L’interessante lavoro monografico di Simone Lonati, «Processo penale e rimedi alle violazioni delle garanzie europee», mi sembra prestarsi a tre livelli di lettura.
Abbiamo innanzitutto una preziosa, compiuta e nitida messa a punto della travagliata anamnesi politico-culturale del neo art. 628 bis c.p.p. Lo sguardo attento dell’A. abbraccia questo primo scorcio di secolo, cogliendo i fattori e gli effetti della progressiva influenza delle sentenze di condanna della Corte di Strasburgo. Inizialmente destinate a diagnosticare la presenza di un vulnus ai diritti fondamentali del condannato nella singola vicenda giudiziaria, le pronunce della Corte europea hanno via via costituito – soprattutto grazie alla concorrente azione svolta dal Comitato dei ministri – una pressante sollecitazione affinché gli ordinamenti nazionali si attrezzassero sia per scongiurare il ripetersi di violazioni omologhe a quelle riscontrate dal giudice europeo, sia per porre adeguato rimedio nel caso in cui questa “profilassi” non fosse risultata efficace nel singolo processo. L’influenza esercitata sugli Stati membri del Consiglio d’Europa da una tale sinergia politica (Comitato dei ministri) e giudiziaria (Corte europea) ha prodotto – come era prevedibile –reazioni nazionali diverse nei tempi e nelle modalità di adeguamento agli standard di garanzia richiesti. Il nostro legislatore, more solito, ha tardato a farsi carico del problema lasciando in prima linea la giurisprudenza di merito e di legittimità, a cui strada facendo si è affiancata quella della Corte costituzionale.
Le diverse magistrature hanno cercato con interventi di “ortopedia” convenzionale sugli istituti esistenti di rispondere alle non differibili e non eludibili sollecitazioni europee. L’A. le ripercorre con scrupolosa attenzione mettendone opportunamente in luce, ad un tempo, ingegnosità e inadeguatezze. Era del resto inevitabile che il doveroso, ma geneticamente inidoneo tentativo di dilatare le preesistenti brecce aperte nell’intangibilità del giudicato per rimediare alla condanna ingiusta, risultasse una risposta palesemente insoddisfacente rispetto alle censure e alle aspettative europee.
Cionondimeno, i diversi espedienti escogitati dalla giurisprudenza, come opportunamente sottolinea l’A., non solo hanno evitato che il nostro Paese risultasse indifendibilmente in difetto rispetto ai paradigmi europei di tutela dei diritti fondamentali dell’uomo, ma hanno rappresentato una preziosa fucina di sollecitazioni e di consapevolezze per il nostro legislatore. Come pure fruttuoso patrimonio di conoscenza hanno rappresentato le esperienze maturate medio tempore negli altri Paesi membri del Consiglio d’Europa. L’A. non trascura neppure di offrire questa stimolante prospettiva comparatistica, ma lo fa adottando una intelligente e convincente scelta metodologica. Non si propone di predisporre, come gli sarebbe risultato indubbiamente meno impegnativo, una sorta di album fotografico dei rimedi adottati da ciascun Paese, bensì una chiave di lettura trasversale per tipologie di approccio al problema, cercando di offrire non già una sterile prospettazione descrittiva, ma una intelligenza critica delle implicazioni connesse alla natura delle diverse scelte effettuate a livello nazionale.
Una volta accuratamente radiografata la “placenta” giurisprudenziale e culturale di cui si è nutrito il feto normativo che oggi ha preso forma nell’art. 628-bis c.p.p., il lavoro monografico passa ad un altro livello di analisi: quello ermeneutico. L’A. ci offre, con sicuro governo della materia e piena consapevolezza dei suoi snodi problematici, una chiave interpretativa della norma, tanto più impegnativa e preziosa se si tiene conto che si tratta di una primissima lettura che non si può avvalere di consolidate elaborazioni giurisprudenziali o dottrinali. L’ analisi critica si snoda lungo la progressione attuativa di questo inedito rimedio straordinario: i soggetti legittimati a chiederne l’attivazione; la scelta di affidare alla Corte di cassazione la valutazione in ordine all’ammissibilità della richiesta e all’incidenza della riconosciuta violazione europea sulla pronuncia di condanna domestica; le diverse tipologie di intervento a disposizione della Suprema Corte; la riapertura del processo nel cui corso si è verificata la violazione. In ciascuno di questi plessi tematici si annidano delicatissimi problemi. Con intenti solo esemplificativi e nell’ordine sopra abbozzato: il problema dei c.d. fratelli minori del ricorrente vittorioso a Strasburgo e le ragioni che hanno indotto a non attribuire al procuratore generale presso la Cassazione il potere di attivare questa impugnazione straordinaria.
