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26 Marzo 2025


Osservatorio Corte EDU: gennaio 2025

Selezione di pronunce rilevanti per il sistema penale



 

A cura di Francesco Zacché e Stefano Zirulia

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Maria Falcone (artt. 2 e 11 Cedu) e Virginia Oddi (artt. 6 e 8 Cedu).

 

In gennaio abbiamo selezionato pronunce relative a: suicidi in carcere (art. 2 Cedu); uso della forza potenzialmente letale da parte di agenti di polizia (art. 2 Cedu); presunzione di innocenza e comunicati stampa dell’autorità giudiziaria (art. 6 Cedu); limiti all’appellabilità della condanna (art. 6 Cedu); requisiti di precisione e completezza della motivazione della condanna (art. 6 Cedu); assoluzione con motivazione stigmatizzante della vittima (art. 8 Cedu); blocco stradale nell’ambito di manifestazione sindacale (art. 11 Cedu).

 

ART. 2 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 9 gennaio 2025, Petrosyan c. Armenia

Suicidio in carcere di soggetto affetto da disturbi mentali – obbligo di protezione della persona affidata alla custodia dello Stato – indagine inefficace – assenza di una spiegazione plausibile circa le cause del decesso – violazione

Il ricorso deciso dalla Quinta Sezione riguarda la morte del sig. Movsisyan, cittadino armeno deceduto mentre si trovava ristretto nel Centro di detenzione di Shushi, in esecuzione di una condanna per evasione dal servizio militare. Il sig. Movsisyan era stato arruolato nell’esercito nonostante le sue critiche condizioni di salute mentale e, dopo alcuni episodi di cattiva condotta e un tentativo di suicidio, era stato dispensato dal servizio militare e processato per essersene volontariamente sottratto e per aver compiuto atti di automutilazione a tal fine orientati. A distanza di pochi giorni dalla data del suo arresto, il sig. Movsisyan era stato rinvenuto, nella cella che condivideva con altri sette detenuti, appeso a un palo che sporgeva dalla finestra, con delle lenzuola avvolte intorno al collo. A seguito della morte del detenuto, venivano avviati alcuni procedimenti penali, nel corso dei quali l’autorità investigativa armena rifiutava la richiesta di partecipazione al procedimento avanzata dalla madre del sig. Movsisyan. Le prove raccolte, a parere degli investigatori, non dimostravano che la vittima fosse stata sottoposta a minacce, trattamenti crudeli, violenze fisiche o psicologiche, né da parte degli agenti del Centro di detenzione, né da parte degli altri detenuti, sicché la decisione finale era nel senso di ritenere che il sig. Movsisyan si fosse volontariamente e consapevolmente tolto la vita. In seguito a questi fatti, la madre del sig. Movsisyan adiva la Corte di Strasburgo lamentando che l’indagine avviata a seguito del decesso del figlio non fosse stata efficace, non avesse chiarito tutte le circostanze in cui era avvenuto il presunto gesto suicida e non fosse stata accessibile alla famiglia della vittima. Nella decisione del ricorso, la Corte ha preliminarmente rilevato che, nella sua giurisprudenza, è consolidato il principio secondo cui le persone in custodia si trovano in una posizione di vulnerabilità e sono affidate al controllo delle autorità dello Stato, che hanno il dovere di proteggerle (§108). Questo dovere si fa ancora più stringente laddove la persona in custodia sia affetta da un disturbo mentale. In tal caso, le autorità devono dimostrare particolare attenzione nel garantire condizioni detentive che corrispondano alle specifiche esigenze della persona derivanti dal suo stato di disabilità (§109). Inoltre, in tutti i casi in cui una persona sottoposta alla custodia dello Stato muoia o riporti delle lesioni, deve essere avviata un’indagine ufficiale adeguata, indipendente, imparziale e idonea a soddisfare standard minimi di efficacia (§113). Alla luce dei principi così delineati, la Corte ha ravvisato – in relazione al caso esaminato – una violazione dell’art. 2 CEDU, sia sotto il profilo procedurale, che sotto il profilo sostanziale. Sul piano procedurale, la Corte ha ritenuto che l’indagine svolta fosse stata gravemente carente. Mancava, infatti, una ricostruzione accurata delle circostanze in cui era avvenuto il decesso, nonché dell’arco temporale in cui si era svolta la vicenda contestata. Non era chiaro nemmeno se il sig. Movsisyan avesse ricevuto un primo soccorso adeguato (§145). Peraltro, il superficiale resoconto dell’accaduto si fondava esclusivamente sulle dichiarazioni contraddittorie degli agenti di polizia coinvolti, senza un’analisi di altre prove rilevanti, quali le testimonianze dei compagni di cella (§130). Appariva, inoltre, censurabile l’esclusione della ricorrente dal procedimento e il diniego espresso contro la sua richiesta di accesso agli atti d’indagine (§146). Sul piano sostanziale, la Corte ha rilevato la violazione del diritto alla vita in ragione dell’assenza di una spiegazione plausibile circa le cause della morte del sig. Movsisyan, riflesso di un’attività investigativa carente e svolta in assenza di qualsiasi controllo pubblico (§158). Infine, in considerazione dell’assenza nel diritto interno di un rimedio volto a far valere il mancato rispetto degli obblighi convenzionali (§176), la Corte ha accertato anche la violazione dell’art. 13 CEDU. (Maria Falcone)

