Trib. Torino, sent. 4 giugno 2025, n. 2356, Pres. Gallo, giud. Rocci, Maccari
Una recente sentenza di merito del Tribunale di Torino, che ha assolto dal delitto di maltrattamenti l’uomo condannato per lesioni gravissime ai danni della moglie, ha suscitato vivaci reazioni lungo la consueta geodetica della giustizia mediatica. La vis polemica di entrambe le parti non ha consentito di cogliere alcuni passaggi della decisione, tanto interessanti quanto problematici. Particolare attenzione avrebbe meritato soprattutto l'utilizzo di cadenze argomentative – in parte in contrasto con gli indirizzi della Suprema Corte – che hanno la forma delle massime di esperienza e potrebbero anche rispecchiare il senso comune ma – come dimostrano le stesse reazioni delle piazze virtuali – sono troppo deboli.
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1. La geodetica della giustizia mediatica.
Un imputato di lesioni aggravate ai danni della moglie e di maltrattamenti ai danni della stessa donna, del figlio e della suocera viene assolto dalla seconda contestazione e condannato a 18 mesi di reclusione con la sospensione della pena condizionata tra l’altro al pagamento della provvisionale di 20.000 euro. Tanto è bastato per suscitare una tempesta di reazioni polarizzate ma di pari acuta indignazione: indignazione, in punta di “forca” (per così dire) per l’applicazione di una pena lontana dal massimo edittale, indignazione per l’assoluzione – nientemeno ! – di un imputato accusato di un reato “da codice rosso” (ma è legale? si chiederebbe Cetto La Qualunque, il caricaturale personaggio interpretato dall’attore Antonio Albanese); indignazione, in punta di diritto, per l’indignazione degli indignati che non contemplano la possibilità che un processo relativo ad un reato “di genere” possa concludersi con un esito diverso dalla condanna alla sanzione più severa.
La solita “geodetica” della giustizia mediatica tra “colpevolisti” e “garantisti”.
Intendiamoci, a scanso di equivoci.
È del tutto ovvio notare che, in qualunque processo, l’assoluzione (come la condanna) non può mai essere “scandalosa”, in sé. È il “mistero del processo”, che non ha uno scopo, se non la formazione del giudizio: giudicare, non assolvere, non punire. A suscitare sconcerto, quindi, non può (non dovrebbe) essere mai lo scarto tra il risultato – assolutorio o meno – e le attese delle parti, degli stakeholder e della società civile secondo la percezione – spesso autopoietica – dei media. Alla lettura del dispositivo, il presidente pronuncia l’erga omnes se il pubblico varca «la sottile barriera di legno»[1] che lo divide dal giudice con un contengo tale da intimidire, provocare o comunque rumoroso[2]. Nell’arena a-topica del processo mediatico questo diaframma non opera e il “pubblico” non accetta deroghe al verdetto già scritto nelle “singolarità” della coscienza sociale. Del resto, com’è stato osservato, il processo mediatico non ha una «funzione conoscitiva bensì una funzione monitoria» di denuncia, di scomunica[3], indisponibile ad esiti diversi dall’esorcismo rimozionale nei confronti dell’autore[4]: punire, non giudicare, nemmeno assolvere.
Tutto questo – ma ancora non decolliamo dalla dimensione dell’ovvio – non vuol dire affatto che una sentenza non possa essere così scorretta “in punto di diritto” da suscitare sorpresa e persino indignare. Lo stesso vale per l’erroneità “in punto di fatto”, che, tuttavia, sfugge alla possibilità di analisi senza conoscere bene gli atti del processo e il processo stesso, come richiedeva, nella ispirazione originaria, oramai pressoché tramontata, il codice di procedura penale.
Gli indignati “garantisti”, quindi, hanno ragione per molteplici ragioni: perché la gogna “social” cui è stato sottoposto l’estensore della decisione (del quale si chiede a furore di web, persino, la “rimozione”) è ingiusta e incivile, perché non esistono reati – per quanto esecrabili – nei quali la presunzione (se non la certezza) della colpevolezza possa sostituire quella di innocenza, perché la motivazione dell’assoluzione, nonostante qualche criticità, non sembra presentare elementi intrinseci di grossolana incongruenza.
Ciò posto, piuttosto che salmodiare ulteriori giudizi a prescindere o congetturare ipotesi inverificabili è meglio dare voce al testo della decisione per poi formulare qualche osservazione come se fosse un documento “trasparente” rispetto al giudizio dal quale scaturisce (che ovviamente non è possibile conoscere), con tutti i limiti e i rischi che questo vincolo metodologico implica.
