*Il presente contributo, pubblicato nel fascicolo n. 10/2024, è il testo rielaborato di un articolo già apparso nel n. 2/2024 di Ante Litteram, rivista della Camera penale di Catanzaro "Alfredo Cantàfora". Si ringrazia la direzione di Ante Litteram per averne consentito la ripubblicazione.
1. L’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa (d.lgs. n. 150/2022: c.d. riforma Cartabia), coordinata con la procedura penale e comprensiva di effetti sul diritto penale sostanziale e sul diritto penitenziario, rappresenta indubbiamente una delle più interessanti novità intervenute negli ultimi anni nel mondo della giustizia penale. Si tratta, infatti, di un ambizioso investimento culturale, che sulla linea di un movimento internazionale getta un seme nel sistema introducendo un nuovo paradigma.
Sappiamo bene che il terreno della giustizia penale, sul quale la giustizia riparativa si innesta, è tradizionalmente terreno di scontro. Guardiamo al processo: “lo Stato contro Tizio o Caia”: così vengono chiamati e nominati i processi negli Stati Uniti, patria di un sistema processuale non a caso chiamato “adversarial”, al quale si è notoriamente ispirato il nostro codice del 1988. Guardiamo ora alla pena: il sistema punitivo, nel nostro come in altri paesi, ruota essenzialmente attorno al carcere, che è espressione plastica dell’idea dell’allontanamento e dell’esclusione dell’autore del reato dalla società.
Prendere le distanze da chi ci fa del male è una reazione istintiva, da secoli istituzionalizzata nelle forme del processo e dell’esecuzione penale. Per questo la giustizia riparativa – definita come la giustizia dell’incontro – introduce un paradigma culturale e un metodo di gestione dei conflitti sconvolgente. E di fronte a novità sconvolgenti e difficili da capire, anche nel mondo del diritto (accademia compresa), sono possibili atteggiamenti diversi: di scetticismo/rifiuto o, al contrario, di curiosità intellettuale o entusiasmo per un nuovo e sconosciuto orizzonte da percorrere alla ricerca, se possibile, di risposte più adeguate e soddisfacenti da parte della giustizia. Non si tratta certo di abbandonare la strada vecchia – quella del diritto e del processo penale liberale – per intraprendere una strada nuova. Si tratta di migliorare la strada vecchia aprendo intersezioni che portino a una giustizia migliore, attraverso percorsi paralleli e virtuosi.
2. La giustizia sanzionatoria lascia spesso un senso di insoddisfazione. Al processo si chiede di accertare fatti ed eventuali responsabilità, nel quadro delle garanzie costituzionali e del sistema. Quando il processo riesce ad adempiere a questa sua funzione essenziale, e sfocia in una condanna, alla pena si chiede di restituire al reo il male commesso, attraverso la privazione o la limitazione della libertà personale, e, al tempo stesso, di servire al reinserimento sociale della persona temporaneamente ristretta. Al processo penale, che è di per sé una pena per chi lo subisce, e alla pena vera e propria, chiediamo insomma di fare del bene separando e facendo del male. È un dilemma antico, che a ben vedere è problematico sia per il reo (e, prima ancora, per l’imputato), sia per la vittima.
C’è infatti una possibile esigenza individuale e sociale che lo schema della giustizia sanzionatoria avversariale non riesce a intercettare: quella dell’incontro e della dimensione dialogica tra autore e vittima del reato.
