quelle indicate, ma idonee comunque sia a offrire garanzie sostanzialmente equivalenti”; in questo caso – diversamente dai molti precedenti nei quali si è delegata al giudice ogni valutazione in merito agli effetti delle proprie decisioni –, l’accertamento in concreto sarà incanalato nei binari già segnati dalla pronuncia, dovendo esclusivamente vertere sulle “garanzie sostanzialmente equivalenti” tassativamente elencate, e cioè sulla verifica in ambito medico delle condizioni del richiedente, sulla volontà manifestata in modo chiaro e univoco e sull’adeguata informazione del paziente in merito alle sue condizioni e alle soluzioni alternative (in primis, le cure palliative).
Di certo, modalità e garanzie sostanzialmente equivalenti a quelle procedimentali enucleate dai giudici costituzionali non potranno valere per i fatti successivi alla pubblicazione della pronuncia. Semplificando: un nuovo caso Antoniani/Cappato, negli stessi termini fattuali, non sarebbe (più) non punibile.
11. Molto si è discusso, nell’anno trascorso tra la prima e la seconda pronuncia, sulla tecnica decisoria adottata dalla Corte: un’articolata ordinanza di rinvio, con contestuale fissazione dell’udienza pubblica nella quale proseguire la trattazione e conseguente messa in mora del Parlamento, invitato a rimuovere entro quella data il ravvisato vulnus costituzionale.
L’originale scelta compiuta all’epoca, che palesava – al di là delle perplessità maturate nella dottrina costituzionalistica[22] – notevole sensibilità nei confronti delle esigenze di tutela dei diritti individuali e massima attenzione al rispetto delle prerogative costituzionali e ai rapporti fra poteri dello Stato, ha trovato oggi conferma e consacrazione definitiva nella sentenza commentata, nella quale ci si è fatti carico di quei rischi di abuso e strumentalizzazione di carattere patrimoniale ai quali una (pur parziale) declaratoria di incostituzionalità dell’art. 580 c.p., in assenza di una regolamentazione normativa, avrebbe esposto gli stessi soggetti deboli e vulnerabili che si intendeva tutelare.
Per fare ciò, il limite che la Corte ha dovuto superare – e nel § 4 del Considerato in diritto, nel delineare le coordinate metodologiche che giustificano l’intervento, se ne dà compiutamente conto – è stato quello della mancanza, nel caso di specie, delle c.d. ‘rime obbligate’. Ciò nonostante, il protrarsi del tempo e l’esigenza di garantire, al cospetto dell’inerzia del Parlamento, la legalità costituzionale – da considerare prevalente “su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia” – hanno determinato la Corte a intervenire (peraltro in bonam partem), nella maturata consapevolezza (in ragione di una tendenza sempre più frequente, anche in materia penale[23]) di non potersi limitare, “ove i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta (…) in una menomata protezione di diritti fondamentali”, a un “annullamento «secco» della norma incostituzionale”, dovendosi invece spingere a ricavare “dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento”.
In questa prospettiva, i precedenti ‘limitrofi’ cui attingere non sono mancati; sono stati rievocati casi che hanno interessato campi di materie ‘eticamente sensibili’ (la sentenza n. 75 del 1975 sull’aborto e le sentenze n. 96 e n. 229 in tema di procreazione medicalmente assistita) e nei quali “la non punibilità dei fatti che venivano di volta in volta in rilievo” è stata subordinata “al rispetto di specifiche cautele volte a garantire – nelle more dell’intervento del legislatore – un controllo preventivo sull’effettiva esistenza delle condizioni che rendono lecita la condotta” (§ 5).
Altrettanto agevole è stato rinvenire nei primi due articoli della legge n. 219 del 2017 un “preciso punto di riferimento già presente nel sistema, utilizzabile ai fini considerati, nelle more dell’intervento del Parlamento”; più in particolare, riferendosi la declaratoria di incostituzionalità “in modo specifico ed esclusivo all’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge ora citata”, si è individuata, inserendo tale disposizione “nel più ampio tessuto delle previsioni del medesimo articolo”, una “procedura medicalizzata estensibile alle situazioni che qui vengono in rilievo”, che “si presta a dare risposta a buona parte delle esigenze di disciplina poste in evidenza nell’ordinanza n. 207 del 2018”.
