Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale
A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia
Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Davide Sibilio (artt. 3 e 4 Cedu) e Pietro Zoerle (artt. 6, 8 e 2 Prot. 7 Cedu).
In ottobre abbiamo selezionato pronunce relative a: obblighi procedurali e vittime vulnerabili (art. 3 Cedu); ergastolo e concreta prospettiva di liberazione (art. 3 Cedu); lavori forzati e human trafficking (art. 4 Cedu); presunzione di innocenza (art. 6 Cedu); pubblicità del processo e documenti coperti da segreto (art. 6 Cedu); contraddittorio e accesso ai dati relativi alle perizie (art. 6 Cedu); bilanciamento tra diritto di cronaca e diritto all’oblio (art. 8 Cedu); diritto al doppio grado di giudizio e limiti all’appello (art. 2 Prot. 7)
ART. 3
C. eur. dir. uomo, sez. II, 26 ottobre 2021, A.P. c. Moldavia
Violenza sessuale su minore – autore del reato minorenne – mancata considerazione della vulnerabilità del ricorrente – indagini inefficaci – violazione
Il ricorrente, quando aveva cinque anni d’età, ha subito violenze ed abusi sessuali da parte di un ragazzo di dodici anni e, alcuni anni dopo i fatti, ha riferito quanto accaduto alla madre, la quale ha presentato due denunce all’ufficio della procura, chiedendo di avviare un’indagine (§§ 4-6). Nonostante la documentazione medica prodotta, che rilevava la presenza di disordini nella sfera affettiva, cognitiva e comportamentale, legati alle passate violenze fisiche e psicologiche, la procura si è rifiutata di avviare le indagini, sostenendo che le prove non fossero sufficienti; tale decisione è stata confermata prima dal pubblico ministero di grado superiore e successivamente dal giudice istruttore (§§ 14-17). La Corte europea ha ritenuto sussistente una violazione dell’art. 3 CEDU, sotto il profilo procedurale, in ragione dell’ineffettività delle indagini, nello svolgimento delle quali le autorità moldave non hanno tenuto in debito conto la particolare vulnerabilità del ricorrente. Innanzitutto, secondo la Corte, quando una persona sostiene di essere stata vittima di condotte che violano l’art. 3 CEDU, le autorità domestiche sono tenute a condurre indagini effettive per accertare i fatti e per identificare e punire i responsabili (§ 28); con riferimento al caso di specie, i giudici di Strasburgo notano che le affermazioni del ricorrente di essere stato vittima di violenze e abusi sessuali erano sufficientemente serie e il fatto che fossero supportate da una perizia psicologica redatta da un’associazione specializzata nella prevenzione degli abusi sui minori avrebbe dovuto condurre le autorità moldave ad effettuare indagini adeguatamente approfondite per gettare luce sulle circostanze del caso (§ 31). Il fatto che, al momento delle condotte contestate, l’asserito autore non avesse raggiunto l’età per essere considerato responsabile delle proprie azioni ai sensi della legge interna e che quindi non sarebbe stato perseguibile penalmente, non esenta le autorità dall’obbligo procedurale di indagare sulle condotte da lui poste in essere, che realizzino una violazione dell’art. 3 della Convenzione (§ 32). Nel caso in esame, né la polizia, né la procura, né il giudice istruttore hanno tenuto in sufficiente considerazione la perizia psicologica eseguita sulla vittima, che evidenziava gli abusi sessuali subiti; inoltre, secondo la Corte, non vale a giustificare l’inerzia delle autorità preposte alle indagini il fatto che la denuncia fosse stata presentata dalla madre del ricorrente quattro anni dopo i fatti: se è vero che il passare del tempo può avere un effetto negativo sulle possibilità di raccogliere le prove, tuttavia ciò non esenta gli inquirenti dal condurre un’indagine sufficientemente approfondita non appena vengano a conoscenza della possibile commissione di abusi sessuali a danno di un minorenne (§ 34). Infine, il ricorrente, durante le indagini preliminari, non è mai stato assistito da un assistente sociale, da uno psicologo o da uno specialista di altro genere e ciò – secondo la Corte di Strasburgo – è sintomatico del fatto che durante il procedimento non sono stati presi adeguati provvedimenti per tutelare la specifica vulnerabilità di un minore vittima di abusi sessuali (§ 35). Alla luce di questi elementi, la Corte ha concluso che vi è stata violazione, sotto il profilo procedurale, del diritto del ricorrente a non subire trattamenti inumani e degradanti ed è stato è stato conseguentemente disposto un risarcimento del danno in suo favore (§§ 36-39). (Davide Sibilio)
Riferimenti bibliografici: D. Sibilio, Secondo la Corte europea lo Stato ha il dovere di proteggere i minorenni vulnerabili... anche da se stessi, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 2/2018, pp. 982 ss.