Può essere un’esigenza della vittima, che per superare il trauma e l’offesa del reato, o per alleviarne le conseguenze e girare pagina, vuole incontrare l’autore del reato alla ricerca di possibili risposte a tanti perché: risposte che possono emergere dal dialogo e dallo scambio di sguardi di un incontro tra persone, attraverso la mediazione di esperti in posizione di equidistanza o, meglio, di equiprossimità, secondo un neologismo della giustizia riparativa tradotto ora in norma di legge. C’è una ricerca di risposte, da parte delle vittime, che non di rado – questo è il punto – va oltre il processo e la pena. In un bellissimo film irlandese del 2018, “The meeting”, basato su una storia vera e interpretato, nella veste di protagonista, dalla vittima di una brutale violenza sessuale, Ailbhe Griffith cerca nell’incontro con l’autore della violenza, uscito dal carcere, risposte a domande – tra le quali, “perché lo hai fatto proprio a me?” – per lei essenziali per mettersi il trauma alle spalle. Come si legge efficacemente nel trailer del film: "She didn't want an apology. She wanted her life back". Ancora, in una recente intervista al Corriere del Veneto, Francesca Girardi, nel 2003 vittima di Unabomber, quando aveva solo nove anni, ha così risposto a questa domanda, all’indomani della notizia della riapertura delle indagini: “cosa le cambierebbe sapere chi è stato? Ha già detto di volerlo incontrare. «Sì, è vero, ci spero con tutto il cuore. Non so ancora cosa potrebbe significare sapere finalmente chi è stato, come potrebbe cambiare la mia vita arrivare a una verità così tanto attesa. Ma sono certa che darebbe una svolta a tutto: ai ricordi, alla terribile esperienza vissuta, alla persona positiva e ottimista che comunque oggi sono diventata». Chiuderebbe il cerchio? «Chiuderebbe una ferita ancora aperta. E sarebbe spettacolare».
Di fronte a queste e a tante altre simili testimonianze penso che stia a noi giuristi, come approccio culturale, scegliere se chiudere gli occhi di fronte all’esigenza avvertita da alcune delle persone offese, ritenendola estranea alla sfera della giustizia (alle cose di cui ci dobbiamo occupare), oppure se cercare strumenti che possano soddisfarla, migliorando così la giustizia come servizio pubblico. La riforma Cartabia è andata proprio in questa seconda direzione ed è frutto di una precisa e forte opzione politico-culturale.
Attenzione però. Non si tratta solo di assecondare esigenze delle vittime. Anche gli autori di reato avvertono talora l’esigenza di incontrare le vittime, di confrontarsi con loro, di chiedere perdono o comunque di fornire spiegazioni cercando, se possibile, di dare un senso alle loro azioni. Esperienze assai significative, nel nostro paese, sono testimoniate ad esempio in due libri: quella di una donna condannata per omicidio, Stefania Albertani, nel dialogo con due criminologi che può leggersi in A. Ceretti, L. Natali, “Io volevo ucciderla. Per una criminologia dell’incontro”, Raffaello Cortina, 2022; quella di autori (e vittime) del terrorismo negli anni di piombo, ne “Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata a confronto”, 2015, curato da G. Bertagna, A. Ceretti e C. Mazzucato ed edito da il Saggiatore.
3. La Giustizia riparativa non è solo un’idea. Al pari della giustizia ordinaria è un servizio pubblico e richiede organizzazione, personale esperto, formazione, investimenti per far fronte a costi, coinvolgimento degli enti locali e del territorio. È una macchina complessa che si sta mettendo in moto, nel nostro come in altri paesi, grazie agli investimenti iniziali e agli altri che saranno necessari. Grazie alla formazione in atto nelle università, dove si stanno attivando i primi corsi, nell’avvocatura e nella magistratura. Grazie all’impegno dei funzionari del Ministero della Giustizia e di quanti da anni sono coinvolti in attività di mediazione e ai sempre più numerosi centri disseminati sul territorio. Per il Ministero della Giustizia, la giustizia riparativa è oggi uno dei servizi da gestire e amministrare, attraverso le proprie articolazioni e con opportuno coordinamento con l’autorità giudiziaria. È un servizio pubblico in funzione delle esigenze delle vittime e degli autori dei reati, o presunti tali; un servizio per la società intera.
Pochi, come i penalisti, conoscono i difetti e i limiti del diritto penale, alcuni dei quali – tali, attenzione, solo agli occhi di parte dell’opinione pubblica – sono imposti proprio da irrinunciabili principi liberali incarnati nella Costituzione. Se non si può ‘buttare via la chiave’, se non si possono comminare e infliggere pene esemplari, se si deve rimettere in libertà il detenuto dopo un certo numero di anni e a certe condizioni, se si deve dichiarare la prescrizione del reato o l’improcedibilità dell’azione penale dopo un certo periodo di tempo, la domanda di giustizia, delle vittime e della società, deve poter trovare soddisfazione anche attraverso strade diverse da quelle del processo e della pena. La riparazione interpersonale è una di queste strade, appunto.
