Documento del Consiglio direttivo della ASPP - 13 aprile 2020
Richiamando il proprio documento pubblicato in data 30 marzo 2020, il Consiglio direttivo dell’ASPP formula le seguenti ulteriori considerazioni.
Premessa.
L’epidemia virale ha creato un’emergenza della salute individuale e collettiva che ha determinato, per fronteggiarla (art.32 Cost.), una riorganizzazione della vita sociale, a cominciare dall’economia. Quanto alla giustizia penale, i capi degli uffici giudiziari e il governo hanno fatto scelte che, dopo il voto del Senato, la Camera dei deputati si appresta a tradurre in legge con la conversione del d.l. n.18/2020.
Sono scelte che fanno leva su un’impostazione emergenziale determinante gravi manomissioni degli istituti procedurali, sino alla violazione di precetti costituzionali, tali da non essere giustificate neppure nell’ottica di un’amministrazione della giustizia urgente. Fronteggiare un’emergenza sociale non può comportare una giustizia sommaria: un suo esercizio che comprima le libertà individuali, disattenda le regole del “giusto processo” e abbandoni i metodi della migliore e ormai consolidata epistemologia giudiziaria mette capo a una giustizia definita “virtuale”, ma in realtà per l’appunto sommaria, cioè a trattamenti e pronunce, più che inaffidabili, oggettivamente e istituzionalmente ingiusti.
Tali essendo le conseguenze della giustizia di emergenza, la sua amministrazione è doveroso che sia sospesa, salvo i casi ineludibili – e da prevedere tassativamente – di urgenza.
1. La sospensione dei termini di durata delle misure cautelari personali.
La disciplina delle misure cautelari personali è stata interessata dalla decretazione governativa riguardante l’emergenza sanitaria nell’art. 83 comma 4 d.l. n. 18 del 17 marzo 2020, dove si stabilisce che nei procedimenti penali per i quali opera “la sospensione dei termini ai sensi del comma 2 sono altresì sospesi, per lo stesso periodo, (…) i termini di cui agli artt. 303 e 308 c.p.p.”. Detto periodo va dal 9 marzo 2020, termine già individuato nel d.l. n. 11 dell’8 marzo 2020, all’11 maggio 2020, a seguito della proroga decisa con l’art. 36 comma 1 d.l. n. 23 dell’8 aprile 2020.
Ma la portata dell’effetto contra libertatem non sembra esaurirsi con la data dell’11 maggio 2020. Analoga sospensione, insieme ad altre riguardanti i procedimenti di impugnazione cautelare, è stata poi prevista nel comma 9 dell’art. 83 d.l. n. 18, per l’eventuale rinvio del procedimento penale ai sensi del comma 7 lett. g), ma comunque non oltre il 30 giugno 2020; rinvio volto, come noto, a contrastare l’emergenza epidemiologica ed a contenerne gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria. Invero, il differimento riguarda i procedimenti diversi da quelli previsti nel comma 3 dell’art. 83 d.l. n. 18; e, secondo una lettura ritenuta condivisibile nella relazione del 23 marzo 2020 dell’Ufficio del Massimario e del Ruolo della Corte di cassazione, detto richiamo non coinvolgerebbe solo la tipologia dei procedimenti, ma anche i presupposti per la relativa trattazione, quindi anche la necessità che intervenga un’espressa richiesta di trattazione, per cui la sospensione potrebbe ben interessare procedimenti con indagati o imputati che, anche tramite il difensore, non si sono attivati.
La sospensione dei termini di durata di cui agli artt. 303 e 308 c.p.p. si connota negativamente sul piano dell’automaticità degli effetti ed altresì dell’individuazione dei presupposti, con specifico riguardo almeno ai casi di custodia carceraria.
Invero, non si allude alla necessità di un provvedimento giurisdizionale motivato e impugnabile, a differenza di quanto assicurato nell’art. 304 c.p.p., per cui gli effetti sospensivi parrebbero conseguire ex lege al rinvio del procedimento. Ed in questa prospettiva non si può trascurare il fatto che potrebbero crearsi situazioni diversificate sul territorio nazionale, in conseguenza della diversa decisione adottata dai capi degli uffici giudiziari che possono, non debbono, adottare il rinvio delle udienze a data successiva al 30 giugno 2020, in forza di una discrezionalità estremamente ampia.