C. eur. dir. uomo, sez. I, 28 ottobre 2021, Bancsók e László Magyar (n. 2) c. Ungheria
Ergastolo – liberazione condizionale dopo 40 anni di detenzione – necessità di una concreta prospettiva di scarcerazione – violazione
I due ricorrenti sono entrambi detenuti condannati all’ergastolo: la sentenza di condanna di Bancsòk ha previsto la possibilità di accedere alla liberazione condizionale dopo 40 anni di detenzione (§ 5), mentre Magyar (che era stato originariamente condannato all’ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale, in seguito alla pronuncia della II sezione della Corte EDU del 20 maggio 2014, László Magyar c. Ungheria, che ha condannato lo Stato per violazione dell’art. 3 CEDU, poiché non prevedeva la possibilità della liberazione condizionale per il condannato all’ergastolo), ha ottenuto la possibilità di accedere alla suddetta liberazione dopo 40 anni di detenzione (§§ 8-12). Entrambi hanno proposto ricorso alla Corte costituzionale ungherese sostenendo la contrarietà di un termine così lungo rispetto agli obblighi posti dalla Convenzione europea, ma i ricorsi sono pendenti dal 2015 (§§ 6-7, 13-14). I giudici di Strasburgo ribadiscono, in via generale, che una condanna all’ergastolo può essere compatibile con la CEDU solo se c’è una prospettiva di liberazione e una possibilità di revisione fin dall’inizio e dove il diritto nazionale non prevedesse una simile possibilità di revisione, entrerebbe in contrasto con l’art. 3 della Convenzione (§ 40). Operando una comparazione a livello internazionale emerge come sia di solito previsto un meccanismo di revisione che opera non oltre i 25 anni dopo la pronuncia della sentenza, con la possibilità di successive revisioni periodiche, mentre la previsione di un termine pari a 40 anni appare significativamente più lungo del massimo limite temporale raccomandato (§ 45); pur esistendo la possibilità, anche prima del termine di 40 anni, di domandare la grazia presidenziale per ragioni umanitarie, quali lo stato di malattia, l’incapacità fisica o l’età avanzata, tuttavia ciò, a parere della Corte, non corrisponde ad una “prospettiva di rilascio” (§ 46). Conclusivamente, secondo la Corte di Strasburgo, la condanna all’ergastolo dei ricorrenti, nonostante la previsione del predetto (significativo) termine per domandare la liberazione condizionale, non offre, di fatto, una reale prospettiva di scarcerazione, costituendo in pratica una condanna a vita e, pertanto, si pone in contrasto con l’art. 3 della Convenzione (§ 48); la Corte non ha riconosciuto ai ricorrenti il risarcimento del danno non patrimoniale richiesto, ma ha ritenuto sufficiente ai fini della loro equa soddisfazione la sola constatazione della violazione (§ 52). (Davide Sibilio)
Riferimenti bibliografici: S. Bernardi, La disciplina dell’ergastolo senza possibilità di liberazione alla luce delle più recenti sentenze di Strasburgo, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 3/2017, pp. 1215 ss.; R. Bertolesi, La Corte Edu alle prese con la rilevanza del mutamento giurisprudenziale sopravvenuto della propria stessa giurisprudenza in materia di ergastolo, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 4/2017, pp. 1543 ss.; E. Zuffada, In tema di ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata: la Corte europea si accontenta delle rassicurazioni dei giudici inglesi, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 2/2017, pp. 874 ss.
