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14 Febbraio 2025


Terra dei Fuochi: violato il diritto alla vita degli abitanti. Prime osservazioni in ordine alle possibili ripercussioni sul diritto penale ambientale di una storica sentenza


* L’autore del presente commento ha contribuito, in qualità di membro del Centro MacroCrimes dell'Università di Ferrara, alla redazione dell'intervento di “amicus curiae” citato ai §§ 268, 368 e 369, della sentenza.

** Contributo pubblicato nel fascicolo 2/2025. 

 

1. Con la sentenza Cannavacciuolo e altri la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato all’unanimità l’Italia per violazione dell’art. 2 Cedu, in ragione dell’omessa adozione di misure, preventive e repressive, idonee a fronteggiare la grave situazione di inquinamento ambientale che da decenni affligge una vasta area della Regione Campania nota come Terra dei Fuochi, abitata da quasi 3 milioni di persone. L’inquinamento, provocato da un sistema illecito di raccolta, abbandono, seppellimento e combustione di rifiuti, anche pericolosi, attraverso il quale la criminalità organizzata offriva servizi di smaltimento a basso costo, ha determinato l’aumento di incidenza di patologie di varia natura, inclusi i tumori, tra gli abitanti delle aree contaminate, così compromettendo, secondo la Corte di Strasburgo, il loro diritto alla vita.

La sentenza riunisce quattro diversi ricorsi presentati nel 2014 e 2015 da quarantuno persone fisiche e cinque associazioni. In via preliminare la Corte europea ha stralciato o dichiarato irricevibili trentaquattro posizioni di persone fisiche, in ragione della loro tardività (v. infra), o della circostanza che i ricorrenti o i loro famigliari non avessero risieduto in uno dei novanta Comuni classificati come appartenenti alla Terra dei Fuochi dai decreti interministeriali emanati nel 2013, 2014 e 2015 (§215-219). Sono stati altresì dichiarati irricevibili ratione personae i ricorsi presentati da cinque associazioni di residenti, da un lato considerando la tipologia di violazioni lamentate riferibile solo alle persone fisiche; dall’altro tracciando un espresso distinguishing rispetto alla recente pronuncia Verein KlimaSeniorinnen Schweiz e altri, che come noto ha condannato la Svizzera per omessa adozione di misure idonee a fronteggiare il cambiamento climatico, segnatamente il fatto che l’associazione di signore svizzere ricorrente rappresentasse anche i diritti di generazioni future (§220; sul punto v. peraltro le opinioni separate dei giudici Krenk e Serghides).

La Corte ha rilevato la violazione dell’art. 2 Cedu rispetto a sette persone fisiche affette da disturbi respiratori o patologie oncologiche, ritenendo non necessario esaminare le sovrapponibili censure riconducibili all’art. 8 Cedu. Rinviando a successiva determinazione l’accertamento e la quantificazione dei danni non patrimoniali ex art. 41 Cedu, la Corte ha condannato l’Italia, ai sensi dell’art. 46, all’adozione di misure di ordine generale, essenzialmente consistenti nella realizzazione degli interventi a tutela dell’ambiente e della salute la cui protratta omissione ha fondato la condanna (§ 495-500). L’Italia avrà due anni di tempo per adempiere, decorrenti dal momento in cui la pronuncia diverrà definitiva, e nel frattempo rimarranno sospesi – secondo lo schema della procedura pilota, ritenuto applicabile al caso di specie in ragione del carattere diffuso e sistematico delle violazioni accertate, nonché della loro verosimile attuale perduranza (§490) – altri settantadue analoghi ricorsi, presentati da circa 4700 persone.