A ben vedere, sul piano politico-criminale investire sulla giustizia riparativa – sulla cultura della mediazione e della riparazione come possibile risposta al reato – può rappresentare un contraltare rispetto alla più semplice ed elettoralmente appagante delle risposte, ai tempi del populismo: innalzare le pene. Chi soffia sulla divisione della società – gli onesti cittadini, da una parte, i delinquenti, dall’altra parte – individua nell’innalzamento delle pene e nella creazione di nuovi reati risposte immediate e a costo zero all’esigenza di giustizia, che però inevitabilmente si scontrano, vuoi con i tempi del processo penale, vuoi con un sistema dell’esecuzione penale costituzionalmente orientato al graduale reinserimento del condannato, prima del fine pena. Sono quindi risposte non appaganti, al metro di una reazione retributiva/vendicativa, che possono nondimeno comportare torsioni illiberali del sistema, confliggenti con i principi costituzionali, a partire da quello di proporzionalità della pena. Emblematico in tal senso è il c.d. pacchetto sicurezza, all'esame del Parlamento.
La giustizia riparativa, sul piano politico, è invece uno strumento di pacificazione e coesione sociale: è altro rispetto alla giustizia penale; non ne prende il posto ma vi aggiunge qualcosa, la completa, quanto meno sul piano dell’offerta di servizi da parte dell’ordinamento. Non è a costo zero, come detto, e non paga altrettanto, elettoralmente, perché non soffia sulla sete di punizione e di vendetta; anzi, promette benefici all’indagato, all’imputato e al condannato, più evidenti rispetto a quelli che può offrire alle vittime. Ricordo, infatti, che lo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa, e l’eventuale esito riparativo, devono essere valutati dall’autorità giudiziaria ai fini delle determinazioni di competenza e, in particolare, della commisurazione della pena (art. 58, co. 1 d.lgs. n. 150/2022); non vale però il contrario, essendo preclusa ogni valutazione negativa del mancato accesso ai programmi di giustizia riparativa o del fallimento degli stessi. Ancora, l’aver partecipato, prima del giudizio, a un programma di giustizia riparativa concluso positivamente integra una nuova circostanza attenuante comune, prevista dall’art. 62, n. 6 c.p.: può comportare quindi una diminuzione della pena o la sterilizzazione degli effetti di una o più aggravanti, all’esito del giudizio di bilanciamento delle circostanze concorrenti. Inoltre, l’aver partecipato a un programma di giustizia riparativa, concluso positivamente, consente l’accesso alla sospensione condizionale della pena nella forma c.d. breve, applicabile in caso di condanna a una pena non superiore a un anno. La riparazione produce i suoi effetti, ancora, nei reati procedibili a querela (il cui novero è stato ampliato dalla riforma Cartabia): la partecipazione del querelante a un programma di giustizia riparativa concluso con esito positivo comporta la remissione tacita della querela (art. 153, co. 2, n. 2 c.p.). Questa disciplina è accompagnata dalla previsione di una sospensione del procedimento per più di 180 giorni, attivabile su richiesta dell’imputato che chieda di accedere a un programma di giustizia riparativa (art. 129 bis, co. 4 c.p.p.: si tratta dell’unica ipotesi in cui il procedimento penale viene sospeso in attesa di un eventuale esito riparativo).
Diversi sono poi i benefici correlati alla giustizia riparativa nella fase dell’esecuzione penale: è previsto che sia valutata ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio, delle misure alternative alla detenzione (anche quando sono chieste dallo stato di libertà) e della liberazione condizionale.
Anche alla luce di questi riflessi sostanziali, è evidente come la giustizia riparativa sia una realtà concreta, che richiede di essere conosciuta, studiata, sperimentata da tutti gli attori della giustizia, avvocati compresi. Gli avvocati possono avere una funzione di impulso fondamentale per il successo della giustizia riparativa. Nel rapporto professionale e umano che instaurano con i propri assistiti, vittime o autori (presunti o reali) che siano, gli avvocati sono tra i primi ad avvertire la domanda di una giustizia riparativa e a poterla indirizzare adeguatamente nell’ambito di strategie e scelte difensive. Gli avvisi sulla possibilità di accesso a programmi di giustizia riparativa, previsti dalla legge processuale, sono oggi molti e pongono d’altra parte all’avvocato, come al magistrato, il dovere di illustrare una nuova realtà e i possibili benefici ad essa correlati. Anche per questo penso che le attività di formazione, di coordinamento e di supporto, da parte degli ordini e delle associazioni forensi, siano di particolare importanza e vadano incoraggiate.