ART. 4
C. eur. dir. uomo, sez. V, 7 ottobre 2021, Zoletic e altri c. Azerbaigian
Sfruttamento lavorativo – human trafficking – lavoratori immigrati – mancanza di un’indagine effettiva – proibizione del lavoro forzato – violazione
I 33 ricorrenti – lavoratori dell’edilizia originari della Bosnia-Erzegovina immigrati in Azerbaigian – lamentano la violazione dell’art. 4 par. 2 CEDU a causa della mancata indagine da parte delle autorità azere in merito al grave trattamento ricevuto da parte del loro datore di lavoro che li ha tenuti in una situazione di illegalità sotto diversi profili: i ricorrenti sono stati assunti come lavoratori dell’edilizia da un’impresa dell’Azerbaigian per svolgere lavori in quel Paese, tuttavia, al loro arrivo, è subito emerso come l’impresa non disponesse di permessi di lavoro e – dopo aver ritirato i passaporti dei lavoratori immigrati – li ha mantenuti per un lungo periodo in condizioni inadeguate, non provvedendo a fornire alloggi adeguati (ma dormitori sovraffollati, in precarie condizioni igieniche senza acqua potabile, gas o riscaldamento), né assistenza sanitaria; inoltre, i lavoratori erano tenuti a rispettare le stringenti regole di vita stabilite dal datore, tanto che in alcuni casi non era loro consentito lasciare gli alloggi senza il permesso dei rappresentanti dell’impresa e le violazioni delle regole erano punite con sanzioni pecuniarie, ma anche con percosse, minacce fisiche, fino ad arrivare alla detenzione in un apposito luogo (§§ 6-7); inoltre, i ricorrenti non sono nemmeno stati pagati (§ 9). In conseguenza di ciò, al termine del periodo di lavoro con l’impresa edile, i lavoratori hanno avviato un’azione civile di fronte ad un tribunale azero, per ottenere i compensi che gli spettavano, oltre ad un risarcimento per le gravi violazioni dei loro diritti, senza tuttavia ottenere risultati in nessun grado di giudizio (§§ 28-34). Non ha condotto a risultati migliori l’avvio da parte delle autorità della Bosnia-Erzegovina di un’indagine penale in merito ai fatti segnalati dai lavoratori, nel frattempo ritornati in patria (§§ 42-68). Le autorità azere erano consapevoli del fatto che molti lavoratori immigrati – tra cui quelli del settore edilizio – erano sottoposti a pratiche illecite ed erano impiegati illegalmente, con la conseguenze di ritrovarsi esposti a gravi forme di abuso ed in una situazione di vulnerabilità, tuttavia i potenziali casi di human trafficking e di sfruttamento dei lavoratori erano tendenzialmente considerati dalle autorità come mere questioni lavoristiche, relative a dispute tra datori e dipendenti (§ 195). La Corte EDU ha quindi ritenuto sussistente una violazione dell’art. 4, par. 2 della Convenzione, sotto il profilo procedurale, in quanto lo Stato non ha avviato e condotto un’indagine effettiva a seguito delle denunce dei ricorrenti di essere stati vittime di lavoro forzato e human trafficking (§ 209). I giudici di Strasburgo hanno infatti rilevato come, nel caso di specie, la situazione dei lavoratori fosse stata portata a conoscenza delle autorità nazionali, in particolare quelle responsabili dell’applicazione dei meccanismi di protezione penalistici, con la conseguenza che è comunque sorto in capo a tali autorità un obbligo – non adempiuto – di indagare sul caso, anche in assenza di una formale denuncia penale da parte dei ricorrenti (§ 194). La Corte ha pertanto condannato l’Azerbaigian al risarcimento del danno non patrimoniale subito dai lavoratori (§ 212). (Davide Sibilio)
Riferimenti bibliografici: A. Galluccio, Tratta di persone e sfruttamento lavorativo: a Strasburgo si fa sul serio, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 3/2017, pp. 1196 ss.
