ISSN 2704-8098
logo università degli studi di Milano logo università Bocconi
Con la collaborazione scientifica di

  Scheda  
16 Luglio 2024


Osservatorio Corte EDU: giugno 2024

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Ettore Crippa (artt. 5, 6 e 8 Cedu) e Federica Alma (artt. 8 e 14 Cedu, art. 10 Cedu).

 

In giugno abbiamo selezionato pronunce relative a: ingiusta detenzione e riparazione del danno (art. 5 Cedu); imparzialità soggettiva del giudice (art. 6 Cedu); errore giudiziario (art. 6 Cedu); segretezza comunicazioni tra difensore e detenuto (art. 8 Cedu); suicidio assistito (artt. 8 e 14 Cedu); divieto di accesso a documentazione storica su politiche repressive URSS (art. 10 Cedu)

 

 

ART. 5 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 6 giugno 2024, Cramesteter c. Italia

Legittimità della detenzione – ricorrente sottoposto a una misura di sicurezza detentiva per una durata superiore a quella massima prevista dalla legge – violazione – impossibilità di ottenere una riparazione per l’illegittima protrazione della detenzione – violazione

Il ricorrente, dopo esser stato condannato in primo grado per detenzione abusiva di armi e ricettazione, viene prosciolto in appello per vizio totale di mente al momento della commissione dei fatti. Con la sentenza di assoluzione il giudice, però, ritenendo l’imputato socialmente pericoloso, dispone l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario per un periodo iniziale di due anni (§ 2-5). La misura è più volte prorogata dal magistrato di sorveglianza, in ragione della perdurante pericolosità sociale del ricorrente, e quest’ultimo, a seguito della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, viene trasferito in una REMS. Nel frattempo, entra in vigore l’art. 1 comma 1-quater d.l. 31 marzo 2014 n. 52, conv. in l. 30 maggio 2014 n. 81, che introduce un termine di durata massima delle misure di sicurezza detentive, pari al massimo della pena edittale prevista per il reato commesso. Nonostante il superamento del limite temporale in parola, le autorità italiane optano per mantenere il ricorrente in stato di detenzione, sulla base dell’argomento secondo cui la modifica normativa non avrebbe efficacia retroattiva. Infine, ne viene disposta la liberazione, ma con un ritardo di quasi otto mesi rispetto alla scadenza della misura (§ 11-15). Stante il periodo detentivo illegittimamente trascorso ed essendo stata rigettata la sua richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 5 commi 1 e 5 Cedu. Chiamata a pronunciarsi, la Corte europea evidenzia, anzitutto, come ogni privazione della libertà personale debba trovare fondamento in una legge nazionale che ne regoli i “casi” e i “modi”. Le previsioni che autorizzano l’arresto o la detenzione devono, poi, essere prevedibili nella relativa applicazione, ossia connotate da un livello di chiarezza e precisione tale da consentire a ogni individuo di conoscere le conseguenze giuridiche del proprio comportamento (§ 49). Nella vicenda in esame, la protrazione della misura di sicurezza oltre il limite massimo sancito dalla novella normativa non poggiava su alcuna base legale ed equivaleva, perciò, a un’illegittima privazione della libertà personale (§ 53-56). Da qui, la violazione dell’art. 5 comma 1 Cedu. Circa il mancato riconoscimento di un risarcimento per la detenzione illegittima, la Corte europea osserva come il diritto alla riparazione ex art. 5 comma 5 Cedu debba essere non già teorico, bensì effettivamente azionabile (§ 68). Nel caso di specie, il ricorrente non ha avuto la possibilità di ottenere alcun ristoro dei danni patiti, non essendo applicabile il rimedio della riparazione per ingiusta detenzione in rapporto alle misure di sicurezza definitive (§ 71). Ne consegue la violazione dell’art. 5 comma 5 Cedu. (Ettore Crippa) 

Riferimenti bibliografici: L. Pressacco, Per un’integrazione “convenzionalmente orientata” della riparazione per l’ingiusta detenzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 319 ss.