La mancanza di un provvedimento giurisdizionale, del resto, riflette la mancata considerazione per la particolare pericolosità che in questo periodo riveste la permanenza in carcere: particolare pericolosità che – non a caso – ha portato il Governo ad inserire nello stesso d.l. n. 18/2020 forme di favor libertatis per i detenuti definitivi.
L’esigenza di un adeguato bilanciamento tra tutela della salute e ragioni cautelari, alla luce dell’inviolabilità della libertà, avrebbe imposto quantomeno di subordinare la previsione di una sospensione dei termini di durata all’individuazione di una eccezionale pericolosità dell’indagato o dell’imputato ai sensi dell’art. 275 c.p.p. Queste disposizioni non sono state sinora oggetto di modifica in sede di esame parlamentare del d.l., se non indirettamente, nella parte in cui per i giudizi pendenti dinanzi alla Corte di cassazione si è attribuita al solo difensore la facoltà di attivarsi per la celebrazione del processo. È tuttavia significativamente mutato il contesto procedimentale all’interno del quale l’indagato o l’imputato in vinculis è chiamato ad esprimersi con riguardo alla formulazione della richiesta che si proceda, così impedendo la sospensione dei termini di durata delle misure cautelari.
Così, l’indagato o l’imputato che vuole evitare una maggiore durata della misura cautelare personale è costretto ad accettare uno sviluppo procedimentale nel quale si inseriscono forti compressioni del diritto di difesa, alla luce degli spazi che sono stati riconosciuti ad inedite forme di partecipazione a distanza e di formazione del materiale probatorio, per non parlare delle preoccupanti sequenze che possono svilupparsi nelle camere di consiglio a distanza.
2. L’emergenza epidemiologica e il ricorso alla custodia in carcere.
A fronte dell’emergenza sanitaria che attanaglia il nostro Paese, sono decisamente fondate le considerazioni critiche provocate dall’assoluta indifferenza mostrata nel d.l. n. 18/2020 con riguardo alle sorti dei detenuti non definitivi. In effetti, l’intervento del Governo – tradottosi nella previsione che, salvo per alcune categorie di delitti o di condannati, la pena detentiva non superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di una maggior pena, sia eseguita, su istanza, presso l’abitazione del condannato o in altro luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza (art. 123 co. 1 d.l. 18/2020) – si giustifica senza dubbio nella prospettiva di salvaguardare la salute dei detenuti e degli operatori penitenziari, con ovvia attenzione all’intera collettività, se è vero che il virus non rimane dietro le sbarre. E questa esigenza di tutela, invero, non può non essere considerata di primaria rilevanza alla luce delle condizioni di sovraffollamento in cui si trovano le nostre carceri, luoghi dove appare impossibile, più che difficoltoso, assicurare seriamente l’adozione delle misure indispensabili per evitare contagi. Si tratta evidentemente di una problematica che coinvolge l’intera popolazione carceraria: quindi, anche quel terzo sul totale costituito dai detenuti non definitivi, rispetto ai quali, invece, non compare nel testo del provvedimento d’urgenza alcuna previsione, nonostante l’identità di condizioni, di pericoli e, quindi, di necessità di intervento, rispetto ai detenuti definitivi.