A questo punto, dinanzi alla prospettiva di una scelta ‘minimale’, in nome della quale limitarsi a garantire l’accertabilità in concreto delle quattro condizioni del paziente sulla base di quanto previsto nella legge n. 219 del 2017, la Corte non si è accontentata, andando più a fondo. Non è stata così semplicemente riproposta la procedura di cui alla legge ‘di comparazione’, ma se ne è ampliata, per via giurisprudenziale, la portata, aggiungendovi il riferimento al ruolo del servizio sanitario nazionale e dei comitati etici.
Si è quindi dinanzi a una sentenza che sembra qualificabile come ablativa parziale, nella quale cioè prevale l’individuazione delle situazioni da sottrarre alla sfera applicativa dell’art. 580 c.p., pur se accompagnata dall’aggiunta di ulteriori requisiti, destinati a ridurre le criticità ravvisate nell’ordinanza.
La pronuncia, tuttavia, potrebbe assumere pure i connotati di una additiva di regola, consistente nell’introduzione di una causa di non punibilità o di una scriminante (c.d. procedurale), collegata al rispetto di determinate condizioni. In quest’ultima prospettiva sembra essersi mossa la Corte, interessandosi delle ricadute pratiche della declaratoria nell’ambito del giudizio a quo (oltre che dei fatti commessi anteriormente alla pubblicazione) ed esplicitando una disciplina ad hoc per le ipotesi pregresse, così da consentire anche rispetto ad esse la non punibilità.
12. A prescindere dall’inquadramento teorico della sentenza, non va dimenticato come la decisione assunta lo scorso anno di rinviare la trattazione (o meglio, guardando alla sostanza, di differire la declaratoria della ravvisata illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 580 c.p.), sia stata mossa dal proposito di consentire al Parlamento, in nome dell’invocato “spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale”, l’esercizio delle proprie prerogative.
Già all’epoca, dettando le coordinate di razionalità dell’auspicato intervento legislativo, cui nella sentenza n. 242 è stata data ulteriore concretezza, la corte ha intrapreso una preziosa opera di bilanciamento di interessi e beni contrapposti (autodeterminazione individuale da una parte e protezione della vita dall’altra) che, in ogni caso, oggi il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità, è chiamato a completare; è questo, al di là del tono laconico utilizzato, il significato dell’auspicio conclusivo a che “la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi precedentemente annunciati”.
Tralasciando per il momento le critiche avanzate da chi, cogliendo nella sentenza n. 242 del 2019 un pericoloso sconfinamento, avanza scenari di rimeditazione dei rapporti tra giudici costituzionali e legislatore[24], va delineandosi a seguito della conclusione del caso Cappato una nuova opportunità per il Parlamento, risollecitato – ma in parte pure aiutato – dalla Corte ad assumersi la responsabilità di restituire adeguata tutela alla dignità umana nella più drammatica e delicata fase della vita, quella terminale.
Non è agevole, a questo punto, azzardare previsioni. Se, in relazione alla specifica vicenda processuale, il quadro è sufficientemente chiaro (è stata fissata al prossimo 23 dicembre l’udienza davanti alla Corte di Assise di Milano del processo a Marco Cappato), sul piano più generale l’esperienza dell’anno trascorso invano dopo l’ordinanza del 2018 (in cui il Parlamento, in fondo, ha deciso di non decidere) non induce all’ottimismo. Non mancano tuttavia segnali nuovi, che potrebbero invece lasciare ben sperare, a partire dal cambiamento della maggioranza governativa, che ha oggi assunto una composizione sostanzialmente analoga a quella che, seppure trasversalmente, aveva approvato, alla fine del mese di dicembre del 2017, la legge n. 219[25].
In ogni caso, immaginando la ripresa del cammino parlamentare, ci si può interrogare su quale vincolatività vada riconosciuta alle indicazioni fornite, in termini più stringenti rispetto all’ordinanza, dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 242. Tra i punti fermi rispetto ai quali il futuro legislatore non potrà tornare indietro, possono annoverarsi di certo le più volte richiamate condizioni in presenza delle quali è divenuta lecita l’assistenza al suicidio; verosimilmente, l’intervento di verifica del servizio sanitario nazionale e quello, consultivo, di un organo collegiale terzo (non necessariamente coincidente con i comitati etici territorialmente competenti scelti dalla Corte) appaiono passi che il legislatore, pur nell’esercizio pieno della sua discrezionalità, difficilmente potrà non considerare, quantomeno come base di partenza per individuare analoghe, seppur diverse, garanzie.