 

2. I fatti oggetto della pronuncia si sono sviluppati nell’arco di oltre trent’anni, durante i quali il sistematico smaltimento illegale di rifiuti, anche pericolosi, in aree comprese tra le Province di Napoli e Caserta, ha determinato condizioni di inquinamento dell’aria, del suolo e delle acque gravemente pregiudizievoli per la salute dei residenti. La parte in fatto della sentenza ricostruisce in ordine cronologico il susseguirsi delle tappe e dei documenti che lasciano progressivamente emergere un quadro coerente di prassi illecite e inerzie statali ai danni dei residenti nei novanta Comuni campani appartenenti alla Terra dei Fuochi. Vengono in particolare analizzati i lavori delle sette commissioni parlamentari d’inchiesta istituite tra il 1995 e il 2018, dai quali emerge, tra l’altro, come il problema dello smaltimento illecito fosse noto sin dal 1988 e come le prime indagini furono avviate negli anni ’90. Si dà conto del fatto che, nel 1997, la seconda commissione parlamentare beneficiò delle informazioni fornite da un collaboratore di giustizia, rivelatrici del carattere sistematico e diffuso degli abusi, le quali furono tuttavia sottoposte a segreto di Stato per quindici anni. I rapporti rilasciati da organismi istituzionali e associazioni nel corso degli anni hanno come comune denominatore la descrizione delle modalità di raccolta, occultamento, interramento e combustione dei rifiuti (pratica dalla quale Legambiente ricavò il suggestivo nome poi divenuto di uso comune); i ritardi e l’inadeguatezza delle misure adottate dai Governi via via succedutisi; le carenze riscontrabili del quadro normativo amministrativo e penale. Vengono altresì passati analiticamente in rassegna gli studi epidemiologici, condotti anche a livello istituzionale, che hanno evidenziato in maniera sempre più chiara l’aumento dell’incidenza di patologie eziologicamente correlabili alla tipologia di sostanze tossiche disperse nell’ambiente, incluse numerose malattie tumorali e malformazioni. Ancora, si dà conto delle condanne riportate dall’Italia dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea a seguito delle procedure di infrazione per violazione delle disposizioni dettate dalle direttive in materia di rifiuti (Commissione c. Italia, C-135/05; C-297/08; C-653/13).

 

3. Dopo avere rigettato l’eccezione del Governo in punto di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne (rilevando, tra l’altro, che tali non potevano considerarsi i rimedi civilistici finalizzati al mero ristoro del danno, stante la situazione di grave contaminazione ambientale e inerzia statale lamentata dai ricorrenti, §273), la Corte si confronta con l’ulteriore eccezione relativa al mancato rispetto del termine per la presentazione del ricorso (pari a sei mesi, trattandosi di ricorsi presentati prima della riduzione a quattro mesi, intervenuta nel 2022). Stante, come appena ricordato, l’assenza di vie di ricorso effettive, il problema viene incentrato sulla fissazione del dies a quo. Sul punto la Corte tratteggia una distinzione tra due categorie di ricorrenti. Per coloro che, al tempo della proposizione del ricorso, ancora risiedevano nelle aree contaminate, la Corte afferma che il termine non aveva in quel momento nemmeno iniziato a decorrere, tenuto conto del carattere perdurante della violazione lamentata (§283). Per coloro che invece, al momento del ricorso, non risiedevano più nelle aree contaminate, e analogamente per i ricorrenti rappresentanti di famigliari deceduti, la Corte fissa il dies a quo al 31 dicembre 2013, ritenendo che da quel momento i ricorrenti erano certamente in grado di  rendersi conto degli effetti dell’inquinamento sulla salute propria o dei propri congiunti (tanto sulla scorta delle informazioni desecretate dal Parlamento italiano nel mese di ottobre e ampiamente diffuse dai media, alle quali aveva fatto seguito l’adozione del d.l. n. 136, primo atto normativo finalizzato ad affrontare sistematicamente il problema della Terra dei Fuochi, §284-296).

 

4. Nel merito, il primo, e cruciale, quesito affrontato dalla Corte riguarda l’applicabilità dell’art. 2 della Convenzione.

Il Governo, argomentando sul piano della ricevibilità, aveva sostenuto che, stante l’assenza di prove in ordine ai nessi di causalità individuale tra l’esposizione alle sostanze tossiche rilasciate dai rifiuti e le patologie, di natura multifattoriale, sviluppate dai ricorrenti, il caso potesse essere tutt’al più ricondotto all’art. 8 Cedu; e che pertanto i ricorsi avrebbero dovuto essere dichiarati irricevibili con riferimento alle doglianze relative al diritto alla vita per asserita mancanza del “victim status” in capo ai loro proponenti (§223-227).