Tuttavia, taluno potrebbe osservare che la manovra normativa risulta consentita nei confronti dei soli detenuti definitivi, perché esclusivamente nei riguardi di tali soggetti è ipotizzabile la quantificazione del periodo residuo di esecuzione detentiva: dato, questo, (che potrebbe essere) considerato necessario per evitare un’uscita dal carcere di condannati nei cui confronti assuma un rilievo particolarmente significativo la porzione di pena ancora da scontare. Laddove si ritenga di poter seguire una simile argomentazione, si dovrebbe escludere la possibilità di effettuare un corretto bilanciamento tra esigenze repressive e tutela della salute del detenuto non definitivo. In effetti, ai nostri fini non sembrano in alcun modo assimilabili ai diciotto mesi (od ai sei mesi) di pena detentiva residua, gli stessi periodi di custodia cautelare astrattamente residua, ricavati dal confronto con i termini di durata massima, siano essi quelli complessivi o quelli finali, trattandosi di termini sì collegati, nel rispetto del principio di proporzionalità, alla gravità o alla tipologia delle imputazioni, ma del tutto avulsi da una valutazione di meritevolezza di pena.
Invero, i termini di durata massima della custodia cautelare sono il frutto, più o meno accettabile, di un bilanciamento tra il riconoscimento dell’inviolabilità della libertà personale e la necessità di far fronte alle esigenze cautelari. Pertanto, se si vuole dare una risposta alla situazione di assoluta emergenza che interessa i detenuti non definitivi al tempo del coronavirus, dobbiamo partire dalla consapevolezza della necessità di individuare un percorso specifico, necessariamente subordinato ad un intervento del legislatore. Difatti, come noto, ogni valutazione sull’adeguatezza delle misure cautelari, e, tra queste, quella relativa all’inidoneità degli arresti domiciliari irrobustiti dal ricorso alle procedure di controllo a distanza, deve essere operata «in relazione alla natura ed al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto», mentre la rilevanza riconosciuta alle condizioni di salute presuppone un coinvolgimento diretto dell’imputato e non una situazione emergenziale generale quale quella che oggi l’Italia sta vivendo.
Chi intenderà sviluppare questa riflessione, dovrà decidere se il fenomeno pandemico provocato da Covid-19 potrà rilevare in una logica presuntiva o dopo una verifica del pericolo in concreto riferibile al singolo caso. In questa seconda ipotesi, entrerebbero in gioco delicate e complesse considerazioni sul luogo in cui si sta eseguendo o si potrà eseguire la misura carceraria, sull’età e più in generale sulle condizioni di salute del singolo imputato: insomma, su tutti gli elementi rilevanti nella logica dell’emergenza sanitaria, che potranno quindi giustificare la concessione degli arresti domiciliari, in luogo di una custodia in carcere, unica misura altrimenti adeguata alle necessità cautelari individuate ai sensi degli artt. 274 e 275 c.p.p. Decisioni che saranno spesso conseguenti a perizie, a consulenze, a sopralluoghi, con una tempistica inevitabilmente contrastante l’esigenza di una tempestiva adozione del provvedimento, quale che sia la direzione dello stesso. Se invece si segue l’altra prospettiva, concentrata sulla valorizzazione dello stato di emergenza sanitaria, non pare azzardato pronosticare la previsione di un livello di pericolosità cautelare dell’imputato di eccezionale rilevanza, in presenza del quale gli interventi a fini di tutela della salute dovranno essere sviluppati, ma in ambiente carcerario, con esiti positivi, purtroppo, assai improbabili.
Purtroppo, i lavori parlamentari non hanno sinora dimostrato alcuna attenzione per queste problematiche. Ma non si tratta di una indifferenza occasionale. Non si può dimenticare che nulla è stato fatto negli ultimi anni per migliorare le condizioni di vita all’interno delle nostre carceri, dove le carenze igienico-sanitarie si accompagnano sempre, nonostante le condanne della Corte di Strasburgo, ad un significativo sovraffollamento. Quindi, oggi ci troviamo impreparati a fronteggiare le situazioni di emergenza, ma anche colpevolmente in ritardo rispetto a situazioni di inadeguatezza cronicizzata del sistema della giustizia penale, in tutti i suoi momenti.