Così come, sul fronte penalistico, si dovrà riflettere sull’affidabilità della ‘soluzione tecnica’ della scriminante procedurale[26], che – aggiungiamo noi – andrebbe in ogni caso meglio tipizzata e coerentemente collocata nella legge n. 219 del 2017, in particolare all’art. 2, individuando altresì adeguati rimedi per scongiurare eccessi di burocratizzazione che possano spersonalizzare e ridurre a mere formalità le procedure da seguire per legittimare agevolazioni al suicidio.
Il nostro, di auspicio, torna a essere quello che il legislatore sappia stavolta assumersi le proprie responsabilità e, vincendo la tentazione di tergiversare ulteriormente accontentandosi della decisione dei giudici costituzionali, superi la ritrosia sin qui mostrata nell’affrontare una questione tanto fondamentale quanto percepita, a livello politico, come elettoralmente non redditizia.
[1] La sentenza n. 242 del 2019 è stata tempestivamente pubblicata, il giorno stesso della pubblicazione, in questa Rivista, 22 novembre 2019; in sede di primissimo commento, si vedano R. Bin, “Tanto tuonò che piovve” Pubblicata finalmente la sentenza sull’aiuto al suicidio (“caso Cappato”), in lacostituzione.info, 22 novembre 2019; F. Giunta, L’insostenibile sofferenza del vivere. Le motivazioni della Corte costituzionale in materia di suicidio medicalmente assistito (sent. 242/2019), in Discrimen, 25 novembre 2019; S. Corbetta, Caso “DJ Fabo”: le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale, in Quotidiano giuridico, 25 novembre 2019; M.B. Magro, Fine vita: la Consulta indica quando non è punibile l’aiuto al suicidio, ivi; A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019), in Giustizia insieme, 27 novembre 2019.
[2] In Dir. pen. cont., 16 febbraio 2018. sull’ordinanza di rimessione, nella prospettiva costituzionalistica, si vedano in particolare le osservazioni di M. D’Amico, Scegliere di morire “degnamente” e “aiuto” al suicidio: i confini della rilevanza penale dell’art. 580 c.p. davanti alla Corte costituzionale, in Corr. giur., 2018, 737 ss.; I. Pellizzone, Aiuto al suicidio, dal codice Rocco alla Carta costituzionale alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Giurisprudenza penale web, 17 settembre 2018 e C. Tripodina, Quale morte per gli “immersi in una notte senza fine”? Sulla legittimità costituzionale dell’aiuto al suicidio e sul “diritto a morire per mano di altri”, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 3/2018, 139 ss.
[3] Sulla vicenda, in termini più ampi, cfr., per tutti, M. D’Amico, Sulla (il)legittimità costituzionale della norma penale che incrimina l’istigazione al suicidio: alcune considerazioni critiche a margine del caso Cappato, in Giurisprudenza Penale Web, 11/2017; A. Alberti, Il reato d’istigazione o aiuto al suicidio davanti alla Corte costituzionale. Il “caso Cappato” e la libertà di morire, in Forum di Quaderni costituzionali, 20 marzo 2018.
[4] Nell’ambito dell’amplissima bibliografia sviluppatasi sull’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale, appare in questa sede sufficiente rinviare, per una panoramica esaustiva della varietà di posizioni espresse sul versante costituzionalistico e penalistico, ai contributi apparsi nel volume collettaneo Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte costituzionale n. 207 del 2018, a cura di F.S. Marini e C. Cupelli, Napoli, 2019, e all’accurata ricostruzione, tanto dell’ordinanza quanto dell’intera questione, compiuta da G. Leo, Nuove strade per l'affermazione della legalità costituzionale in materia penale: la Consulta ed il rinvio della decisione sulla fattispecie di aiuto al suicidio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2019, p. 241 ss.
[5] In particolare, Corte cost., sent. 23 dicembre 2008, n. 438, in Giur. cost., 2008, 4945 ss. e Corte cost., sent. 26 giugno 2002, n. 282, ivi, 2002, 2012 ss.
[6] Il riferimento è alla sentenza con la quale Prima Sezione civile della Cassazione, nella vicenda Englaro, ha autorizzato, nell’ottobre del 2007, la sospensione di nutrizione e idratazione artificiali di un paziente incapace (Cass. Sez. I civile, 4 ottobre 2007, in Guida dir., n. 43/2007, p. 29 ss.) e a quella con cui il GUP presso il Tribunale di Roma il 23 luglio del 2007 ha deciso il caso Welby, prosciogliendo l’anestesista Mario Riccio dall’imputazione (coatta) di omicidio del consenziente (GUP presso il Tribunale di Roma, sent. 23 luglio 2007, n. 2049, in Cass. pen., 2008, 1791 ss.).