4. Vi è un rilevante aspetto di complementarietà della giustizia riparativa, rispetto alla giustizia sanzionatoria penale, che merita di essere sottolineato. L’utilità sociale della giustizia riparativa si può e si dovrà misurare in termini di riduzione della recidiva e, quindi, di prevenzione della criminalità. Il volto costituzionale della pena – umana nei contenuti e tesa alla rieducazione del condannato – è del tutto coerente con la giustizia riparativa, che mette al centro le persone – il rispetto per i beni giuridici coinvolti – e facilita la comprensione di ciò che è accaduto e del relativo disvalore e pone le basi perché non si ripeta. La giustizia riparativa spegne il fuoco della ritorsione e della vendetta della vittima, da un lato, e aiuta a comprendere il male individuale e sociale causato dalle proprie azioni od omissioni, responsabilizzando l’autore. Si innestano così nel sistema e nella vicenda punitiva penale elementi e contenuti positivi, di elevato valore pedagogico e culturale, del tutto funzionali alla pacificazione sociale e alle finalità assegnate alla pena dalla Costituzione. Penso sia utile segnalare che alcuni studi scientifici, come si legge nel sito internet dello statunitense Bureau of Justice Assistance (BJA), mostrano come “the restorative justice reduces recidivism, increases victim’s satisfaction with the justice process, and reduces the psychological trauma of crime”. La giustizia riparativa, insomma, è nell’interesse dell’imputato/condannato, della vittima e della società. Oltre a essere coerente con il finalismo rieducativo della pena.
5. Naturalmente, la giustizia riparativa è altro rispetto al processo penale. Lo si è detto. Essa è complementare alla giustizia penale. La sfida della riforma Cartabia è di avere pensato a una complementarietà, non ad una alterità. Il coordinamento con il procedimento penale è stato realizzato prevedendo l’innesto della giustizia ripartiva in modo trasversale, esteso cioè a tutte le fasi del procedimento: dalle indagini preliminari all’esecuzione penale. È verosimile che, in ragione del tempo che serve di norma per far maturare le condizioni per l’incontro e la riparazione, sia la fase dell’esecuzione penale quella destinata a risultare terreno di elezione dei programmi di giustizia riparativa. Ma non è detto – e, anzi, la prima applicazione della nuova disciplina lo conferma – che la via della giustizia riparativa sia percorsa già in sede di indagini o in altri momenti dell’iter processuale. I principi fondamentali della nuova disciplina prevedono l’accesso ai programmi in ogni fase del procedimento, sempre su base volontaria e con una serie di garanzie funzionali anche e proprio al coordinamento con le regole e le garanzie del processo penale.
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È possibile, certo, che qualche aspetto sia perfettibile, perché il coordinamento tra giustizia penale e giustizia riparativa non è certo cosa semplice. Il decreto correttivo della riforma Cartabia, adottato su proposta del Ministro Nordio (d.lgs. n. 31/2024), è già intervenuto su qualche profilo e altri potranno essere messi in rilievo dalla dottrina e dalla prassi, anche grazie all’apporto dell’avvocatura. Quel che penso sia importante, per cogliere la sfida della giustizia riparativa, è non fare passi indietro rispetto ai principi e agli obiettivi di fondo, che meritano a mio avviso di essere perseguiti per migliorare la giustizia penale. Non dimentichiamoci della saggia riflessione che fece più di un secolo fa da Gustav Radbruch, grande filosofo del diritto: abbiamo bisogno di “qualcosa di migliore del diritto penale”. La giustizia riparativa per molti versi lo è, e penso che possa anche migliorare la giustizia penale attivando una virtuosa sinergia. È una sfida del nostro tempo, peraltro non solo italiana ma internazionale, e sta a noi affrontarla. Anche per evitare che le vittime, sempre più al centro dell’attenzione dei media e della politica-criminale, pensino di poter trovare soddisfazione solo attraverso pene sempre più severe e torsioni dei principi del diritto penale liberale. Contro questo rischio, che purtroppo si è già in gran parte concretizzato nell'attuale temperie penal-populista, la giustizia riparativa può rivelarsi un efficace antidoto. C'è però una grande operazione culturale da compiere. Ed è un'avvincente sfida del nostro tempo.