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 4 giugno 2024, Bosev c. Bulgaria

Imparzialità del giudice – presidente del collegio giudicante parziale – assenza di uno strumento giurisdizionale interno idoneo a porre rimedio al difetto d’imparzialità – violazione

Il ricorrente, un noto giornalista specializzato in cronaca giudiziaria, è accusato di diffamazione e, dopo esser stato condannato in primo grado, propone appello (§ 10-14). Sennonché, come presidente del collegio giudicante in sede d’impugnazione viene designato un magistrato di cui l’imputato, in numerosi articoli, aveva messo in dubbio l’integrità morale e le qualità professionali. Ravvisando un rischio di ritorsione, la difesa presenta ben due istanze di ricusazione, che vengono, però, entrambe rigettate dal medesimo collegio, non essendo mai insorta in passato alcuna controversia tra il magistrato e il giornalista. All’esito del giudizio d’appello la condanna per diffamazione viene confermata (§ 19-28). In assenza di altri rimedi interni esperibili, il ricorrente si rivolge alla Corte europea, lamentando il difetto d’imparzialità del giudice di secondo grado. Come in numerose altre occasioni, per appurare se vi sia stata una violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu, la Corte di Strasburgo effettua un duplice vaglio: dapprima, valuta se il comportamento del giudice abbia fatto emergere un pregiudizio verso una delle parti; poi, verifica l’esistenza di elementi idonei a giustificare, sul piano oggettivo, le preoccupazioni del ricorrente (§ 54-58). Nel caso di specie, il presidente del collegio non ha tenuto alcuna condotta che denotasse avversione nei confronti del giornalista (§ 61-65). Tuttavia, gli “attacchi mediatici” che aveva subito in precedenza erano oggettivamente in grado di far sorgere ragionevoli dubbi circa la sua imparzialità (§ 66-70). La Corte europea rileva, infine, la mancanza di uno strumento giurisdizionale interno capace di porre rimedio al difetto d’imparzialità del giudice (§ 71-74). Da qui, la violazione dell’art. 6 comma 1 Cedu. (Ettore Crippa).

Riferimenti bibliografici: R. Casiraghi, L’imparzialità del giudice fra precedenti valutazioni e influenze mediatiche, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 747 ss.; F. Ertola, Esigenze di imparzialità e processo penale, ivi, 2019, p. 2235 ss.; L. Pressacco, Imparzialità del giudice e responsabilità del magistrato, ivi, 2018, p. 1837 ss.

 

C. eur. dir. uomo, grande camera, sent. 11 giugno 2024, Nealon e Hallam c. Regno Unito

Presunzione d’innocenza – scoperta di nuove prove e annullamento della condanna – domanda di riparazione dell’errore giudiziario – decisione extrapenale non fondata sull’affermazione della colpevolezza dei ricorrenti – non violazione

Ritenuti responsabili di gravi delitti, i due ricorrenti sono condannati a una lunga pena detentiva. Dopo aver scontato diversi anni di reclusione, le rispettive condanne vengono annullate, in forza della scoperta di nuove prove che facevano sorgere fondati dubbi intorno alla colpevolezza di entrambi (§ 23-25). I ricorrenti avviano, così, il procedimento volto a ottenere il ristoro dei danni patiti per l’ingiusta condanna. L’autorità amministrativa chiamata a decidere respinge, però, le loro richieste, ritenendo le nuove prove incapaci di dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio la mancata commissione del fatto da parte degli imputati (§ 26). Il diniego viene considerato legittimo in sede giurisdizionale, perché fondato sulla normativa nazionale (§ 27-48). A tal punto, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 6 comma 2, in quanto il rigetto della richiesta di riparazione rifletterebbe l’opinione che gli stessi siano colpevoli dei reati ascrittogli (§ 99). Richiamando i principi espressi nella pronuncia C. edu, grande camera, sent. 12 luglio 2013, Allen c. Regno Unito, la Corte europea rammenta, anzitutto, che la presunzione d’innocenza non opera solo nei procedimenti relativi alle determinazioni di un’accusa penale, ma assume rilievo anche nei successivi giudizi extrapenali, impedendo alle autorità di considerare l’interessato responsabile del reato in precedenza contestatogli. Ciò, naturalmente, a patto che il procedimento penale si sia concluso con l’assoluzione o comunque senza una condanna e che sussista un nesso fra le statuizioni del giudice penale e quelle da adottare aliunde. Nel caso di specie, è pacifico che la presunzione d’innocenza trovi applicazione, posto che la domanda di riparazione dell’errore giudiziario, presentata dai ricorrenti, trae origine dall’annullamento della loro condanna penale (§ 128-129). Secondo la Corte europea, tuttavia, l’art. 6 comma 2 Cedu non risulta violato, in quanto l’autorità amministrativa, nel rigettare la richiesta di ristoro, si è limitata ad addurre l’esistenza di ragionevoli dubbi intorno alla mancata commissione del reato, senza spingersi ad affermare la colpevolezza dei ricorrenti (§ 180-183). (Ettore Crippa)

