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05 Agosto 2021


Osservatorio Corte EDU: giugno 2021

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacchè e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Giulia Mentasti (artt. 2, 7, 10 Cedu e 3 Prot. Add.) e Luca Pressacco (artt. 6 e 8 Cedu).

 

In giugno abbiamo selezionato pronunce relative a: misure di protezione della vita in contesto di violenze famigliari (art. 2 Cedu); presunzione di innocenza (art. 6 Cedu); principio del “nemo tenetur se detegere” (art. 6 Cedu); incandidabilità e decadenza dalle cariche elettive ai sensi della “legge Severino” (art. 7 Cedu, art. 3 Prot. Add.); obblighi positivi di tutela delle vittime vulnerabili (art. 8 Cedu); diritto all’oblio (art. 10 Cedu).

 

ART. 2 

C. eur. dir.uomo, Grande Camera, 15 giugno 2021, Kurt c. Austria

Denuncia di violenze e minacce da parte del marito e padre dei figli – misure di protezione adeguate – omicidio del figlio – valutazione del rischio corso dalla vittima – non violazione.

La ricorrente è una cittadina austriaca che lamenta l’inadeguatezza delle misure di protezione predisposte dalle autorità per tutelare lei e i figli dalle condotte violente del marito, culminate con l’uccisione del figlio di otto anni. A seguito della condanna dell’uomo per tali fatti, la ricorrente, assistita da un centro anti-violenza, avvia le pratiche per il divorzio e, il giorno stesso, si reca dalla Polizia e denuncia di essere stata nuovamente vittima di violenze sessuali e di gravi minacce da parte del marito esplicitando altresì l’abitualità di tali condotte, talvolta rivolte anche ai figli (§§ 16-20). La Polizia, la sera stessa, applica nei confronti dell’uomo una misura interdittiva di protezione consistente nel divieto di avvicinarsi per due settimane alla casa familiare, a quella dei genitori della moglie, nonché ai paraggi delle due abitazioni.  A distanza di tre giorni dalla richiesta di divorzio e dall’attivazione del divieto di avvicinamento, l’uomo si reca presso la scuola dei figli e chiede all’insegnante di poter parlare brevemente con il figlio. L’insegnante, che non era stata informata dei problemi della famiglia, acconsente ma poco dopo, non vedendo rientrare in classe il bambino, lo cerca e lo trova nei sotterranei della scuola ferito da un colpo di pistola alla testa alla presenza della sorellina, rimasta illesa. Nonostante i soccorsi immediati il bambino muore e il padre, prontamente ricercato dalla polizia austriaca, viene poco dopo trovato morto suicida nella sua auto. Dinanzi alla Corte europea la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2 CEDU, lamentando l’assenza di un’adeguata protezione nei confronti suoi e dei figli, con particolare riguardo alla mancata adozione di efficaci misure preventive, anche limitative della libertà personale, nei confronti dell’uomo. Ad avviso della ricorrente, infatti, alla luce degli episodi narrati e del manifestato timore per l’incolumità della prole, la sola misura del divieto di avvicinamento ai luoghi di abitazione non era sufficiente a proteggere lei e la sua famiglia dalle continue violenze del marito (§§ 102 ss). Nell’affrontare la questione la Grande