Così, da ultimo, la concessione della detenzione domiciliare stabilita per i condannati a pena residua non superiore ai diciotto mesi dovrà misurarsi con una discutibile previsione sull’obbligatorietà del controllo mediante il c.d. braccialetto elettronico. Ma siamo sicuri della disponibilità di tale strumento? Ovviamente il problema si riproporrà, amplificato, nel caso in cui si decida di estendere la misura attenuata ai detenuti non definitivi. In questa prospettiva, quindi, assume un rilievo davvero notevole il documento con il quale il dott. Giovanni Salvi, Procuratore Generale presso la Corte di cassazione, si è rivolto il 1° aprile 2020 ai pubblici ministeri, invitandoli ad una riflessione sulle scelte da effettuare in occasione delle decisioni de libertate, suggerendo di dare priorità alle esigenze di tutela della salute anche attraverso coraggiose interpretazioni della normativa vigente.
Ma spetta al legislatore intervenire. Ed in occasione della conversione in legge del d.l. n. 18/2020, peraltro, dovrà essere sicuramente riconsiderata la previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 123, secondo cui, «salvo che si tratti di condannati minorenni o di condannati la cui pena non è superiore a sei mesi è applicata la procedura di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari». Non solo la carenza di detti strumenti di controllo potrebbe di fatto vanificare l’operatività della disposizione, ma, anche nei casi in cui si riuscisse a rinvenire la dotazione tecnica necessaria, si delineerebbe una palese disparità di trattamento rispetto al regime di mera facoltatività del controllo elettronico riguardante la detenzione domiciliare (art. 58 quinquies ord. penit.), che può interessare condannati a pene anche superiori ai diciotto mesi.
Sotto questo profilo, l’ipotizzata considerazione degli indagati e degli imputati nel novero dei detenuti per i quali potrà essere disposta la misura domiciliare dovrebbe favorire l’abbandono dell’irragionevole obbligatorietà del ricorso al c.d. braccialetto elettronico. Difatti, sia pure all’interno di una previsione nella quale la verifica dell’entità e della natura delle esigenze cautelari andrà effettuata tenendo conto delle emergenze sanitarie, non potrà non mantenere valenza quanto previsto dall’art. 275-bis c.p.p. per l’adozione di forme di controllo mediante mezzi elettronici, nella parte in cui impone l’individuazione di necessità cautelari da soddisfare nel caso concreto per giustificare il regime più severo nell’esecuzione degli arresti domiciliari. Analoga soluzione, mutatis mutandis, potrà essere proposta nei confronti dei detenuti definitivi, per i quali – a norma del comma 2 dell’art. 123 d.l. 18/2020 – la decisione sulla concessione della detenzione domiciliare postula la verifica dell’inesistenza di «gravi motivi ostativi», da individuarsi ragionevolmente nel concreto pericolo di fuga o di commissione di fatti di reato, che dovranno essere considerati anche alla luce delle diverse modalità di esecuzione della misura.
3. Il processo a distanza: rilievi preliminari.
Ben oltre le (pur confermate) previsioni originarie (che si limitavano a dilatare il regime ordinario della partecipazione a distanza per le persone a qualsiasi titolo detenute: art. 83 comma 12), per effetto degli emendamenti fin qui intervenuti nel procedimento di conversione del d.l. n. 18/2020, la giustizia penale dell’emergenza si presenta con il volto del processo a distanza.
È uno strappo forte ai principi basilari del processo penale, che nemmeno l’emergenza sanitaria sembra poter giustificare. Su un piano diverso, merita comunque critica la sostanziale elusione del principio di legalità della disciplina del processo (art. 111 co. Cost.) che traspare dal costante rinvio, per l’individuazione e la regolazione del collegamento da remoto, a un provvedimento di un dirigente ministeriale (il Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati del Ministero della Giustizia).
La manovra è ad amplissimo spettro, interessando le indagini preliminari, ogni udienza e persino la deliberazione collegiale della camera di consiglio.
4. L’udienza a distanza.
Il comma 12-bis stabilisce che le udienze penali – qualunque udienza penale – che non richiedano la partecipazione di soggetti diversi dal pubblico ministero, dalle parti private e dai rispettivi difensori, dagli ausiliari del giudice, da ufficiali o agenti di polizia giudiziaria, da interpreti, consulenti o periti possono essere tenute mediante collegamenti da remoto individuati e regolati, come detto, con provvedimento del Direttore ministeriale.