Riferimenti bibliografici: C.M.E. Mistrorigo, Infermità mentale e rischio suicidario in carcere, in Riv. it. dir. proc. pen., 2024, 3; F.E. Manfrin, Violazione degli obblighi di protezione della vita e d’indagine: un recente caso di “frontiera” in materia di art. 2 CEDU, in Riv. it. dir. proc. pen., 2023, 2.

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 16 gennaio 2025, Ghaoui c. Francia

Invalidità permanente a seguito di uso della forza da parte di un agente di polizia – indagine efficace – azione necessaria di autodifesa – non violazione

Il caso deciso dalla Quinta Sezione riguarda l’uso della forza da parte di un agente della squadra cinofila di Tours nell’ambito di un controllo di polizia notturno, nel corso del quale il ricorrente veniva attinto da uno sparo che gli cagionava una paraplegia totale degli arti inferiori. Alla vista degli agenti di polizia, il ricorrente saliva sulla propria auto per darsi alla fuga e proseguiva la sua corsa nonostante il tentativo dei uno dei brigadieri presenti di fermarlo, posizionandosi davanti al veicolo. Un altro dei poliziotti, temendo il possibile investimento del collega, esplodeva due colpi di pistola in direzione del fuggitivo. Uno dei due colpi attraversava il finestrino anteriore dell’auto e colpiva il richiedente alla scapola destra, causandogli una lesione del midollo spinale. Si apriva, quindi, un’indagine volta ad accertare le eventuali responsabilità degli agenti di polizia per la condotta tenuta e per le lesioni cagionate al richiedente. In esito a un complesso iter giudiziario, sviluppatosi in diverse fasi, le posizioni degli agenti venivano archiviate, poiché l’autorità giudicante riteneva che avessero agito in stato di legittima difesa. Il ricorrente adiva allora la Corte di Strasburgo, invocando una violazione dell’art. 2 CEDU. La Corte ha confermato preliminarmente l’applicabilità della disposizione citata al caso di specie, rilevando che, pur in assenza di un decesso, l’uso della forza contro il ricorrente avrebbe comunque potuto avere conseguenze letali (§68). Nel merito, invece, la Corte ha valutato la qualità delle indagini svolte per accertare le responsabilità degli agenti, interrogandosi altresì sul carattere “assolutamente necessario” della condotta dagli stessi tenuta. Ai fini del volet procedurale dell’art. 2 CEDU, la Corte ha ritenuto che l’indagine fosse stata avviata tempestivamente, assicurando la partecipazione al procedimento del ricorrente. Gli agenti di polizia coinvolti erano stati ascoltati rapidamente e separatamente, in modo tale da evitare il rischio che potessero influenzarsi reciprocamente (§87), e, nel complesso, l’azione investigativa era stata condotta in modo indipendente (§90). A nulla rileva che non siano state ricostruite alcune circostanze degli eventi occorsi, in quanto l’obbligo procedurale discendente dall’art. 2 CEDU è un obbligo di mezzi e non di risultato. Alla luce del contesto di concitazione in cui si era svolta la vicenda contestata e dell’assenza di testimoni terzi rispetto alle parti, la Corte ha affermato che non sia possibile muovere un rimprovero alle autorità statali per non essere riuscite a restituire un quadro ancor più dettagliato degli eventi (§94). Appurato che l’indagine era stata svolta in modo efficace, in relazione al volet sostanziale dell’art. 2 CEDU, la Corte ha ritenuto che l’uso della forza fosse stato strettamente necessario e giustificato dalla convinzione di dover agire per autodifesa. Il controllo di polizia non era pianificato, sicché gli agenti erano stati obbligati a reagire nell’arco di pochi secondi e senza una preparazione preliminare (§107). A parere della Corte, non sarebbe, dunque, possibile sostituire la sua valutazione a quella dell’agente che, nella concitazione del momento, è stato costretto a reagire a una situazione che percepiva essere pericolosa per la vita del collega (§109). Non si ravvisa, dunque, nessuna violazione dell’art. 2 CEDU. (Maria Falcone)