Camera della Corte ricorda, innanzitutto, come l’art. 2 par. 1 della Convenzione ponga in capo agli Stati l’obbligo di predisporre ogni misura necessaria a proteggere la vita delle persone, tra le quali certamente rientra la predisposizione di una legislazione penale idonea a prevenire, reprimere e sanzionare le minacce all’integrità della persona (§ 157) pur riconoscendo che tale dovere integri un obbligo di mezzi e non di risultato (§ 159). In particolare, prosegue la Corte, nei casi di violenza domestica le autorità devono intervenire con prontezza e garantire una speciale diligenza. Alle autorità statali, in definitiva, si richiede di non basarsi unicamente sulla percezione di pericolo riportata dalla vittima, ma di attivarsi in maniera autonoma e proattiva (§ 169) per delineare un quadro completo ed esaustivo della situazione e per individuare la presenza di rischi reali ed imminenti da contenere con apposite e proporzionate misure preventive (§ 177 ss).  Nel caso in esame la Corte ritiene che le autorità austriache abbiano agito prontamente e in modo adeguato, valutando da subito in maniera complessiva la situazione alla luce di interrogatori, esami medici, report fotografici delle lesioni riportate, verifica della presenza di armi intestate all’autore delle violenze, con una rigorosa analisi del rischio corso dalla ricorrente e dai figli (§§ 191-194). Proprio a seguito di una così accurata analisi del caso e dei fattori di rischio le autorità – nella persona di ufficiali di polizia di esperienza e con un apposito addestramento a simili situazioni – hanno ritenuto adeguata e proporzionata l’applicazione di un divieto di avvicinamento posto che, sulla base degli elementi raccolti, non avrebbero potuto prevedere che l’uomo si sarebbe procurato una pistola e avrebbe raggiunto la scuola del figlio per ucciderlo (§§ 203 ss). La Corte condivide la lettura del Governo austriaco secondo cui, sulla base di quanto raccolto e ricostruito dalle autorità al momento dei fatti, non vi erano elementi che indicassero la presenza di un rischio reale ed imminente di ulteriori (e letali) violenze nei confronti del figlio in luoghi diversi da quelli nei quali era stato attivato il divieto di avvicinamento (§ 209). Rilevato, altresì, che il principale destinatario delle violenze era stata la moglie, viene ritenuta ragionevole la valutazione delle autorità austriache in ordine alla assenza di rischi di aggressione nei confronti dei figli, tali da imporre l’adozione di misure più stringenti in luoghi diversi da quelli già interessati dal divieto di avvicinamento. Di conseguenza, conclude la Corte, tenendo conto, da un lato, dei limiti posti dal diritto penale austriaco nonché dall’art. 5 della Convenzione alle restrizioni della libertà personale dell’accusato (§ 210) e, dall’altro, della non superficialità e del livello di diligenza del lavoro di analisi del rischio svolto dalle autorità, deve essere esclusa ogni violazione dell’aspetto sostanziale dell’art. 2 CEDU, posto che nessun rischio prevedibile per l’incolumità del figlio era emerso e nessun obbligo di predisposizione di misure più severe sussisteva, dunque, in capo alle autorità. (Giulia Mentasti)

Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 3/2017; B. Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli organi inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 4/2020; A. Faina, Malfunctioning of domestic system e violazione degli aspetti sostanziali e procedurali del diritto alla vita, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 1/2020

 

 

ART. 6 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 3 giugno 2021, Busuttil c. Malta

Equità processuale – presunzione d’innocenza – presunzioni relative a carico degli amministratori di società commerciali – responsabilità oggettiva per l’inadempimento di oneri fiscali e previdenziali – non violazione

Il ricorrente è stato condannato per l’omessa dichiarazione dei redditi societari e per il mancato versamento dei contributi previdenziali dei dipendenti nel periodo in cui svolgeva le funzioni di amministratore di una società commerciale. Egli sostiene che tale giudizio sia riconducibile all’affermazione, da parte delle corti maltesi, di una mera “responsabilità da posizione” dell’amministratore, in contrasto con la presunzione d’innocenza (art. 6 comma 2 CEDU) e senza alcuna possibilità concreta di difendersi dalle accuse elevate nei suoi confronti. In premessa, la Corte edu ha osservato che nell’ordinamento maltese vige una presunzione di responsabilità penale degli amministratori, in relazione a tutte le obbligazioni che la legge pone a carico delle società commerciali, il cui inadempimento costituisce reato (§ 49). In effetti, ciò ha comportato una restrizione significativa delle opportunità di difesa del ricorrente, il quale avrebbe potuto discolparsi solo attraverso la cosiddetta “defence of impossibility” (§ 50). Secondo l’opinione della Corte edu, però, si tratta di una restrizione ragionevole e giustificata per diversi ordini di ragioni. In primo luogo, essa si fonda su una presunzione iuris tantum, refutabile dalla difesa, la quale conserva in ogni caso la possibilità di provare che l’imputato si trovava nella assoluta impossibilità (fattuale o giuridica) di adempiere alle obbligazioni societarie (§ 53). In tale contesto, la Corte di Strasburgo ha ribadito l’orientamento secondo cui gli Stati contraenti possono, in linea di principio ed entro certi limiti, istituire anche forme di responsabilità oggettiva, che prescindono dalla verifica dell’elemento soggettivo del reato, senza violare la presunzione d’innocenza degli imputati (§ 54). Infine, per la Corte edu è ragionevole pretendere che un soggetto, nel momento in cui assume consapevolmente le funzioni di amministratore di una determinata società, assuma pure l'obbligo di versare i relativi contributi: ciò, anche al fine di tutelare il buon andamento del sistema fiscale e previdenziale, che costituisce un interesse collettivo di grande importanza (§ 55). (Luca Pressacco)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, 10 giugno 2021, Bajić c. Macedonia del Nord

Equità processuale – nemo tenetur se detegere – acquisizione di documenti consegnati dall’imputato nel corso dell’audizione in qualità di persona informata sui fatti – non violazione
Il ricorrente, un ingegnere specializzato in sicurezza nautica, si duole per la violazione del privilegio contro l’autoincriminazione, riconducibile al principio della presunzione d’innocenza (art. 6 comma 2 CEDU). Le corti macedoni, infatti, hanno utilizzato per la condanna due documenti che, secondo la prospettazione attorea, avrebbero dovuto essere esclusi dal compendio probatorio. Si tratta, in particolare, di due relazioni sulle ispezioni effettuate dall’imputato prima del disastro navale da cui ha avuto origine il procedimento penale in questione. Tali documenti sono stati consegnati dal ricorrente al giudice istruttore durante un’audizione svolta nella fase delle indagini preliminari, quando egli rivestiva ancora la qualifica di “persona informata sui fatti” e le investigazioni riguardavano esclusivamente l’operato del capitano dell’imbarcazione colata a picco.  La Corte edu ha osservato preliminarmente che le dichiarazioni rese dal ricorrente in qualità di testimone sono state secretate e non sono mai utilizzate nel procedimento penale a suo carico (§ 69). In seguito, per verificare se l’acquisizione dei documenti in esame abbia effettivamente cagionato una violazione del nemo tenetur se detegere, la Corte di Strasburgo ha esaminato la natura e il grado della coercizione esercitata nei confronti del ricorrente, l’esistenza di eventuali garanzie procedurali e l’uso che è stato fatto delle informazioni così ottenute. Per quanto riguarda il primo profilo, la Corte edu ha rilevato che non vi è alcun segno dell’utilizzo di metodi coercitivi o fraudolenti per estorcere i documenti controversi al ricorrente; il quale, invece, ha consegnato spontaneamente tali materiali nel corso dell’audizione (§ 71). Per quanto concerne il secondo aspetto, la Corte edu ha osservato che il ricorrente ha avuto ampie possibilità di contestare in giudizio l’autenticità e il contenuto dei documenti controversi; i quali, comunque, avrebbero potuto essere acquisiti dagli inquirenti anche da fonti diverse dal ricorrente, sebbene con modalità procedurali differenti (§ 72). Infine, sulle modalità di utilizzo degli elementi di prova raccolti, la Corte edu ha precisato che i documenti in questione hanno avuto un modesto rilievo nell’affermazione di responsabilità del ricorrente (§ 73). Considerati tutti questi elementi, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che non vi sia stata, nel procedimento interno, alcuna violazione della presunzione d’innocenza dell’imputato. (Luca Pressacco)

 

 

ART. 7

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 17 giugno 2021, Miniscalco c. Italia

Incandidabilità alle cariche elettive regionali – d.lgs. 235/2012 (decreto Severino) – irretroattività – misura non penale – inammissibilità.