ART. 6 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. V, 14 ottobre 2021, Milachikj c. Macedonia del Nord
Presunzione d’innocenza – affermazioni sulla responsabilità penale del ricorrente contenute nella sentenza civile pronunciata per il risarcimento del danno – autonomia degli accertamenti – non violazione
Al ricorrente è stata sequestrata un’autovettura per la presunta commissione di illeciti amministrativi in materia doganale. Il relativo procedimento si conclude per intervenuta prescrizione, alla quale consegue la restituzione del bene. Viene, allora, introdotto un processo civile diretto al risarcimento del danno per la perdita di valore subita dall’autovettura nel corso dei cinque anni durante i quali è stata sottoposta al vincolo d’indisponibilità. La domanda dell’attore è stata, però, respinta, osservando incidentalmente che il procedimento amministrativo si è concluso in modo favorevole all’imputato, ma senza riconoscere la non commissione dell’illecito (§§ 8–10). Secondo il ricorrente – partendo dal presupposto che gli illeciti amministrativi sono ascrivibili alla materia penale secondo gli indici rilevatori stabiliti dalla giurisprudenza europea (§ 21) – tale dichiarazione, espressa all’interno di un processo civile collegato a quello celebrato per gli illeciti penali, avrebbe violato la presunzione d’innocenza di cui all’art. 6 comma 2 Cedu. In prima battuta, la Corte di Strasburgo, facendo applicazione dei criteri Engel, riconosce la natura sostanzialmente penale degli illeciti amministrativi contestati, rilevando, in particolare, il carattere punitivo della sanzione prevista dall’ordinamento (§ 26). Poi, sottolinea il collegamento tra i due procedimenti, constatando l’utilizzo nel processo civile delle prove e dei provvedimenti relativi alla responsabilità penale (§ 27). Passando, però, alla violazione della presunzione d’innocenza, i giudici riscontrano che il processo civile si è svolto secondo le regole tipiche di tale giurisdizione, che, tra l’altro, impongono l’onere della prova in capo all’attore: il risarcimento del danno non è una conseguenza diretta della prescrizione dell’illecito amministrativo/penale, ma è necessario dimostrare che le autorità amministrative, nell’intraprendere la relativa azione, non abbiano utilizzato la diligenza necessaria (§ 39). Certo, la dichiarazione contenuta nella motivazione della sentenza civile appare “infelice”, ma ciò non consente di ritenere violato il dettato convenzionale, poiché non può essere ragionevolmente letta come un’affermazione della responsabilità penale del ricorrente (§ 40). (Pietro Zoerle)
C. eur. dir. uomo, sez. III, 19 ottobre 2021, Kartoyev e altri c. Russia
Equità processuale – pubblicità del processo – documenti coperti da segreto e tutela per i soggetti che partecipano al giudizio – misure sproporzionate – violazione
Equità processuale – principio del contraddittorio e della parità delle armi – impossibilità d’accedere ai dati relativi alle perizie – mancato esame dei periti – violazione
I ricorrenti sono stati condannati per degli attacchi terroristici in Russia. Il relativo processo si è svolto a porte chiuse, al fine di salvaguardare, da un lato, la segretezza di alcuni documenti prodotti in giudizio e, da un altro lato, le parti e i testimoni da possibili intimidazioni che si temeva potessero essere perpetrate da altri componenti dell’organizzazione terroristica. Inoltre, è stata inibita alla difesa la possibilità sia di prendere visione delle perizie – non presenti nel fascicolo delle indagini – al fine di sottoporle a una verifica di un consulente di parte, sia di esaminare i periti durante il processo. Sotto il primo profilo, le censure dei ricorrenti riguardano la sproporzionalità delle misure limitative della pubblicità, poiché, per un verso, potevano essere circoscritte al momento dell’esibizione dei documenti