Riferimenti bibliografici: S. Basilico, Impugnazione per condanna ai soli fini civili: limiti e compatibilità con la presunzione di innocenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, p. 551 ss.; P. Zoerle, Presunzione d’innocenza e procedimenti disciplinari, ivi, 2021, p. 1156 ss.

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 20 giugno 2024, Namazli c. Azerbaigian

Rispetto della vita privata – corrispondenza tra difensore e detenuto – perquisizione subita da un avvocato, prima e dopo il colloquio in carcere con il suo assistito, e successivo sequestro di un documento in assenza di qualsiasi sospetto di reato – violazione

Il ricorrente è un avvocato che, recatosi in carcere per conferire con il proprio assistito, viene perquisito prima e dopo il colloquio. Nel corso dei controlli, il personale penitenziario ispeziona pure il contenuto della documentazione portata con sé dal legale, senza addurre alcun sospetto circa la commissione di un reato. La seconda perquisizione si conclude con il sequestro di un documento dell’avvocato, recante una dichiarazione scritta del suo assistito (§ 6-8). Esaurite le vie di ricorso interne, il ricorrente lamenta una violazione dell’art. 8 Cedu, causata dall’ingerenza della pubblica autorità nella sua sfera privata (§ 29). In linea con la propria giurisprudenza consolidata, la Corte di Strasburgo ribadisce la cruciale necessità di proteggere la corrispondenza tra il difensore e il proprio assistito da qualsiasi intrusione. Eventuali controlli da parte dell’autorità possono essere esercitati solo in casi eccezionali e in forza di previsioni normative dettagliate che stabiliscano garanzie contro possibili abusi. Nel caso in esame, l’ingerenza trovava fondamento in una disposizione di natura generale che non teneva conto dell’esigenza di assicurare una tutela “rafforzata” ai colloqui tra gli avvocati e i rispettivi assistiti: difettava, dunque, una base giuridica idonea a giustificare le condotte tenute dal personale penitenziario (§ 49-54). Da qui, la violazione dell’art. 8 Cedu. (Ettore Crippa)

Riferimenti bibliografici: S. Basilico, Lo smartphone sequestrato contiene corrispondenza con un difensore: che fare?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 757 ss.

 

ART. 8 e 14 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. I, 13 giugno 2024, Daniel Karsai c. Ungheria

Disciplina del fine vita – divieto per il soggetto malato terminale di accedere a pratiche di suicidio assistito – consenso libero e informato del paziente e diritto di rifiuto o interruzione di un trattamento sanitario, anche se necessario per il mantenimento in vita del soggetto – non violazione