Nel caso in esame il ricorrente lamenta di essere stato retroattivamente colpito dalla sanzione della incandidabilità alle cariche elettive regionali del 2013, in ragione di una condannata divenuta definitiva nel 2011 per uno dei reati previsti dal d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235 (cd. decreto Severino). Il ricorrente, in particolare, ritiene che l’applicazione delle previsioni del decreto Severino alla sua candidatura alle elezioni regionali del 2013 – e dunque la decisione dell’Ufficio Centrale Regionale di escluderlo dalla lista regionale per le cariche elettive della regione Molise in ragione della condanna riportata in precedenza – costituisca una nuova e ulteriore sanzione penale discendente dalla condanna in via definitiva per abuso di ufficio del 2011 e rappresenti un’applicazione retroattiva di una legge penale sfavorevole, come tale in contrasto con l’art. 7 della Convenzione. La Corte, sposando la lettura già in precedenza fatta propria dalla Corte costituzionale italiana (sent. 236/2015), ritiene che l’incandidabilità alle elezioni regionali prevista a determinate condizioni dal d.lgs. 235/2012 non possa essere assimilata a una sanzione penale e che dunque il ricorso sia inammissibile in quanto incompatibile ratione materiae con le disposizioni della Convenzione (§73). La Corte europea giunge a questa conclusione valutando una serie di elementi: osserva, innanzitutto, che la misura, lungi dall’avere una finalità punitiva, mira  a tutelare il buon funzionamento e la trasparenza dell’amministrazione pubblica e degli organi elettivi, così inserendosi in una piano nazionale di lotta alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose sostenuto anche a livello internazionale (§§ 64-66); in secondo luogo, la Corte dà peso all’approccio alla questione della Corte costituzionale italiana che ha escluso la riconoscibilità alla misura in esame del carattere di sanzione penale o effetto penale della condanna, qualificandola, piuttosto, come mera conseguenza della perdita della capacità morale, condizione essenziale per poter accedere alle funzioni di rappresentanza degli elettori (§§ 67-68); infine, la Corte ragiona sulla gravità della misura prevista osservando che le conseguenze sul piano politico dell’incandidabilità non sono sufficienti a qualificare la misura come penale dal momento che restano intatti i diritti di elettorato attivo e la possibilità, come nella vicenda in esame, che un provvedimento di riabilitazione renda nuovamente possibile l’accesso alle cariche elettive (§ 72). (Giulia Mentasti)

Riferimenti bibliografici: S. Bernardi, La Corte europea dei diritti dell’uomo sui criteri di individuazione della lex mitior ai sensi dell’art. 7 Cedu, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 2/2020

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 17 giugno 2021, Galan c. Italia (decisione)

Incandidabilità sopravvenuta e decadenza dalla carica parlamentare – d.lgs. 235/2012 (decreto Severino) – irretroattività – misura non penale – inammissibilità.