coperti da segreto e, per un altro verso, non vi è stato alcun risconto che vi fossero altri componenti della banda criminale a piede libero in grado di infiltrarsi tra il pubblico. Sul punto, la Corte europea – dopo aver ricordato che il principio di pubblicità indicato nell’art. 6 comma 1 Cedu tende a tutelare i soggetti coinvolti nel processo da una giustizia segreta sottratta al controllo delle collettività e a mantenere la fiducia dei cittadini verso l’amministrazione della giustizia (§ 56) – procede a valutare se, nel caso di specie, le limitazioni imposte siano state adeguatamente bilanciate. Le restrizioni alla pubblicità del processo possono essere funzionali a garantire il segreto dei documenti, ma tale esigenza si esaurisce una volta espletato l’atto istruttorio e il limite non può essere prorogato facendo riferimento alla mera possibilità che vengano prodotte altre prove coperte dal vincolo di segretezza (§ 59). Parimenti, l’esigenza di tutelare i soggetti che partecipano al processo non è stata fondata su precisi elementi di fatto che dimostrassero la necessità di adottare misure limitative della pubblicità delle udienze (§ 60). Perciò, la Corte riscontra una violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu. Sotto il secondo profilo, la censura riguarda il mancato rispetto del principio del contraddittorio e della parità delle armi (§ 64). In proposito, i giudici europei registrano l’assenza di motivi plausibili che giustificassero il limite all’accesso dei dati tecnici durante le indagini, sottraendo alla difesa la possibilità di sottoporre gli esiti delle perizie a una valutazione critica da parte di un proprio consulente (§ 72). Inoltre, considerando il peso probatorio che hanno assunto le perizie rispetto alla condanna, sarebbe stato assolutamente necessario garantire l’esame e il controesame dei tecnici durante il processo (§ 77). Pertanto, viene riscontrata una violazione anche dall’art. 6 commi 1 e 3 lett. d) Cedu.
Riferimenti bibliografici: S. Basilico, Neutralità della perizia: un dogma superato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 1161.
ART. 8 CEDU
C. eur. dir. uomo, sez. I, 14 ottobre 2021, M.L. c. Slovacchia
Diritto alla riservatezza – giudizio di bilanciamento tra diritto di cronaca e diritto alla reputazione e all’oblio – informazioni intrusive della sfera intima – violazione
Il figlio della ricorrente era un prete cattolico, condannato nel 1999 per una serie di reati, tra cui l’abuso sessuale su minorenni. La condanna aveva esaurito i suoi effetti dopo un periodo di sospensione condizionale, terminato con esito positivo. Nel 2006 il prete morì. Due anni dopo alcuni tabloid hanno pubblicato degli articoli sul presunto suicidio dell’uomo. In particolare, si sosteneva che il prete avesse ottenuto la sospensione condizionale della pena grazie all’intercessione del Vescovo e che avesse confessato gli abusi sessuali perpetrati poco prima di togliersi la vita. Venivano pubblicate delle sue foto, nonché il nome e altri particolari della sua vita privata, tra i cui dei riferimenti ai suoi orientamenti sessuali. Su iniziativa della madre si apre una complessa vicenda giudiziaria contro gli editori, avente a oggetto la delicata operazione di bilanciamento tra il diritto di informazione, il diritto all’oblio e la tutela della vita privata e familiare. Il procedimento interno si esaurisce riconoscendo l’interesse pubblico della vicenda e la correttezza del modus operandi dei giornalisti. Tale conclusione viene ribaltata dalla Corte europea. In primo luogo, si sottolinea che la morte non priva il soggetto della tutela dell’art. 8 Cedu, considerando, per di più, il decorso di alcuni anni tra l’estinzione degli effetti della condanna e la pubblicazione degli articoli di giornale (§ 39). In secondo luogo, viene criticato il tono sensazionalistico e la sovrapposizione