La Corte, ricondotta la questione al merito delle doglianze (§383-392), si sofferma preliminarmente su quelle che reputa essere le peculiarità del caso di specie, delle quali afferma di dover “tenere conto” per garantire al diritto alla vita concretezza ed effettività. Anzitutto – osservano i giudici – la vicenda sotto esame si distingue dai numerosi precedenti sui quali si è sviluppata la giurisprudenza “ambientale” della Corte, poiché non riguarda singoli fattori inquinanti, o singole attività che li originano, né un’area geografica sufficientemente delimitata. Vengono infatti in rilievo una molteplicità di fonti inquinanti, distribuite in maniera estesa e complessa, nonché diverse modalità di esposizione umana. In secondo luogo – prosegue la Corte – a differenza della maggior parte dei casi affrontati in passato, non si tratta qui di attività inquinanti a base lecita, bensì di attività abusive svolte al di fuori di qualsivoglia cornice normativa da gruppi criminali organizzati, nonché industrie, imprese e individui (§384).

Ciò premesso, la Corte evidenzia che il Governo non contesta la pericolosità per la salute e financo per la vita umana dei rifiuti tossici illegalmente smaltiti nella Terra dei Fuochi, bensì la possibilità di dimostrare il nesso causale tra l’esposizione a quei fattori di rischio e le specifiche patologie lamentate dai singoli ricorrenti (§386). Ad avviso dei giudici di Strasburgo, tuttavia, il fatto che le autorità italiane fossero consapevoli di siffatti pericoli almeno dai primi anni ’90, e che i sospetti in ordine ai rischi cancerogeni fossero stati sollevati già dalla prima commissione parlamentare di inchiesta (1996), per poi maturare grazie agli studi epidemiologici pubblicati nel 2004 e nel 2005, sono elementi sufficienti a fondare la conclusione secondo cui, sin da allora, esisteva la consapevolezza di un pericolo per la vita dotato di caratteristiche – segnatamente la serietà, l’autenticità, la dimostrabilità, nonché l’imminenza (stante il perdurante risiedere dei ricorrenti nelle zone contaminate) – tali da far scattare gli obblighi positivi discendenti dall’art. 2 Cedu, senza necessità di dimostrare i nessi di causalità individuale tra l’esposizione e le singole patologie (§387-390). A rafforzamento della conclusione, la Corte osserva, richiamando esplicitamente il principio di precauzione, che l’incertezza in ordine ai singoli nessi causali non può far venire meno il dovere di ricercare, identificare e valutare i rischi, posto che altrimenti lo Stato potrebbe beneficiare della propria inerzia per sottrarsi alle proprie responsabilità (§391).

 

 

5. Sciolto il nodo relativo all’applicabilità dell’art. 2, la Corte passa in rassegna gli obblighi positivi discendenti dal diritto alla vita e si interroga in ordine al loro rispetto da parte dell’Italia, giungendo per ognuno di essi a conclusioni di segno negativo.

Anzitutto la Corte si chiede se le autorità abbiano adottato idonee misure di risk assesment, consistenti nell’identificazione delle aree inquinate, nonché nella verifica dei livelli di inquinamento di aria, acqua e suolo. Sul punto la Corte censura: la pressoché totale assenza di iniziative duranti i primi vent’anni in cui il problema era già noto; i ritardi e l’incompletezza delle mappature eseguite sulla base del d.l. n. 136/2013 (conv. in l. n. 6/2014), anche in ragione della settorialità di tali interventi (relativi solo ai terreni agricoli, non invece all’acqua e all’aria); la mancanza di informazioni relative all’aggiornamento delle mappature eseguite, particolarmente importanti in ragione delle evidenze documentali che suggeriscono come, in anni recenti, il fenomeno fosse ancora in corso (§398-411).