Riferimenti bibliografici: I. Giugni, Esercizio legittimo della forza e obbligo di formazione degli agenti statali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2022, 3; C. Mostardini, Sull’uso letale della forza da parte degli agenti statali: tra obblighi convenzionali e prospettive nazionali, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 4.

 

ART. 6 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 7 gennaio 2025, Yoncheva c. Bulgaria

Equità processuale – comunicato stampa della Procura lesivo della presunzione d’innocenza – violazione

La ricorrente, durante il proprio mandato come deputata al Parlamento, si espone con rivelazioni su pratiche di corruzione e abuso d’ufficio all’interno del partito al potere in Bulgaria, a seguito delle quali tre membri di detto partito la denunciano per riciclaggio (§§ 5-6). Persa l’immunità parlamentare, la Procura specializzata in materia di criminalità organizzata avvia un’indagine a carico della ricorrente e rilascia, poco tempo dopo, un comunicato stampa, di grande diffusione mediatica, dal contenuto preciso e dettagliato sui presunti fatti illeciti a lei imputati, con la descrizione puntuale degli atti d’indagine svolti (§ 9). In ragione dell’immunità parlamentare opposta dal Parlamento europeo, al quale, nel frattempo, la ricorrente era stata eletta, il procedimento è ancora pendente. La ricorrente si rivolge alla Corte edu per lamentare la lesione del proprio diritto a essere presunta innocente sino a che la colpevolezza non sia legalmente accertata, reputato leso, come nel caso nel caso di specie, in presenza di dichiarazioni ufficiali che veicolino un giudizio sulla colpevolezza dell’accusato (§ 39). Nell’accogliere il ricorso, la Corte edu richiama la propria giurisprudenza e la direttiva (UE) 2016/343 e ricorda il distinguo tra le decisioni e le dichiarazioni che riflettano un apprezzamento sulla colpevolezza e quelle che si limitino, invece, a descrivere uno mero “sospetto”, così bilanciandosi con la libertà di espressione e di diffusione delle informazioni tutelata dall’art. 10 Cedu (§§ 39-40). La Corte edu, pertanto, giudica che il comunicato stampa diffuso dalla Procura non si sia limitato a riportare notizie inerenti al procedimento penale a carico della ricorrente ma abbia leso la presunzione d’innocenza protetta dall’art. 6 § 2 Cedu, rispetto alla quale non si rinviene nell’ordinamento interno un ricorso effettivo, invece richiesto dall’art. 13 Cedu (§§ 43-50). (Virginia Oddi)

Riferimenti bibliografici: P. Concolino, Processo mediatico e tutela della presunzione di innocenza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2023, p.  1655 ss.

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 21 gennaio 2025, Çağil c. Turchia

Equità processuale – impossibilità di appellare una sentenza di condanna a una pena pecuniaria inferiore al limite di legge – non violazione

Il ricorrente, a seguito di una rissa in un bar con altre tre persone, viene condannato per minacce, diffamazione e lesioni, al pagamento di tre pene pecuniarie. La condanna, in base alla normativa nazionale, diviene immediatamente irrevocabile, in quanto il valore di queste è inferiore alla soglia di legge prevista per appellare la sentenza (§§ 6-7). Il ricorrente propone ricorso alla Corte costituzionale lamentando che tale divieto lede il diritto di accesso al giudice ma lo stesso ricorso è dichiarato inammissibile sul presupposto che la Costituzione turca non prevede il diritto di proporre appello contro ogni sentenza (§§ 8-10). Il ricorrente si rivolge, allora, alla Corte edu per vedere tutelato il proprio diritto protetto dall’art. 6 § 1 Cedu. La Corte ripercorre gli elementi essenziali costitutivi del diritto di accesso al giudice, consolidati nella propria giurisprudenza. In particolare, ribadisce che tale diritto non è assoluto: gli Stati possono prevedere vagli di ammissibilità alle corti superiori, purché questi non limitino l’esercizio del diritto al punto di comprometterne l’essenza stessa; inoltre, devono perseguire un obiettivo legittimo e deve esserci una ragionevole proporzionalità tra i mezzi impiegati e l'obiettivo perseguito (§ 43). Dopo aver ricordato che il diritto a un doppio grado di giudizio è tutelato dall’art. 2 Prot. 7, del quale la Turchia non era parte al momento della proposizione del ricorso, la Corte sottopone il caso di specie a un test sulla proporzionalità del divieto in discorso. Dopo aver chiarito che la natura “minore” dell’illecito e il grado minimo di severità della sanzione si bilanciano con detto divieto, la Corte conclude per la non violazione dell’art. 6 § 1 Cedu, in ragione della possibilità, per il ricorrente, di accedere a determinate salvaguardie procedurali previste per il pubblico ministero, il quale può, invece, appellare contro tali decisioni in base a una procedura stabilita in via pretoria (§ 60). (Virginia Oddi)