[7] Sulla legge n. 219 del 2017, nella sola prospettiva penalistica, cfr. S. Canestrari, I fondamenti del biodiritto penale e la legge 22 dicembre 2017, n. 219, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 55 ss.; L. Eusebi, Decisioni sui trattamenti sanitari o «diritto di morire»? I problemi interpretativi che investono la legge n. 219/2017 e la lettura del suo testo nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale dell’art. 580 c.p., in Riv. it. med. leg., 2018, 415 ss.; C. Cupelli, Libertà di autodeterminazione e disposizioni anticipate di trattamento, in La responsabilità penale nelle professioni sanitarie, a cura di B. Romano, Pisa, 2019, 145 ss.
[8] A ben vedere, si segnala, “in assenza di una specifica disciplina della materia, qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti” (§ 10 dell’ordinanza 207 del 2018, richiamato sempre al § 2.4 della sentenza in commento).
[9] Proprio con riguardo all’esigenza di rafforzare il peso delle cure palliative, i giudici chiamano in causa, nella sentenza 242 del 2019, il Comitato nazionale per la bioetica, che, nel Parere del 18 giugno 2019 (“Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito”), “pur nella varietà delle posizioni espresse sulla legalizzazione del suicidio medicalmente assistito, ha sottolineato, all’unanimità, che la necessaria offerta effettiva di cure palliative e di terapia del dolore – che oggi sconta «molti ostacoli e difficoltà, specie nella disomogeneità territoriale dell’offerta del SSN, e nella mancanza di una formazione specifica nell’ambito delle professioni sanitarie» – dovrebbe rappresentare, invece, «una priorità assoluta per le politiche della sanità»”; diversamente, si aggiunge, si ricadrebbe nel “paradosso di non punire l’aiuto al suicidio senza avere prima assicurato l’effettività del diritto alle cure palliative” (§ 2.4).
[10] Con riferimento a quanto già ‘ritagliato’ nell’ordinanza n. 207 del 2018, D. Pulitanò, L’aiuto al suicidio fra vincoli costituzionali e politica del diritto, in Il caso Cappato, cit., p. 284 ss.; in senso analogo, alla luce della sentenza n. 242 del 2019, M.B. Magro, Fine vita: la Consulta indica quando non è punibile l’aiuto al suicidio, cit., e F. Giunta, L’insostenibile sofferenza del vivere, cit., p. 3, ad avviso del quale tuttavia “il problema generale – della liceità o meno del suicidio – resta sul tavolo e con esso la questione della costituzionalità delle condotte di aiuto in termini generali”, dal momento che “riconoscere che l’art. 580 c.p. non può più giustificarsi in nome dell’ideologia autoritaria che ne ha visto la nascita, non significa che la nuova oggettività giuridica cui fa riferimento la Consulta – ossia la tutela dei soggetti deboli e vulnerabili – fughi ogni residua perplessità”; a ben vedere, si sostiene, “l’attuale configurazione dell’art. 580 c.p. non è la loro unica forma di tutela” e “anzi, sotto questo profilo, il capoverso della norma codicistica lascia a desiderare, perchè prende in considerazione, come limiti a favore della contigua fattispecie di omicidio, solo il minore di quattordici anni e la persona incapace di intendere e di volere” e “già in quella sede si potrebbe pretendere la tipizzazione di situazioni di debolezza emotiva ed esistenziale meno marcate”.
[11] Sulle condizioni legittimanti la liceità dell’agevolazione al suicidio, si diffondono, con varietà di accenti, S. Canestrari, I tormenti del corpo e le ferite dell’anima: la ricchezza di assistenza a morire e l’aiuto al suicidio, in Il caso Cappato, cit., p. 55 ss., e F. Lazzeri, La Corte costituzionale traccia la via alla liceità delle condotte di aiuto al suicidio “medicalizzato”. La tutela del malato irreversibile e sofferente nell’ord. 207/2018 e le ragioni per un’ulteriore apertura (ad opera del legislatore?), ivi, p. 194 ss.
[12] S. Canestrari, I tormenti del corpo e le ferite dell’anima: la ricchezza di assistenza a morire e l’aiuto al suicidio, cit., p. 52 ss.