Nello stesso giorno della sentenza Miniscalco c. Italia la Corte affronta un caso di decadenza dal mandato parlamentare per incandidabilità sopravvenuta ai sensi del decreto Severino dichiarando la questione inammissibile. In questo caso il ricorso – basato sulla presunta violazione dell’art. 7 della Convenzione per applicazione retroattiva di una legge penale sfavorevole – prende le mosse dalla decisione della Camera dei Deputati di dichiarare la decadenza dalla carica di parlamentare del ricorrente, giudicato responsabile con sentenza del 2015 di fatti di corruzione commessi tra il 2008 e il 2012 e dunque in un momento antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 235/2012. Le conclusioni cui giunge la Corte sono del tutto sovrapponibili – anche nelle argomentazioni – a quelle della sentenza Miniscalco e insistono, essenzialmente, sulla natura non penale della misura della decadenza dalla carica parlamentare e sulla conseguente inammissibilità del ricorso ratione materiae (§§ 83-97). La decisione in esame affronta però anche il tema della equiparazione – proposta dal ricorrente – delle misure previste dalla legge Severino con la già esistente pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici prevista dall’art. 28 c.p. Tale misura, espressamente dotata di natura penale dal legislatore italiano, determina per il condannato la perdita del diritto di elettorato attivo e passivo, nonché di ogni altro diritto politico e della possibilità di ricoprire ogni pubblico ufficio. La Corte ha dunque agevolmente distinto le misure – pur dotate di alcuni profili comuni – facendo leva sulla differente base legale, sulla durata e, soprattutto, sulle conseguenze sui diritti dell’individuo, posto che, a differenza dell’interdizione ex art. 28 c.p., l’incandidabilità e la decadenza comportano la perdita del solo elettorato passivo (§§ 91-94). (Giulia Mentasti)

 

 

ART. 8 CEDU

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, 22 giugno 2021, R.B. c. Estonia

Diritto al rispetto della vita privata e familiare – obblighi positivi – vizi procedurali nell’audizione della persona minorenne, vittima di presunte violenze sessuali – inutilizzabilità della prova determinante – violazione

La ricorrente – quattro anni e mezzo di età all’epoca dei fatti – veniva escussa a più riprese nell’ambito del procedimento penale a carico del padre per le presunte violenze sessuali, perpetrate nei suoi confronti. In nessuno dei colloqui svolti nella fase delle indagini preliminari, tuttavia, veniva informata dagli inquirenti della facoltà di astenersi dal deporre nei confronti di un componente del proprio nucleo familiare e del suo obbligo, in caso contrario, di rispondere secondo verità, come previsto dalla normativa interna (la quale, sul punto, non opera distinzioni fra il testimone adulto e il fanciullo). La vicenda giungeva fino alla Corte suprema estone, che annullava senza rinvio la condanna dell’imputato, avendo escluso dal compendio probatorio la testimonianza decisiva, resa della vittima delle presunte violenze sessuali. La ricorrente, dunque, si duole a Strasburgo per la violazione dell’obbligo di svolgere indagini effettive, che incombe sulle autorità nazionali, anche al fine di tutelare le vittime di gravi reati a sfondo sessuale. La Corte edu ha osservato, in primo luogo, che l’omissione – da parte degli inquirenti – degli avvisi prescritti dalla legge ha determinato l’inutilizzabilità della deposizione resa dalla ricorrente, secondo l’interpretazione assunta dalla stessa Corte suprema estone (§ 101). In tale contesto, la Corte di Strasburgo ha precisato che gli standards internazionali di tutela dei minori, che siano vittime di presunti reati sessuali, impongono di salvaguardare la loro deposizione, nella fase delle indagini preliminari così come in un eventuale successivo giudizio (§ 102). Secondo l’opinione espressa dalla Corte edu, ciò non si è verificato nel caso di specie, il quale non si è concluso con una statuizione sul merito dell’accusa – nel senso della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato – a causa dei significativi vizi procedurali, che hanno condotto all’esclusione della testimonianza decisiva dal novero delle prove a disposizione del giudice (§ 103). Di qui, la riconosciuta violazione degli art. 3 e 8 CEDU, poiché le autorità nazionali non hanno garantito alla ricorrente una protezione adeguata, cui essa aveva diritto in qualità di vittima particolarmente vulnerabile. (Luca Pressacco)

Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L'Italia condannata per non aver protetto le vittime di violenza domestica e di genere, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1192; D. Sibilio, Secondo la Corte europea lo Stato ha il dovere di proteggere i minorenni vulnerabili ... anche da se stessi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 982; R. Casiraghi, Diritto al confronto con vittima minorenne e diritto alla prova dopo la ritrattazione del teste, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 2373; Beatrice Fragasso, Le indagini in materia di violenza di genere: in capo agli organi inquirenti un onere investigativo rafforzato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 2112.