Riferimenti bibliografici: G. Caneschi, L’inammissibilità delle impugnazioni: dalla Corte di Strasburgo argini antiformalistici a tutela dell’equità processuale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2023, p. 799 ss.

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 21 gennaio 2025, Jóhannes Baldursson e Birkir Kristinssonn c. Islanda

Equità processuale – imparzialità del giudice – diritto ad una motivazione precisa ed esplicita rispetto alle doglianze sollevate – violazione

I ricorrenti, in seguito alla crisi finanziaria del 2008, sono indagati per frode, abuso di posizione dominante e manipolazione del mercato, in qualità, uno, di dirigente di una banca, l’altro, in quanto proprietario di una società di intermediazione finanziaria alla quale, la prima, aveva concesso un prestito considerevole. I due, poi, avevano concordato verbalmente, senza il consenso della banca, una put option sulle azioni di questa, garantendo che tutti i rischi di mercato delle azioni sarebbero rimasti a carico della banca, così comportando la distorsione del mercato azionario e la manipolazione del prezzo delle azioni della banca (§§ 16-18). I due ricorrenti, terminati i procedimenti penali interni, si rivolgono alla Corte edu per lamentare plurime asserite violazioni dell’equità processuale, tutelata dall’art. 6 § 1 Cedu. La prima doglianza riguarda l’assenza di imparzialità della Corte Suprema, in quanto il collegio giudicante era composto, per la maggior parte, da giudici interessati dalle perdite economiche causate dalle operazioni finanziarie illecite. La Corte, esaminate le singole specifiche situazioni, rileva, tuttavia, che il linguaggio utilizzato in sentenza non mostra pregiudizi o particolari interessi propri coinvolti dalla vicenda e che, in assenza di prove del contrario, l’imparzialità del giudice dev’essere presunta (§§ 71-72). In secondo luogo, viene lamentato che la Corte Suprema aveva proceduto ad una valutazione delle prove orali assunte in primo grado, senza effettuare una nuova audizione, contrariamente a quanto imposto dalla legge nazionale. La Corte edu, nel negare la sussistenza di una violazione, ricorda che il diritto ad un equo processo protetto dall’art. 6 § 1 Cedu non impone automaticamente l’obbligo di riascoltare tutte le testimonianze in appello, ma ciò dipende dalle circostanze del caso e dalla tutela degli interessi dell’imputato nel procedimento (§§1 106-107). Nel caso di specie, la Corte Suprema aveva confermato la sentenza di condanna, riducendone la pena finale, sulla base, principalmente, delle prove documentali; peraltro, i ricorrenti non avevano formulato una puntuale richiesta di procedere con una nuova audizione dei testimoni. Per quanto attiene alla terza doglianza, la Corte edu ha ravvisato la violazione dell’art. 6 § 1, in ragione dell’assenza, nella sentenza della Corte Suprema, di una precisa motivazione circa la questione sollevata da parte di uno dei ricorrenti relativa all’attendibilità e la credibilità di uno dei testimoni “chiave”. La Corte edu sottolinea che il peso delle dichiarazioni, assunte in contraddittorio in primo grado, sulla condanna per abuso di posizione dominante e le specifiche e non infondate questioni sollevate dal ricorrente, impongono al giudice di rispondere e motivare adeguatamente la scelta. Nel caso di specie, il silenzio del collegio giudicante non permette di determinare se le avesse respinte o semplicemente ignorate, comportando così la violazione del diritto in parola (§§ 125-126). Infine, in ragione della riapertura del procedimento dopo la decisione del procuratore di interromperlo (§§ 131-132), la Corte edu esclude che il mutamento di status da imputato, a testimone, a, nuovamente, imputato, abbia comportato una lesione dell’art. 6 § 1, in quanto le dichiarazioni assunte in qualità di testimone, oltre a essere state espunte dal processo da parte dei giudici, erano coperte dal più generale diritto a non autoincriminarsi (§§ 147-148). (Virginia Oddi)

Riferimenti bibliografici: V. Sirello, Questioni in tema di imparzialità oggettiva del giudice, in Riv. it. dir. proc. pen., 2024, p. 1249 ss.