tra informazioni provenienti dalla vicenda giudiziaria, notizie non del tutto verificate e giudizi di valore, che superano, secondo i giudici, i limiti imposti dall’esercizio responsabile della professione di giornalista (§§ 46–47). Ciò con riflessi estremamente negativi sul diritto alla vita privata della ricorrente nel quale si deve ascrivere anche il diritto alla reputazione del figlio defunto (§ 48). Sotto il profilo del contributo di tali notizie a un dibattito di interesse generale, la Corte di Strasburgo riconosce la rilevanza del tema degli abusi sessuali all’interno della Chiesa cattolica e dei tentativi di insabbiamento e di copertura troppo spesso perpetrati (§§ 49–52). Tuttavia, nel caso di specie, sarebbe stato possibile bilanciare più correttamente i diritti in gioco, soprattutto evitando riferimenti alla vita privata del condannato, non emergenti dai fascicoli del processo e diretti più a soddisfare la curiosità morbosa di un certo pubblico che un interesse di ordine generale (§§ 52–54). Per tali ragioni, la Corte riconosce la violazione dell’art. 8 Cedu. (Pietro Zoerle)
Riferimenti bibliografici: P. Zoerle, La pubblicazione di immagini dell’imputato: tra diritto di cronaca giudiziaria, diritto alla riservatezza e presunzione di innocenza, in Riv. it. dir. pen. proc., 2018, p. 343.
ART. 2 PROT. N. 7
C. eur. dir. uomo, sez. IV, 26 ottobre 2021, Kindlhofer c. Austria
Diritto a un doppio grado di giurisdizione – impossibilità di proporre appello contro la condanna a un’ammenda di lieve entità – eccezione ammessa dall’art. 2, comma 2 – non violazione
Un cittadino austriaco viene condannato a un’ammenda di duecento euro per aver omesso di denunciare alle autorità un incidente stradale che avevo provocato esclusivamente danni materiali. Solo nel caso di mancato pagamento, l’ammenda sarebbe stata convertita in quattro giorni di reclusione. Per tale illecito, l’ordinamento austriaco esclude la possibilità di un secondo grado di giudizio, circostanza che, secondo il ricorrente, avrebbe violato il diritto – sancito dall’art. 2 Prot. n. 7 Cedu – di far esaminare da un tribunale superiore la condanna. Tuttavia, secondo i giudici europei, il caso di specie rientra proprio tra le eccezioni alla regola previste dal comma 2 della norma citata, che consente di derogare alla garanzia del doppio grado di giurisdizione nel caso di reati “minori”. In particolare, la Corte di Strasburgo ricorda che tale categoria di reati deve essere valutata facendo riferimento non solo al tipo di pena – pecuniaria o detentiva – prevista dalla legislazione nazionale per la singola fattispecie, ma anche misurando la gravità della sanzione concretamente inflitta (§ 42). In questo caso, l’ordinamento prevede una pena pecuniaria massima di poco superiore ai settecento euro, convertibile, nel caso di omesso pagamento, nella reclusione per un massimo di venti giorni. Non si tratta, quindi, di pene tra loro alternative, ma, come precisato dalla Corte costituzionale austriaca, di una conversione che entra in funzione a talune precise condizioni: le autorità sono impegnate a svolgere indagini sull’effettiva disponibilità finanziaria del condannato; devono fare il possibile per riscuotere la sanzione; sono tenute ad avvisare il soggetto delle imminenti conseguenze detentive, consentendo il pagamento – anche a rate – del dovuto (§ 42). Il che fa della pena detentiva una vera e propria eccezione, perimetrata da particolari garanzie procedurali (§ 43). Alla valutazione del reato di minore gravità si aggiungono, nel caso di specie, la particolare esiguità della pena inflitta, nonché la mancanza di qualsiasi prova fornita dal ricorrente sull’impossibilità di pagare l’ammenda o sulla sproporzione di quest’ultima rispetto al proprio patrimonio (§ 43). Perciò, la Corte non riscontra la violazione del dettato convenzionale. (Pietro Zoerle)