[13] Rivendica un approccio logico più che assiologico seguito dalla Corte, S. Seminara, L’art. 580 c.p. e il diritto di morire, in Il caso Cappato, cit., p. 330 ss.; sul contenuto del giudizio di uguaglianza-ragionevolezza e sulla legge n. 219 del 2017 come tertium comparationis, in particolare, F. Lazzeri, La Corte costituzionale traccia la via alla liceità delle condotte di aiuto al suicidio “medicalizzato”, cit., p. 191 ss.
[14] Sul rapporto tra libertà di cura, rifiuto di trattamenti sanitari, anche se necessari per il mantenimento in vita, e intervento medico per porre fine alla vita, cfr. le considerazioni in chiave problematica di D. Morana, L’ordinanza n. 207/2018 sul “caso Cappato” dal punto di vista del diritto alla salute: brevi note sul rifiuto di trattamenti sanitari, in Il caso Cappato, cit., p. 238 ss.
[15] Sul ruolo della dignità umana nel prisma delle scelte di fine vita, v. G. Fontana, Dignità umana e autodeterminazione terapeutica nelle scelte di fine-vita. Brevi considerazioni a margine dell’ordinanza n. 207 del 2018, in Il caso Cappato, cit., p. 157 ss.
[16] Nella richiamata sentenza n. 141 del 2019, depositata il 7 giugno 2019, si legge infatti, al § 6.1 del Considerato in diritto, che deve ritenersi incontestabile, con riferimento alla finalità di tutela della dignità umana nella cornice della previsione dell’art. 41, secondo comma Cost., che “il concetto di dignità vada inteso in senso oggettivo: non si tratta, di certo, della dignità soggettiva, quale la concepisce il singolo imprenditore o il singolo lavoratore” (corsivi aggiunti). Di talché, si prosegue coerentemente, è “il legislatore che – facendosi interprete del comune sentimento sociale in un determinato momento storico – ravvisa nella prostituzione, anche volontaria, una attività che degrada e svilisce l’individuo, in quanto riduce la sfera più intima della corporeità a livello di merce a disposizione del cliente”.
[17] Nella dimensione strettamente penalistica, il punto saliente della nuova legge è rappresentato dal comma 6 dell’art. 1, ove è sancita l’esenzione da responsabilità civile e penale del medico (ribadita all’art. 4 con riferimento alle disposizioni anticipate di trattamento) in conseguenza dell’obbligo di rispettare la volontà espressa dal paziente; a ciò si accompagna, da un lato, l’inesigibilità, per il paziente, di trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali e la precisazione che, “a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali” (comma 6) e, dall’altro, per il medico (e per i componenti dell’équipe sanitaria), l’obbligo di assicurare, nelle situazioni di emergenza o di urgenza, le cure necessarie, ove possibile nel rispetto della volontà del paziente (comma 7).
[18] L. Risicato, L’incostituzionalità “differita” dell’aiuto al suicidio nell’era della laicità bipolare. Riflessioni a margine del caso Cappato, in Il caso Cappato, cit., p. 290.
[19] L’ordinanza della Corte costituzionale può essere letta quale primo passo del cammino di costruzione di un diritto fondamentale all’aiuto nel morire (distinto dal diritto di morire invocato nell’ordinanza di rimessione), il cui pieno sviluppo è rimesso alla decisione legislativa, così come prospettato da M. Donini, La necessità di diritti infelici. Il diritto di morire come limite all’intervento penale, in Dir. pen. cont., 15 marzo 2017, p. 14 ss. e Id., Il caso Fabo/Cappato fra diritto di non curarsi, diritto a trattamenti terminali e diritto di morire. L’opzione “non penalistica” della Corte costituzionale di fronte a una trilogia inevitabile, in Il caso Cappato, cit., p. 117 ss.
[20] In senso critico, L. Eusebi, Regole di fine vita e poteri dello Stato: sulla ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale, in Il caso Cappato, cit., p. 140 ss.
[21] I dubbi sono esposti con grande precisione da S. Canestrari, I tormenti del corpo e le ferite dell’anima: la ricchezza di assistenza a morire e l’aiuto al suicidio, cit., p. 55 ss.
[22] Si rinvia, per tutti, a F.S. Marini, L’ordinanza “Cappato”: la decisione di accoglimento parziale nelle forme dell’ordinanza di rinvio, in Il caso Cappato, cit., p. 205 ss.