 

ART. 8 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 14 gennaio 2025, N.Ö. c. Turchia

Rispetto della vita privata – imputato assolto con motivazione stigmatizzante della vittima – violazione

La ricorrente, dentista in servizio presso un ospedale, presenta una denuncia contro il proprio superiore per una asserita violenza sessuale avvenuta un anno prima. Tra le dichiarazioni, afferma che si era sentita impossibilitata a presentare una denuncia immediatamente dopo l'evento perché aveva temuto ritorsioni e si era sentita al contempo indifesa e consapevole degli atteggiamenti sociali e culturali prevalenti nei confronti delle vittime di atti sessuali e molestie, allegando anche una perizia psichiatrica dalla quale risultava che aveva iniziato a soffrire, in seguito al fatto in questione, di disturbo post-traumatico da stress e depressione (§§ 7-8). L’imputato, a conclusione del procedimento di primo e secondo grado, viene assolto, sulla base dell’insufficienza di prove per dimostrare la violenza, nonché del ritardo con il quale la ricorrente era andata a farsi assistere medicalmente e aveva, poi, presentato la denuncia (§ 34). La ricorrente propone, allora, ricorso alla Corte edu, lamentando la violazione del diritto alla tutela della vita privata, protetto dall’art. 8 Cedu. La Corte, nell’accogliere il ricorso, ricorda, preliminarmente, il dovere degli Stati di proteggere gli individui, non solo dalle intromissioni nella sfera privata da parte di organi pubblici, ma anche nelle relazioni tra loro, attraverso la predisposizione di una tutela penale e di indagini sufficientemente approfondite e obiettive (§§ 45-47). È quest’ultimo punto che la Corte europea sottopone a scrutinio: di fronte a due versioni inconciliabili, i giudici non hanno proceduto a un’analisi approfondita della credibilità delle dichiarazioni e delle circostanze del caso, né hanno esaminato con diligenza e accuratezza le testimonianze rese, limitandosi a riportarle senza trarre conclusioni significative sulla loro attendibilità. Inoltre, la Corte osserva che, sebbene fossero stati acquisiti referti medici e una perizia psicologica, il tribunale non aveva discusso i risultati né aveva valutato se questi avrebbero potuto supportare la versione della ricorrente (§§ 49-51). L’ultimo elemento che la Corte sottolinea, particolarmente stigmatizzante, risiede nel peso attribuito dal tribunale al ritardo nella presentazione della denuncia, pur a fronte dell’assenza di un obbligo di denuncia immediata, così disvelando un giudizio sulla credibilità della ricorrente basato su stereotipi e preconcetti su come una vittima di violenza sessuale dovrebbe comportarsi, senza considerare adeguatamente il contesto del caso di un presunto abuso sul posto di lavoro da parte di un superiore gerarchico (§ 52). (Virginia Oddi)

 

ART. 11 CEDU

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 16 gennaio 2025, Bodson e altri c. Belgio

Ostruzione del traffico stradale nell’ambito di una manifestazione sindacale – libertà di riunione pacifica – interferenza necessaria in una società democratica – non violazione