In secondo luogo, volgendo lo sguardo al risk management, la Corte sottolinea la mancata o ritardata attuazione dei divieti di utilizzo dei territori contaminati, nonché le carenze riscontrabili nei piani di bonifica (spesso rimasti a livello meramente progettuale o eseguiti in maniera non sistematica né coordinata), criticità queste ultime già messe in luce dalla Sesta Commissione Parlamentare d’inchiesta (2018), dall’Istituto Superiore di Sanità (2020) e dal United Nations Special Rapporteur on toxics and human rights (2021).

In terzo luogo, la Corte censura i ritardi nell’avvio di iniziative volte ad accertare e mappare gli effetti dell’esposizione ai rifiuti tossici sulla salute umana, già evidenziati dalla 12a Commissione permanente del Senato “Igiene e sanità”. Solo nel 2016, infatti, sono state attuate le disposizioni in materia di salute racchiuse nel già ricordato d.l. 136/2013, che hanno portato all’avvio degli studi epidemiologici ufficiali riportati dal Governo, le cui conclusioni sono state peraltro illustrate solo parzialmente (§424-430).

 

6. Sempre con riferimento alla disamina degli obblighi positivi e del loro inadempimento da parte dell’Italia, e rivolgendo lo sguardo alla materia di maggiore interesse per il ramo penale dell’ordinamento, vengono in rilievo le valutazioni espresse dalla Corte in ordine alla tempestività e all’efficacia delle azioni preventive e repressive intraprese dalle forze dell’ordine e dalla magistratura.

Quanto alle attività di polizia, la Corte apprezza gli sforzi compiuti dall’Italia sia mediante l’istituzione della figura di coordinamento, nominata dal Ministero dell’Interno, dell’“Incaricato per il fenomeno dei roghi di rifiuti nella regione Campania” (2012), sia successivamente con i piani d’azione del 2016 e 2018, volti a potenziare le attività di controllo, con dotazioni adeguate di personale e di strumenti di sorveglianza anche aerea. Nondimeno, la Corte censura il carattere tardivo di tali iniziative, rispetto alla conoscenza ben più risalente del problema.

Con riferimento ai procedimenti penali, la Corte affronta separatamente il tema dell’adeguatezza del quadro normativo vigente da quello della sua effettiva applicazione alle condotte di traffico e smaltimento abusivo dei rifiuti nella Terra dei Fuochi.

Sul primo aspetto, la Corte reputa insoddisfacente la normativa italiana almeno fino alla riforma dei delitti ambientali introdotta dalla l. 68/2015 (facendo peraltro notare l’assenza di dati in ordine all’avvio di procedimenti riferibili alla Terra dei Fuochi basati sui nuovi ecodelitti, §447). Basandosi in particolare sui rapporti di alcune delle Commissioni Parlamentari di inchiesta (1996, 1998, 2004, 2018), la Corte giudica inefficace il precedente quadro normativo, caratterizzato da contravvenzioni di scarsa capacità deterrente, termini di prescrizione molto brevi, inapplicabilità di strumenti di indagine e misure cautelari. Anche l’introduzione delle figure delittuose di “attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti” (l. 90/2001) e “combustione illecita di rifiuti” (d.l. 136/2013) viene giudicata insufficiente in ragione, rispettivamente, della difficoltà riscontrate dall’autorità giudiziaria nel dimostrare gli elementi del reato, e della limitata applicazione della norma a fronte della frequenza degli episodi che mirava a fronteggiare (§435-440).

Sul secondo aspetto la Corte censura essenzialmente il carattere frammentario e incompleto delle informazioni fornite dal Governo in merito ai procedimenti svoltisi e al loro esito, e si esprime nel senso dell’impossibilità di formulare un giudizio favorevole, in ordine all’adempimento degli obblighi positivi procedurale, sulla base dei soli cinque processi conclusisi con condanne per gravi delitti (disastro ambientale, avvelenamento di acque, traffico di rifiuti) sufficientemente documentati dal Governo (§441-446). 