Il ricorrente, illustre avvocato ungherese affetto da Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), oramai ad uno stadio avanzato della malattia neurodegenerativa, si duole dell’impossibilità di accedere a pratiche di suicidio assistito, espressamente vietate dalla normativa vigente in Ungheria. “Imprigionato nel proprio corpo, senza alcuna prospettiva di liberazione, se non la morte” (§ 14), il soggetto manifesta la volontà di porre fine alla propria esistenza “di dolore e sofferenza” o, perlomeno, di ridurre la durata della fase finale della malattia prima che la stessa determini l’insorgere di condizioni per lui insopportabili, precludendogli ogni forma di mobilità fisica e condannandolo alla dipendenza da cure terapeutiche che lo mantengano in vita. Nondimeno, i divieti a lui opposti dallo Stato di provenienza gli precludono un pieno esercizio del diritto all’autodeterminazione della propria morte, diritto che il ricorrente non può fisicamente esercitare senza l’assistenza di terzi in ragione dello stato di avanzamento della patologia da cui è affetto (§ 84). Chiamata a pronunciarsi sull’asserita violazione dell’art. 8 della Convenzione (§ 81), la Corte di Strasburgo procede ad un preliminare inquadramento della materia, soffermandosi sulla distinzione tra pratiche di suicidio medicalmente assistito (physician-assisted dying – PAD) e rifiuto o interruzione di terapie per il mantenimento in vita (refusal or withdrawal of life-sustaining interventions – RWI). Facendo proprie le definizioni utilizzate dagli esperti sentiti in argomento (§§ 44-63), i giudici di Strasburgo precisano che nella prima categoria rientrano le pratiche di suicidio assistito e l’eutanasia volontaria, ove praticati in un contesto regolamentato e con l’assistenza del personale sanitario; la seconda categoria ricomprende, invece, le ipotesi in cui il paziente stesso si sottragga o faccia richiesta di interrompere terapie di sostegno vitale o salvavita (quali, tra le altre, il supporto respiratorio del soggetto), secondo dinamiche idonee a portare al decesso dell’individuo. Passando alla trattazione nel merito della questione, la Corte Edu procede ad una comparazione delle disposizioni legislative adottate da 42 dei paesi membri del Consiglio d’Europa (§§ 58-63) e richiama la propria consolidata giurisprudenza in materia (§§ 122-131), quindi conclude rilevando che il bilanciamento degli interessi in gioco in ipotesi in cui, come nel caso di specie, vengano in considerazione questioni etiche o morali è rimesso, di principio, alla discrezionalità degli Stati (§ 139). Sebbene l’interesse del ricorrente ad accedere a pratiche di suicidio medicalmente assistito debba, allora, ritenersi intrinsecamente correlato al suo diritto al rispetto della vita privata – e ciò a maggior ragione ove si consideri la sua condizione di malato terminale e, così, la caratterizzazione delle pratiche PAD come unico mezzo per porre fine alle sue sofferenze – è ragionevole che, in esercizio della propria discrezionalità, le autorità nazionali ritengano preminenti politiche volte a preservare la salute di soggetti vulnerabili anche da azioni con cui gli stessi possano mettere in pericolo la propria vita (§§ 139-141), né fuoriesce dal descritto margine di apprezzamento concesso agli ordinamenti nazionali la scelta di criminalizzare il ricorso alle forme di suicidio assistito. La Corte esclude, allora, che nel caso di specie si configuri una violazione dell’art. 8 della Convenzione e ciò anche alla luce delle cure palliative offerte dallo Stato ungherese ai malati terminali, valida alternativa alle pratiche PAD funzionale alla riduzione della sofferenza e del dolore e, così, al miglioramento della qualità della vita del paziente, tutelato, nella propria dignità, anche al termine della propria esistenza (§§ 153-158). Da ultimo, pronunciandosi sulla paventata violazione dell’art. 14 della Convenzione in combinato disposto con l’art. 8, individuata dal ricorrente nel differente trattamento apprestato per la sua persona – nel senso della preclusione all’accesso a valide opzioni idonee ad anticipare il suo decesso – e per chi, invece, malato terminale, possa alleviare le proprie sofferenze rinunciando a terapie salvavita, la Corte di Strasburgo esclude la sussistenza di una qualsivoglia discriminazione. Condividendo quanto affermato dal governo ungherese, la Corte evidenzia l’impossibilità di sovrapporre la posizione del ricorrente a quella di un soggetto malato terminale la cui sopravvivenza dipende dalle cure cui è sottoposto; del pari, i giudici di Strasburgo individuano come sostanziali e ragionevoli le differenze tra le pratiche PAD ed i trattamenti RWI, insuscettibili di comparazione in quanto fondati su ragioni d’essere differenti e disciplinate in maniera differenziata, secondo scelte, ancora una volta, rimesse alla discrezionalità del legislatore nazionale (§§ 173-177). Si arriva, pertanto, alla conclusione per cui nel caso di specie non vi è violazione nemmeno dell’art. 14 della Convenzione, considerato congiuntamente all’art. 8. (Federica Alma)

Riferimenti bibliografici: M. Mariotti, L’interruzione dei trattamenti vitali per il minorenne: il caso Charlie Gard, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, p. 1546 ss.; E. Cipani, Interruzione del trattamento vitale e miglior interesse del minore: il caso Parfitt v. Regno Unito, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 1145 ss.; S. Prandi, Vita, morte, dignità: la disciplina belga in materia di eutanasia al vaglio della Corte Edu, in Riv. it. dir. proc. pen., 2023, p. 306 ss.