L’estrema delicatezza del compito affidato alla Corte di cassazione di valutare se l’accertata violazione di una garanzia fondamentale possa aver avuto “una incidenza effettiva” sul giudicato: compito di enorme complessità, tanto più se affidato ad un giudice di legittimità cui è poco congeniale l’inspicere nel merito del singolo processo per soppesare il grado di “contaminazione” che vi ha dispiegato la patologia individuata da Strasburgo. La difficile scelta, alla luce di una tale valutazione e considerato il tenore della pronuncia europea, del rimedio da approntare: neutralizzando direttamente gli effetti della sentenza di condanna sub iudice, rimodulando i contenuti della stessa ovvero disponendo la riapertura del procedimento iniquo. Una volta riaperto il procedimento, infine, si affollano delicate questioni connesse a tale peculiarissimo bis in idem: se l’avvio del “nuovo” procedimento presupponga la revoca della decisione censurata dalla Corte europea; come debba contenersi il giudice del procedimento riaperto quando l’accertata lesione convenzionale non si radichi su violazioni della normativa interna; se debba valere il divieto di reformatio in peius qualora nel rinnovato giudizio si dovrebbe pervenire ad una decisione peggiorativa della precedente per il ricorrente.
Questa rapsodica e ovviamente incompleta rassegna intende soltanto dare impressionisticamente conto del pullulare dei problemi che si annidano nel nuovo 628 bis c.p.p. Ciò che fa particolarmente apprezzare questo studio monografico, non sono soltanto l’acuta attenzione con cui puntualmente li si individua e le soluzioni che se ne offre, ma anche la piena consapevolezza della complessità dei primi e dell’opinabilità delle seconde, al punto che l’A. non manca di dar conto anche degli argomenti che militano a favore della tesi avversata, pur non esonerandosi dal prendere motivata e in genere molto convincente posizione.
Vi è, infine, un terzo livello di riflessioni, che non concernono il tema specifico affrontato, ma sono sollecitate dal modo con cui l’A l’ha trattato. Guardando in filigrana l’intera opera, infatti, viene spontanea qualche considerazione in ordine al problema giustizia (penale) nel nostro Paese e in generale.
Sotto il primo profilo, la genesi di questo straordinario strumento di impugnazione attesta ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, di un’anomalia nelle modalità con cui vengono affrontati i più delicati problemi riguardanti i diritti fondamentali dei cittadini del nostro Paese. Che sia per timore dell’impopolarità o per calcolo, il potere politico di fronte ad un problema complesso ed ineludibile lascia che sia la giurisprudenza a farsene carico, con strumenti normativi inadeguati e risultati inevitabilmente insoddisfacenti, ma di cui non deve rendere politicamente conto. Solo dopo aver mandato in “avanscoperta” la magistratura, a volte anche per molti anni, il potere legislativo assume le sue determinazioni. Si potrebbe pensare che in tal modo può far proficuamente tesoro dei risultati e degli insuccessi ottenuti dalla meritoria, ma improba supplenza della magistratura e, come nel nostro caso, dalle altre esperienze nazionali che con maggiore tempestività hanno cercato di assolvere ad un doveroso adeguamento al paradigma europeo. Ma il prezzo, troppo alto per una democrazia costituzionale, è un’approssimativa e inadeguata tutela di diritti fondamentali, protratta addirittura per venti anni nella vicenda in esame, come sottolinea con efficacia l’A sin dall’esordio del suo contributo monografico.
Sotto il profilo più generale dell’improbo e necessario compito del giudicare, questo prezioso lavoro testimonia del costante sforzo delle collettività di più avanzata sensibilità giuridica per assicurare se non la certezza della verità nei pronunciamenti giurisdizionali – obbiettivo irraggiungibile, poiché l’uomo è costretto ad operare «nel crepuscolo delle probabilità» (Locke) – almeno il rispetto di tutte le garanzie che nel contesto politico-culturale dato rappresentano gli strumenti migliori che conosciamo per approssimarci alla verità e alla giustizia. Il controllo esercitato da un giudice sovrannazionale sul rispetto di tali garanzie costituisce un ulteriore progresso in tal senso. L’opera in commento ne offre una illustrazione perspicua, che non trascura peraltro di porre in evidenza le insidie e gli ostacoli che si incontrano lungo questo cammino. Si aggiunga che neppure la più fedele osservanza dei presidi di garanzia che la normativa nazionale e sovranazionale ha saputo predisporre pone l’umano giudicare al riparo della fallacia cognitiva e dell’errore. Ma la modestia delle nostre capacità non ci deve mai esonerare dal dar fondo a tutte le risorse di cui possiamo disporre per offrire la giustizia migliore, per inseguire la Vera Giustizia. Dobbiamo regolarci con questo irraggiungibile obbiettivo come il grande Galeano suggerisce di fare con tutte le utopie: «L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare». Nel nostro caso, per camminare nella giusta direzione con la povertà dei nostri mezzi e la nobiltà dei nostri propositi.
Questo libro è sembrato appunto a chi scrive un prezioso viatico per compiere un passo in questa direzione.