 

7. Gli ultimi due profili di inadempimento degli obblighi positivi riguardano il ciclo ordinario di smaltimento dei rifiuti in Campania (tema già oggetto delle sentenze Di Sarno e Locascia, e almeno in parte collegato a quello della Terra dei Fuochi, rispetto al quale la Corte si limita a osservare che, pur essendosi registrati importanti passi avanti, le autorità italiane si sono mosse con irragionevole lentezza e tuttora sussistono profili di criticità, §448-453); nonché la condivisione delle informazioni con la popolazione. A quest’ultimo proposito la Corte censura il fatto che per ben quindici anni le autorità italiane hanno posto il segreto di Stato sulle informazioni rivelate da un collaboratore di giustizia alla seconda Commissione parlamentare d’inchiesta nel 1997, e che anche in seguito hanno omesso di avviare una campagna informativa adeguata, in termini di completezza e accessibilità, alla natura e all’intensità del rischio conosciuto.

 

* * *

 

8. La sentenza Cannavacciuolo è destinata a marcare, non appena diverrà definitiva, una nuova e importante tappa nell’evoluzione del contenzioso sulla tutela dei diritti umani rispetto alle minacce provenienti dall’inquinamento, dal degrado ambientale e dai cambiamenti climatici. Un filone giurisprudenziale che non può certo dirsi nuovo, se si risale alle sentenze che l’hanno inaugurato (v. infra); ma che altrettanto indubitabilmente sta vivendo, negli ultimi anni, una stagione particolarmente intensa sul piano sia quantitativo (in termini di numero di ricorsi), che qualitativo (in termini di evoluzione e progressivo affinamento delle regole e dei principi che orientano le decisioni). Le ripercussioni di questa nuova declinazione dei diritti umani, talvolta sinteticamente descritta come greening of human rights, riflettono il carattere marcatamente multidisciplinare delle problematiche sottese al relativo contenzioso, andando perciò a investire, oltre che naturalmente il diritto di Strasburgo in senso stretto, anche le diverse materie che, negli ordinamenti nazionali, compongono il settore ambientale, incluso il diritto penale.

Guardata attraverso le lenti del ius puniendi, la sentenza in esame rappresenta, anzitutto, il riconoscimento giudiziario di una verità storica. Le motivazioni, infatti, restituiscono coerenza e unitarietà al complesso puzzle di inchieste, procedimenti, reportage, studi scientifici e atti normativi che si sono stratificati nel corso di decenni, offrendo la fotografia di un sistema criminale endemico e dei suoi drammatici effetti sull’ambiente e la salute pubblica in Campania, acuiti dall’inerzia e dall’insipienza delle autorità statali nel fronteggiare efficacemente ciò di cui avevano piena contezza. Oltre che la suggestiva etichetta coniata da Legambiente nel Rapporto Ecomafie del 2003, l’espressione Terra dei Fuochi è dunque destinata a diventare, attraverso la sentenza in esame, la formula di sintesi di un macro-fenomeno illecito pluridecennale incontrovertibilmente accertato.

 

9. Se vediamo correttamente, peraltro, la pronuncia riveste un’importanza che trascende la pur storica portata della vicenda concreta, aprendo nuove prospettive per il contenzioso ambientale basato sull’art. 2 Cedu, con significative ricadute per il diritto penale sostanziale.

Procedendo con ordine, giova ricordare che, a partire dal leading case Öneryildiz e altri c. Turchia (2004), la giurisprudenza di Strasburgo ritiene l’art. 2 astrattamente applicabile a tutti i contesti pericolosi per la vita umana, incluse le attività produttive, come l’industria, e i rischi naturali controllabili dall’uomo, come ad esempio inondazioni e frane. Condizione imprescindibile, tuttavia, affinché il diritto alla vita possa venire in gioco, è che il ricorrente dimostri di avere corso un pericolo serio e imminente di morte, oppure, se si tratta del rappresentante di un deceduto, dimostri il nesso di causalità tra il fattore di rischio e l’evento letale. Quando questo onere probatorio non può essere soddisfatto, ma al contempo emerge che il fattore di rischio esisteva e ha quanto meno arrecato nocumento al benessere e alla qualità della vita del ricorrente, la Corte esamina il caso sotto l’angolo dell’art. 8. È proprio quest’ultimo l’orientamento consolidatosi, a partire dal caso López Ostra c. Spagna (1994), nei casi di inquinamento ambientale, dove la Corte è solita affermare che la seria compromissione di aria, acqua e/o suolo compromette la possibilità di godere in maniera piena dei luoghi in cui si abita e dunque di esercitare le prerogative della vita privata e famigliare (nello stesso senso, successivamente, v. Guerra e altri c. Italia 1998, Tātar c. Romania 2009, Cordella e altri c. Italia 2019, Locascia e altri c. Italia 2023).