 

ART. 10 CEDU

C. eur. dir. uomo, Sez. III, 18 giugno 2024, Suprun e altri c. Russia

Libertà di informazione – divieto di accesso e di copia della documentazione storica relativa alle politiche di repressione attuate dall’Unione Sovietica – impatto delle preclusioni sulla ricerca, sulla pubblicazione e sulla precisa ed esatta divulgazione di documenti storici e sullo sviluppo del dibattito pubblico – violazione

Il caso di specie origina da cinque differenti ricorsi, riuniti dalla Corte di Strasburgo in un unico procedimento in ragione dei loro contenuti similari. Il primo ricorrente, capo del Dipartimento di storia russa dell’Università Federale Settentrionale della città di Arcangelo (Russia), ricorreva alla Corte Edu dopo essere stato condannato dalla Corte distrettuale dello Stato in primo grado, quindi dalla Corte Regionale in sede di appello, per aver raccolto, senza il consenso dei soggetti o dei loro eredi ed in assenza di una apposita autorizzazione, dati personali ed informazioni relative alla vita privata di venti individui, deportati e reinsediati forzosamente in colonie speciali da parte dell’Unione Sovietica negli anni Quaranta del Novecento. Le condotte oggetto di contestazione erano poste in essere dal ricorrente nell’ambito di un progetto di ricerca realizzato in collaborazione con la Croce Rossa Tedesca e la Società di Ricerca Storica dei Tedeschi provenienti dalla Russia (Historischer Forschungsverein der Deutschen aus Russland E.V.), funzionale alla realizzazione di un’opera che commemorasse le vittime delle deportazioni sovietiche di origine tedesca: per procedere alla redazione del libro, a soli scopi umanitari ed accademici – come precisato dal contratto concluso tra l’Università di Arcangelo e le organizzazioni non profit tedesche coinvolte –, erano esaminati oltre 8000 documenti custoditi presso gli archivi del Centro di Informazione della Polizia Regionale ed erano estratti ed inseriti in un apposito database i dati propri dei singoli individui interessati dalle politiche repressive, tra i quali il loro nome, la data ed il luogo di nascita, la loro professione, la data del decesso, la data ed il luogo di deportazione ed il periodo ed il luogo di insediamento forzoso. La seconda ricorrente, pronipote di un diplomatico svedese divenuto celebre per aver salvato la vita a decine di migliaia di ungheresi di religione ebraica alla fine della Seconda guerra mondiale, poi arrestato nel 1945 dal Servizio di Controspionaggio Federale, faceva ricorso alla Corte Edu dopo che si vedeva negare l’accesso alla documentazione relativa al parente scomparso, custodita presso l’Archivio centrale del Servizio per la sicurezza della Federazione Russa (FSB). Nell’intento di far luce sulle vicende inframurarie che avevano coinvolto il familiare, e, in particolare, sulle cause che avevano portato al suo decesso, così da poterne dar conto in una pubblicazione, la ricorrente domandava copia degli originali non censurati dei registri delle carceri russe di Lubyanka e Lefortovo e, con essi, dell’elenco di coloro ivi ristretti e dei contenuti dei loro interrogatori. Nonostante il rapporto di parentela vantato con il soggetto svedese e l’intento didattico-informativo che animava la ricerca, la richiesta di informazioni era rigettata poiché inevitabilmente correlata alla rivelazione di informazioni personali di terzi. Analogamente, il terzo ricorso era innescato da un divieto di copia o fotoriproduzione di atti processuali opposto dal Servizio per la sicurezza della Federazione Russa a tre ricercatrici. Alle ricorrenti, coinvolte nella realizzazione di un archivio online dedicato alla ricostruzione della storia della repressione posta in essere dal regime sovietico, era concesso di esaminare, per un tempo limitato, la documentazione storica conservata presso gli archivi della FSB di San Pietroburgo: avvedutesi dell’impossibilità di trascrivere integralmente quanto visionato nel ridotto arco temporale, le donne chiedevano di poter immortalare i contenuti o di poterne, perlomeno, ottenere una copia, ma la loro richiesta era respinta. In maniera non dissimile, il quarto ricorrente, studioso di storia specializzato nelle politiche realizzate dall’Unione Sovietica e, più nel dettaglio, nelle campagne di repressione etnica poste in essere