 

 

ART. 10

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, 22 giugno 2021, Hurbain c. Belgio

Diritto all’oblio – archivi digitali – anonimizzazione – non violazione.

Il ricorrente, editore responsabile di una nota testata giornalistica belga, lamenta una compressione della propria libertà di espressione tutelata dall’art. 10 Cedu in conseguenza della richiesta da parte di un giudice civile di anonimizzare la versione digitale di un suo articolo, pubblicato vent’anni prima, in cui veniva riportato il nome completo di un automobilista autore di un incidente stradale mortale. La richiesta, giunta dopo che il reo aveva espiato la propria pena e ottenuto la riabilitazione, porta la Corte ha interrogarsi sul bilanciamento tra la libertà di espressione e il cd. diritto all’oblio, ossia la possibilità che il proprio passato giudiziario non resti cristallizzato negli archivi digitali ma, al contrario, dopo un ragionevole lasso di tempo e l’assenza di un interesse pubblico alla vicenda nonché alla vita pubblica della persona interessata, possa essere dimenticato (§ 16). La Corte riconosce che la richiesta di anonimizzare l’articolo in questione rappresenta senza dubbio una “ingerenza” nei suoi diritti garantiti dall’art. 10 della Convenzione (§ 74) e tuttavia reputa tale ingerenza legittima e necessaria. L’interferenza è giustificata, da un lato, da un fine legittimo, ai sensi dell’art. 10 par. 2, quale la protezione della reputazione e della vita privata dell’autore dei fatti (§§ 89 ss); dall’altro lato, dalla presenza nell’ordinamento belga di un vero e proprio diritto all’oblio, ancorato all’art. 8 della Convenzione, all’art. 17 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e all’art. 22 della Costituzione belga. Quanto alla necessità dell’interferenza (§§ 93 ss), invece, la Corte, richiamandosi a criteri già formulati in precedenza, ritiene che nel caso in esame il mantenimento negli archivi digitali del nome dell’autore dell’incidente mortale non contribuisca a un dibattito di interesse pubblico (§ 105) posto che la vicenda riguarda un fatto commesso oltre vent’anni prima da una persona comune la cui legittima narrazione ha il solo fine di contribuire al dibattito generale sulla sicurezza della strada. Ancora, la Corte ribadisce che per quanto una persona non possa invocare l’art. 8 per lamentare una lesione della propria reputazione risultante da una sua azione (quale la commissione di un reato), ciò non può tradursi nell’automatico assunto per cui il destinatario di una condanna penale non possa mai godere del diritto all’oblio (§ 109). La Corte, infatti, ritiene che, decorso un certo lasso di tempo, una persona condannata possa avere un interesse a non doversi più confrontare con il proprio passato, in vista di una sua completa reintegrazione nella società. Allo stesso modo la Corte riconosce che l’archiviazione in forma digitale dell’articolo dia inevitabilmente a quest’ultimo una maggiore visibilità, anche nel tempo, rispetto alla versione cartacea, considerata altresì la semplicità con cui la ricerca può avvenire sulla banca dati del quotidiano (al tempo dei fatti dotata di accesso libero e gratuito) a partire anche dalla sola digitazione del nome su Google (§§ 114 ss). Considerato, infine, che l’autore del fatto ha espiato la propria pena ed è stato riabilitato, il permanere online del riferimento al proprio passato giudiziario crea “un casellario giudiziario virtuale” (§ 121) con pesanti ripercussioni sulla vita sociale e professionale che ne ostacolano il pieno reinserimento. La Corte, dunque, ritiene che l’anonimizzazione dell’articolo richiesta al ricorrente (che, peraltro, non avrebbe inciso sul contenuto dell’articolo e sulla sua permanenza nel database digitale del quotidiano) sia la misura più efficace, proporzionata e rispettosa – all’esito del bilanciamento tra il diritto alla libertà di espressione del ricorrente e il diritto al rispetto della vita privata del reo – dell’art. 10 della Convenzione (§§ 132-133). (Giulia Mentasti)

 

 

ART. 3 PROT. 1

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 17 giugno 2021, Miniscalco c. Italia

Diritto libere elezioni – elettorato passivo – proporzionalità – non violazione.