Su questo sfondo, la sentenza Cannavacciuolo presenta un importante elemento di novità sul piano del valore assegnato alle evidenze scientifiche di tipo epidemiologico. Mentre infatti finora la Corte aveva valorizzato la prova dell’aumento dell’incidenza di patologie correlabili all’inquinamento in chiave di compromissione di interessi riconducibili all’ampio contenitore del diritto alla vita privata ex art. 8 Cedu (si pensi ancora, a titolo esemplificativo, al sentenza Cordella e altri c. Italia, relativa ai residenti nei pressi dell’Ilva di Taranto[1]), per la prima volta lo stesso tipo di evidenza viene associato a una compromissione del diritto alla vita tout court. Il cambio di approccio, si badi, non deriva dal contenuto delle evidenze epidemiologiche, ossia dalla tipologia di malattie di cui si registra un eccesso: anche nel caso dell’Ilva, infatti, si trattava di studi che evidenziavano l’aumento tra gli esposti dell’incidenza di patologie potenzialmente letali, come quelle tumorali.

Piuttosto, nel caso Cannavacciuolo la Corte sembrerebbe avere sensibilmente ridotto la rilevanza attribuita alla prova della causalità individuale come criterio utile (ancorché non esclusivo) a orientarsi di fronte al bivio tra art. 2 e art. 8 Cedu. Ciò traspare con una certa evidenza nel passaggio, di cui già si è dato conto, in cui la Corte respinge l’argomento del Governo secondo cui il caso avrebbe dovuto essere ricondotto all’art. 8 in considerazione della multifattorialità delle patologie di cui si registra l’incremento nella Terra dei Fuochi, e dunque dell’impossibilità di dimostrare i nessi di causalità individuale. Un argomento comprensibile, alla luce della sedimentata giurisprudenza sul diritto alla vita privata poc’anzi richiamata; ma a nostro avviso errato, come del resto avevamo già avuto occasione di argomentare in sede di commento alla sentenza Cordella. Ciò non tanto per le ragioni addotte dalla Corte, che a ben vedere sovrappone il profilo dell’accertamento causale con quello dei presupposti in presenza dei quali le autorità hanno l’obbligo di attivarsi. Dirimente, piuttosto, ci pare la constatazione che, quando il ricorrente dimostra di essere affetto da una patologia potenzialmente letale, e produce evidenze epidemiologiche secondo cui, proprio nella zona dove egli/ella vive o ha vissuto, vi è un significativo aumento del rischio di contrarre quella patologia in ragione della presenza di determinanti fattori inquinanti, non si vede in base a quale argomento si possa escludere che quello specifico ricorrente ha subìto una compromissione del diritto alla vita in termini di aumento del pericolo di morte. L’argomento della multifattorialità può suggerire che il singolo ricorrente si sarebbe potuto ammalare anche in assenza dell’esposizione; ma non può in alcun modo negare che l’esposizione ha determinato un aumento del rischio di contrarre la patologia mortale.

 

10. Un lettore attento potrebbe a questo punto obiettare che quanto appena sostenuto ha un senso sul piano della responsabilità dello Stato per non avere adeguatamente tutelato il diritto alla vita dei consociati (responsabilità che, come visto, scatta persino a fronte di un mero sospetto in ordine al pericolo per la vita, secondo la logica del principio di precauzione, espressamente richiamato dalla Corte); ma non può in alcun modo essere traslato sul versante della responsabilità penale individuale per reati d’evento che sanzionano la causazione, o l’omesso impedimento, delle malattie letali di cui discutiamo. L’obiezione, tuttavia, coglierebbe solo in parte nel segno.