Slegato da qualsivoglia presupposto, tale regime appare fortemente criticabile. Esso annulla l’immediatezza e il contraddittorio in presenza, in ordine a capitoli importanti dell’istruzione probatoria, ma non quando si tratti di testimoni (diversi da ufficiali o agenti di p.g.) o di altre residue fonti di prova personale: distinzione arbitraria, attraverso cui filtra l’idea che il diritto alla prova possa essere oggetto di ampia manipolazione.
Secondo questo modulo, l’unico soggetto presente presso l’ufficio giudiziario è l’ausiliario del giudice. L’imputato, se libero (o sottoposto a misura cautelare diversa dalla custodia in carcere) partecipa all’udienza solo dalla medesima postazione del difensore, che ne deve attestare l’identità. A prescindere dalla discutibilità di questo onere difensivo, resta il fatto che il collegamento da remoto si presenta come una realtà sostanzialmente priva di disciplina in ordine alla miriade di profili potenzialmente critici (in punto, fra l’altro, di allegazioni probatorie e controlli giudiziali, di documentazione, di modalità interattive e così via). Di fronte a queste esigenze, il legislatore si limita a raccomandare che lo svolgimento dell’udienza si svolga con modalità idonee a salvaguardare il contraddittorio e l’effettiva partecipazione delle parti. Si noti poi che, mediante collegamento da remoto, finirà verosimilmente per svolgersi anche l’udienza di cassazione richiesta dal difensore, il quale non abbia prestato acquiescenza al regime che temporaneamente sostituisce il rito camerale non partecipato ai sensi dell’art. 611 c.p.p. a quello camerale partecipato (art. 127 c.p.p.) o mediante udienza pubblica (comma 12-ter).
5. Le indagini a distanza.
Notevoli perplessità destano le disposizioni, inserite nell’art. 83, comma 12-quater, che mirano a completare il programma del procedimento a distanza includendovi la fase preliminare: si prevede che il pubblico ministero o il giudice, nel corso delle indagini, possano avvalersi, sulla scorta di una valutazione ampiamente discrezionale, di un collegamento da remoto (individuato e regolato ancora dal Direttore dei sistemi informativi e automatizzati ministeriali) quando occorra compiere un atto per il quale sia richiesta la partecipazione della persona sottoposta ad indagini, della persona offesa, del difensore, di consulenti, di esperti o di altre persone.
In sostanza, qualsiasi atto della fase (inclusi, ad es., l’interrogatorio di garanzia, o l’incidente probatorio) potrà svolgersi convocando le persone interessate nell’ufficio di polizia giudiziaria più vicino e alla presenza di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria. Il difensore partecipa da remoto, salvo che decida di essere presente nel luogo dove si trova il suo assistito. Si tratta di previsioni che, mentre non sembrano rivolte a prevenire se non il contagio del magistrato, spostano impropriamente nell’ufficio di polizia giudiziaria il baricentro istituzionale dell’attività giudiziaria della fase. Con una sorta di “delega” il cui schema rischia di risultare suggestivo ben oltre l’emergenza.
6. La camera di consiglio telematica.
Le disposizioni che forse più di ogni altra intaccano il nucleo della giurisdizione solo quelle che, per il periodo di emergenza, consentono che le deliberazioni collegiali in camera di consiglio (tutte, anche quelle di cassazione) avvengano anch’esse mediante collegamento da remoto (comma 12-quinques). La camera di consiglio telematica pone problemi di disponibilità degli atti processuali da parte di ciascun componente; pone, inoltre, cruciali questioni di segretezza dell’udienza, il che vuol dire, dunque, anche di segretezza delle singole postazioni private in cui i membri del collegio si trovino fisicamente. Soprattutto, appare difficilmente compatibile con l’immediatezza e la contestualità propria del dibattito collegiale (c.d. dialettica interna).
13 aprile 2020
Il Presidente Il Segretario Prof.
Prof. Oreste Dominioni Prof. Hervé Belluta