Per il riassunto della vicenda ed i profili relativi alla natura giuridica della sanzione, v. supra sub art. 7. Il ricorrente lamentava altresì la violazione dell’art. 3 Prot. 1 con riferimento alla incandidabilità alle cariche elettive regionali derivata dalla applicazione nei suoi confronti del d.lgs. 235/2012 (cd. decreto Severino). In particolare, il ricorrente riteneva che la sua condizione di incandidabilità avesse limitato in maniera illegittima il suo diritto di elettorato passivo, così ledendo il diritto alle libere elezioni garantito dall’art. 3 Prot. 1. La Corte riconosce l’effettiva ingerenza nell’esercizio dei diritti elettorali del ricorrente (§ 93), tuttavia evidenzia che la misura prevista dal legislatore italiano (ossia l’incandidabilità alle cariche elettive regionali quale conseguenza di una condanna definitiva per il reato di abuso d’ufficio) non è illegittima. La Corte osserva infatti che la sua previsione persegue un fine legittimo quale quello di rinforzare alcuni strumenti già presenti nell’ordinamento col fine ultimo di assicurare il buon funzionamento della pubblica amministrazione (§§ 94-95). Inoltre, la misura appare alla Corte proporzionata – in quanto circondata da idonee garanzie quali la presenza di una condanna definitiva per un reato grave previsto dalla legge e la possibilità di riabilitazione (§§ 96-97) – e prevedibile in quanto, benché il ricorrente lamenti che l’incandidabilità gli sia derivata dalla commissione di un reato in un momento antecedente alla entrata in vigore del decreto legislativo che l’ha prevista, stante il margine di discrezionalità di cui godono gli Stati in materia di limitazione della capacità elettorale passiva delle persone, le esigenze dell’art. 3 Prot. 1 sono meno stringenti di quelle relative all’art. 7 della Convenzione e si conciliano con la scelta di applicare anche retroattivamente il provvedimento in questione quando si tratta di organizzare rapidamente un sistema di lotta alla illegalità e alla corruzione nell’amministrazione pubblica (§§ 98-99). Sulla base di queste osservazioni la Corte ha dunque escluso la violazione dell’art. 3 Prot. 1. (Giulia Mentasti)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, 17 giugno 2021, Galan c. Italia (decisione)

Diritto libere elezioni – elettorato passivo – proporzionalità – inammissibile.

Per il riassunto della vicenda ed i profili relativi alla natura giuridica della sanzione, v. supra sub art. 7. Con un ragionamento sovrapponibile a quello adottato dalla Corte nel caso Miniscalco c. Italia, deciso nello stesso giorno, la Corte ha ritenuto che la decadenza del ricorrente dal mandato parlamentare quale conseguenza della commissione di taluni reati previsti dalla legge (anche se commessi in un data anteriore all’entrata in vigore di quest’ultima) non rappresenta una misura sproporzionata rispetto al fine del legislatore di assicurare il trasparente e corretto funzionamento della pubblica amministrazione (§ 111); anche la lamentata arbitrarietà della misura deve essere esclusa posto che nel caso in esame la decisione sulla decadenza è stata adottata all’esito di una scrupolosa procedura parlamentare (§§ 128 ss.). La Corte, pertanto, ha rigettato il ricorso ai sensi dell’art. 35 §§ 3 a) e 4 della Convenzione, ritenendolo manifestamente infondato (§136). (Giulia Mentasti)