dal Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD), lamentava l’impossibilità di visionare documentazione storica in originale o copie non censurate della stessa, funzionale alla redazione di un libro sulla c.d. “Operazione Harbin”. La domanda di accesso ad informazioni del ricorrente era, difatti, in plurime occasioni rigettata dall’Archivio centrale del Servizio per la sicurezza della Federazione Russa, che evidenziava che la documentazione richiesta relativa al dicastero NKVD era coperta dal segreto di Stato, potendo portare al disvelamento dell’identità di membri del Servizio di Controspionaggio Federale, nonché dei metodi dagli stessi utilizzati, e che comunque gli ulteriori documenti desiderati, ancorché non secretati, potevano essere concessi in copia ai soli soggetti interessati e riabilitati o ai loro parenti. Da ultimo, il quinto ricorso era presentato da un’organizzazione non governativa deputata alla ricerca ed alla documentazione dei crimini di guerra, delle violazioni dei diritti dell’uomo e degli abusi di potere posti in essere nel quadro della repressione politica sovietica. Al fine di costruire un sito internet dedicato al “Grande Terrore” realizzato dal regime sovietico nella regione della Carelia tra il 1937 ed il 1938, l’organizzazione chiedeva al Servizio per la sicurezza della Federazione Russa di accedere ai dossier dell’epoca, sì da poterne effettuare copie da pubblicare online, ma si vedeva negare l’accesso, consentito solamente ai soggetti interessati e riabilitati e ai loro parenti o a chi perseguisse scopi di protezione sociale. Ebbene, a seguito della limitazione della loro facoltà di accedere alle informazioni di caratura storica, i ricorrenti si rivolgono, tutti e ciascuno, alla Corte di Strasburgo, lamentando l’avvenuta violazione del loro diritto di ricevere informazioni, declinazione della libertà di espressione sancita dall’art. 10 della Convenzione (§ 69). Premessa l’esistenza della giurisdizione della Corte sui casi portati alla sua attenzione – trattandosi di violazioni asseritamente commesse prima del 16 settembre 2022 e, pertanto, in un momento in cui la Federazione Russa era ancora parte della Convenzione –, i giudici di Strasburgo evidenziano che la norma invocata non accorda, per se, all’individuo un diritto di accesso alle informazioni in possesso della pubblica autorità, né impone agli organi dello Stato di far conoscere al richiedente qualsivoglia documento da loro detenuto. Nondimeno, il riferito diritto di accesso e lo speculare dovere di disseminazione sorgono nelle ipotesi in cui accedere alla documentazione richiesta sia strumentale al pieno esercizio della libertà di espressione del singolo di cui all’art. 10, intesa nel senso di libertà di ricevere e rivelare informazioni ed idee (§§ 70-71): per determinare se nel singolo caso concreto debba essere accordata una tutela ex art. 10 all’individuo, la Corte fa richiamo ai principi enucleati nella pronuncia Magyar Helsinki Bizottság c. Ungheria ed individua la necessità di vagliare lo scopo della domanda di informazioni, la natura dell’informazione richiesta, il ruolo ricoperto dal richiedente e la disponibilità di quanto domandato (§§ 72-77). Attraverso questo percorso argomentativo la Corte Edu conclude, allora, nel senso dell’esistenza di una violazione dell’art. 10 della Convenzione in tutti i casi denunciati dai ricorrenti: ogni forma di interferenza che precluda in toto l’acquisizione di documenti o che escluda arbitrariamente la possibilità di effettuarne una copia configura una limitazione al pieno esercizio della libertà di espressione, che ostacola un passaggio preliminare essenziale per la ricerca e la pubblicazione storiografica e che impedisce, conseguentemente, il libero sviluppo del dibattito pubblico sulle politiche repressive attuate dall’Unione Sovietica (§§ 79-90). (Federica Alma)

Riferimenti bibliografici: E. Zuffada, La Corte Edu condanna la Russia per il divieto imposto ad un detenuto di ricevere libri e riviste, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 1052 ss.; M. Crippa, La violazione della libertà di stampa nell’ordinamento turco: ancora una condanna della Corte Edu per la custodia cautelare dei giornalisti di un quotidiano antigovernativo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 336 ss.