[23] Sul superamento del limite delle ‘rime obbligate’ anche in materia penale, nella dottrina costituzionalistica, cfr., da ultimo, A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Rivista AIC, n. 4/2019p. 145 ss.; nella letteratura penalistica, un’ampia e aggiornata rassegna critica delle decisioni in materia penale in V. Manes – V. Napoleoni, La legge penale illegittima. Metodi, itinerari e limiti della questione di costituzionalità in materia penale, Torino, 2019; ancor più di recente, muovendo da una più circoscritta questione, cfr. le riflessioni (e l’invito alla prudenza) di R. Bartoli, La sentenza n. 40/2019 della Consulta: meriti e limiti del sindacato “intrinseco” sul quantum di pena, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2019, p. 967 ss.
[24] A. Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito, cit.
[25] Nella medesima prospettiva evidenziata nel testo, va segnalata la presentazione, al Senato, di un disegno di legge di iniziativa dei Senatori Cirinnà, Cerno, De Petris, Mantero, Nencini, Nugnes e Rampi (A.S. 1494), comunicato alla Presidenza il 17 settembre 2019 e recante “Modifiche all’art. 580 del codice penale e alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, in materia di aiuto medico a morire e tutela della dignità nella fase finale della vita”, che si propone di affrontare e risolvere le questioni più rilevanti poste dalla Corte costituzionale. In estrema sintesi: a) si interviene sulla formulazione del primo comma dell’art. 580 c.p., differenziando le pene comminate per le due diverse fattispecie di istigazione e aiuto al suicidio; b) si modifica l’art. 2 della legge n. 219 del 2017, consentendo, su richiesta del paziente, la somministrazione, nell’ambito del Servizio sanitario nazionale, sia presso strutture sanitarie che a domicilio del paziente, di un farmaco atto a provocarne rapidamente e senza dolore la morte nei casi individuati dalla Corte costituzionale, con tuttavia l’esclusione, tra le condizioni che giustificano la richiesta di aiuto medico a morire, dell’essere il paziente “tenuto in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale”; tale condizione non viene riprodotta per includere nella disciplina dell’aiuto medico a morire anche quei pazienti che, sebbene non tenuti in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale (come ad esempio la ventilazione artificiale), siano comunque affetti da patologie gravi e irreversibili, fonte di sofferenze fisiche o psichiche intollerabili; c) si introduce una specifica causa di non punibilità, formulata in termini tali da coprire il più largo novero di ipotesi - includendo non solo l'art. 580 c.p., ma anche i delitti di cui agli articoli 575, 579 e 593 c.p. - ed in modo tale da valere anche per il passato.
Sull’evanescente percorso parlamentare che ha poi condotto alla sentenza costituzionale n. 242 del 2019, si rinvia ad A. Massaro, Scelte di fine vita: uno spazio sempre meno libero dal diritto?, in Il caso Cappato, cit., p. 222 ss.; M. Naddeo, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio nella prospettiva de lege ferenda: i progetti di legge al vaglio delle Commissioni riunite Giustizia e Affari sociali, in Dir. pen. cont., 23 settembre 2019; F.P. Bisceglia, Un possibile principio di risposta legislativa alle domande concernenti la dignità nella fase finale della vita, ivi, 13 marzo 2019, nonché, volendo, a C. Cupelli, Il cammino parlamentare di riforma dell’aiuto al suicidio. Spunti e prospettive dal caso Cappato, fra Corte costituzionale e ritrosia legislativa, in Dir. pen. cont., 19 aprile 2019.
[26] Per un inquadramento sistematico del concetto di giustificazione procedurale, con appropriati riferimenti al vuoto di tutela nella formulazione attuale dell’art. 580 c.p., si rinvia, per tutti, all’ampio lavoro di A. Sessa, Le giustificazioni procedurali nella teoria del reato. Profili dommatici e di politica criminale, Napoli, 2018. Significativamente, in precedenza, M. Donini, Antigiuridicità e giustificazione oggi. Una “nuova” dogmatica, o solo una critica, per il diritto penale moderno?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, 1646 ss. e M. Romano, Cause di giustificazioni procedurali? Interruzione della gravidanza e norme penali, tra esclusioni del tipo e cause di giustificazione, ivi, 2007, 1269 ss.; con specifico riferimento al caso Cappato e al percorso delineato dall’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale, cfr. altresì M. Donini, Il caso Fabo/Cappato fra diritto di non curarsi, diritto a trattamenti terminali e diritto di morire, cit., p. 128 ss.; A. Sessa, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio (art. 580 c.p.): un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della Consulta n. 207/2018, ivi, p. 343 ss.