È vero che l’argomento della multifattorialità, calato in un processo penale, porrebbe una serissima ipoteca sulla possibilità di addivenire ad un accertamento della responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio per reati contro la persona come l’omicidio colposo e le lesioni personali colpose. Ciò, tuttavia, non significa che la conclusione alla quale è pervenuta la Corte in ordine alla sufficienza dell’evidenza epidemiologia per rendere applicabile l’art. 2 Cedu sia del tutto priva di conseguenze per gli ordinamenti penali nazionali. Anzi, a ben vedere, è proprio qui che si può cogliere la più significativa conseguenza, almeno per il diritto penale, dell’abbandono del paradigma dell’art. 8 in favore di quello dell’art. 2. È infatti da quest’ultima previsione che la consolidata giurisprudenza della Corte fa discendere i più pregnanti obblighi di incriminazione, relativi a condotte sia dolose che colpose, in capo agli Stati aderenti alla Convenzione. Obblighi che si declinano, come lo stesso caso in esame ci ricorda, prima di tutto sul versante normativo, imponendo cioè l’adozione di norme incriminatrici che siano da un lato idonee a intercettare le molteplici forme che possono assumere le offese arrecate alla vita umana; e dall’altro lato dotate di un corredo sanzionatorio proporzionato al disvalore di condotte che, attraverso l’inquinamento dell’ambiente, cagionano numerosi eventi lesivi della salute e/o la vita. Senza dimenticare i profili accessori, ma nient’affatto secondari per la Corte europea, relativi all’applicabilità di efficaci strumenti di indagine e di misure cautelari, nonché all’adeguatezza dei tempi di prescrizione.

Ci si potrebbe allora chiedere se l’ordinamento italiano disponga di fattispecie incriminatrici in materia di tutela dell’ambiente e della salute pubblica dotate di caratteristiche tali da poter essere considerate compatibili con le indicazioni della sentenza Cannavacciuolo. La Corte si è espressa nel senso dell’inadeguatezza del quadro normativo vigente fino alla riforma del 2015, che ha introdotto il titolo VI-bis del codice penale, recante i c.d. ecodelitti. Tale valutazione negativa ha incluso anche il reato di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti, che all’epoca dei fatti oggetto del giudizio della Corte era previsto dalla normativa complementare e nel 2018 è stato trasferito, senza modifiche, nel medesimo titolo VI-bis. Ci si potrebbe peraltro chiedere se altre fattispecie rintracciabili nel catalogo codicistico possano, oggi, offrire risposte complessivamente più coerenti con il disvalore di fatti che – giova insistere sul punto – oltre a gravi compromissioni ambientali, cagionino, quale effetto collaterale delle stesse, eventi lesivi per la vita e la salute misurabili in termini epidemiologici. Il pensiero corre alla fattispecie di morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento ambientale (art. 452-ter), nonché, e soprattutto, di disastro ambientale-sanitario (art. 452-quater, n. 3). Proprio rispetto a quest’ultima e controversa figura, l’obiettivamente infelice formulazione del fatto tipico, e segnatamente il riferimento al “numero delle persone offese o esposte a pericolo” come elemento costitutivo dell’offesa, potrebbe acquistare una nuova luce mediante un’interpretazione orientata all’art. 2 Cedu, come da ultimo letto dalla Corte nella sentenza in esame.  Si tratterebbe di un’operazione ermeneutica in grado di compensare, almeno in parte, il deficit di tassatività di cui attualmente soffre disposizione, in quanto consentirebbe di ricollegare i concetti di “offesa” e “esposizione a pericolo” a un sicuro termine di riferimento, ossia il diritto alla vita. Allo stesso tempo, si tratterebbe di un approccio funzionale a garantire un’efficace tutela penale delle forme più gravi di aggressione alla salute pubblica mediante inquinamento ambientale, evitando al contempo le forzature alle quali è ricorsa in passato la giurisprudenza italiana nell’avvalersi dei reati contro la persona o l’incolumità pubblica (si pensi alla lunga “saga” del disastro innominato ex art. 434 c.p.).

 

 

 

[1] Nello stesso senso, sempre con riferimento all’inquinamento atmosferico industriale, Fadeyeva c. Russia, 2005, § 80-88.