Il caso deciso dalla Prima Sezione trae origine dal ricorso presentato da alcuni cittadini belgi condannati per ostruzione dolosa del traffico su un’autostrada pubblica situata nei pressi di Liège. Il blocco dell’autostrada perdurava per circa cinque ore e veniva realizzato nel contesto di uno sciopero sindacale indetto dalla Fédération générale du travail de Belgique (FGTB), uno dei due maggiori sindacati dei lavoratori presenti in Belgio. Nel corso della protesta, alcuni manifestanti erigevano delle barricate sull’autostrada e appiccavano degli incendi, causando cospicui danni alla carreggiata. I ricorrenti venivano identificati tra i manifestanti attraverso un filmato televisivo e venivano processati con l’accusa di ostruzione dolosa del traffico stradale. In esito al giudizio, il Tribunale di Liegi dichiarava i ricorrenti colpevoli del reato contestato, ritenendo che il fatto non potesse dirsi giustificato dall’esercizio del diritto di sciopero e che la circostanza che l’azione fosse stata intrapresa nell’ambito di una manifestazione sindacale non valesse a escludere l’elemento soggettivo del reato loro ascritto. Le pene venivano commisurate in un mese di reclusione e 600 euro di multa per alcuni, quindici giorni di reclusione e 300 euro di multa per altri, con sospensione della pena detentiva per la durata di tre anni. I ricorrenti proponevano appello avverso la condanna, ma la decisione di secondo grado confermava la precedente, fatta eccezione per una rideterminazione in senso peggiorativo dell’ammontare della multa inflitta, per cifre comprese tra 2100 e 1200 euro. La vicenda proseguiva con un ricorso in Cassazione, che veniva, tuttavia, dichiarato infondato. La questione veniva, quindi, portata all’attenzione della Corte di Strasburgo, sulla base dell’assunto secondo cui la condanna avrebbe rappresentato un’ingiustificata interferenza con l’esercizio del diritto di riunione pacifica sancito dall’art. 11 CEDU. La Corte ha preliminarmente osservato che l’art. 11 CEDU tutela soltanto la libertà di “riunione pacifica”, cui non possono essere ricondotte riunioni dal carattere violento o i cui partecipanti incitino alla violenza o neghino in altro modo le fondamenta della società democratica (§79). In tal senso, la norma citata risulta applicabile al caso di specie, poiché la manifestazione cui presero parte i ricorrenti era nata come pacifica, pur essendo stata, poi, caratterizzata da azioni violente. In particolare, gli stessi ricorrenti non presero parte alle azioni estremiste e la circostanza che altre persone avessero commesso atti riprovevoli nel corso della manifestazione non può impedire il riconoscimento, in loro favore, della libertà di riunione (§80). A parere della Corte, dunque, la condanna per ostruzione dolosa del traffico stradale rappresenta un’interferenza con il diritto dei ricorrenti discendente dall’art. 11 CEDU (§83). Tale interferenza, tuttavia, non si traduce in una violazione della Convenzione, in quanto risulta prescritta dalla legge per uno degli scopi enunciati al secondo paragrafo della disposizione citata. La base giuridica dell’interferenza è rappresentata dalla disposizione del codice penale belga che incrimina l’ostruzione dolosa del traffico stradale, al fine di assicurare il mantenimento dell’ordine pubblico e la tutela dei diritti e delle libertà altrui, finalità, queste, conformi al dettato dell’art. 11, para. 2, CEDU. A parere della Corte, inoltre, tale interferenza risulta “necessaria in una società democratica”. Perché sia definita tale, non è sufficiente che la riunione rechi disturbo alla vita quotidiana, come accade nel caso di un normale blocco del traffico stradale, poiché le autorità statali devono assicurare un certo margine di tolleranza dei disturbi recati dall’esercizio della libertà di riunione (§90). Tuttavia, nel caso di specie, l’azione dei manifestanti aveva causato un’ostruzione del traffico particolarmente significativa, durata circa cinque ore e da cui era derivato un ingorgo di circa quattrocento chilometri, che aveva impedito il passaggio di qualsiasi veicolo, anche di quelli di emergenza (§97). L’azione aveva assunto, perciò, caratteri di spiccata pericolosità, pur non essendo giustificata dall’esigenza di rispondere a un evento improvviso ovvero direttamente espressiva di disapprovazione (§102). L’ostruzione del traffico non presentava nessun legame con le rivendicazioni oggetto della protesta e nemmeno risultava l’unico mezzo disponibile per far valere le proprie rivendicazioni (§102). Alla luce di queste considerazioni, l’interferenza alla libertà di riunione consistita nella condanna per ostruzione del traffico stradale è stata ritenuta dalla Corte proporzionata e “necessaria in una società democratica” ai sensi dell’art. 11 CEDU, di cui non viene ravvisata, quindi, nessuna violazione.

Riferimenti bibliografici: C. Cataneo, L’intervento dell’autorità di pubblica sicurezza al fine di disperdere una riunione pacifica non autorizzata integra una violazione dell’art. 11 CEDU, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, 1; P. Bernardoni, Libertà di riunione ed affiliazione ad un’associazione illegale: per la Corte di Strasburgo il limite è la prevedibilità della condanna, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1.