2. La decisione sui maltrattamenti.
La vicenda sembra avere un innesco che – con interpretazioni radicalmente diverse – l’autore e la vittima condividono. Di conseguenza, anche il Tribunale muove dalla circostanza che la moglie dell’imputato esternò – in un modo che la motivazione definisce “brutale” – la crisi della relazione con un sms senza un’interlocuzione personale, diretta, intima con il partner dopo 17 anni di convivenza/matrimonio – «felice», secondo l’uomo – e due figli. Dopo questa “comunicazione” – racconta la parte civile – «Si è scatenato l’inferno, praticamente, perché ogni motivo, ogni discussione, una carta per terra piuttosto … che non avevo tirato l’acqua del bagno … era una discussione continua per qualsiasi cosa». Il Collegio annota che: «Il modo di esporre va considerato con attenzione: l’esordio è decisamente drammatizzante (“si è scatenato l'inferno”), ma ad esso fa seguito la rievocazione di accadimenti irrilevanti, e precisamente di semplici discussioni domestiche. La parola scelta dalla parte civile è infatti “discussione”, e la discussione, all’interno di un nucleo familiare che si sta sfaldando, non è nulla di anomalo o penalmente illecito, ma costituisce l’ovvia normalità». Prova ne sia un esempio riferito dalla vittima che nel dibattimento aveva dichiarato che il marito le diceva «che ero una puttana, che avevo rovinato la famiglia, che per 17 anni lui aveva dato l'anima a questa famiglia, che io non guadagnavo un cazzo, che avrei fatto la fame a vivere con i ragazzi...che non ero una brava mamma». «Pare evidente – è la valutazione del Collegio – che queste frasi devono essere calate nel loro specifico contesto: l’amarezza per la dissoluzione della comunità domestica era umanamente comprensibile; era pienamente legittimo, poi, che l’imputato rivendicasse il contributo da lui dato alla famiglia; le frasi finali, al di là dello scurrile linguaggio adoperato, semplicemente esprimevano il disappunto e la preoccupazione per il sicuro peggioramento delle condizioni economiche a cui la famiglia sarebbe andata incontro»; ad avviso del Tribunale, quindi, l’imputato è «sincero e persuasivo» quando afferma: è «successo che è volata qualche parolaccia perché stava rovinando un matrimonio felice e una famiglia felice».
«In conclusione – chiosa la Sentenza – si è in presenza non del reato di cui all’art. 572 c.p., ma soltanto della normale (ancorché concitata) dialettica innescata da una decisione sicuramente traumatica. Le discussioni si protrassero per un certo tempo: l’imputato rimproverò alla moglie (e come dargli torto?) di non avere avuto la sensibilità di parlargli a tu per tu. Le chiese poi di poter disporre di un congruo periodo di tempo per trasferirsi altrove».
Quest’ultimo brano desta qualche perplessità. What’s wrong? Ecco – proprio come annota la motivazione – «Il modo di esporre va considerato con attenzione». La domanda retorica («e come dargli torto?») è ridondante.
La ridondanza è problematica perché la frase resta in “sospeso”[5], così come la motivazione permane in bilico tra l’affermazione che le condotte poste in essere dall’imputato non erano maltrattamenti, una serpeggiante “impressione” di sfiducia nell’inattendibilità della persona offesa e l’underground di una giustificazione dei comportamenti oggetto di contestazione impalpabilmente connessa al retroterra del “riconoscibile” (ri)sentimento dell’uomo scaturito dalla rottura della relazione, dal modo in cui era stata comunicata, dal tradimento che forse era “maturato” prima dell’interruzione del rapporto.
Sotto questo profilo, la giurisprudenza della Suprema Corte – con la quale la motivazione non si confronta esplicitamente – è costante nel senso di escludere sotto molteplici profili che la fellonia dell’autore o della vittima assumano un particolare rilievo nei giudizi sui maltrattamenti.
In linea di principio, il tradimento della persona offesa non giustifica in alcun modo le condotte maltrattanti dell’autore[6] né rende di per sé illegittimo il disconoscimento delle attenuanti generiche[7].
Allo stesso modo è stato escluso che possa considerarsi di per sé inattendibile il “maltrattato” per lo “spirito di rivalsa” che condizionerebbe in senso sfavorevole al fedifrago la narrazione dei fatti[8], salvo che emergano concreti e specifici elementi per ritenere il contrario (come nel caso della donna abbia ammesso di aver esagerato gli eventi al fine di “liberarsi” del marito)[9]. Spetta, quindi, al giudice farsi carico di valutare se rancore e desiderio di vendetta possano aver alterato la narrazione della parte civile ma né l’uno nell’altro sentimento giustificano conclusioni aprioristiche sull’attendibilità della vittima che può ben essere credibile anche se animata da sentimenti ostili nei confronti dell’autore[10].
In altri termini, che la relazione coniugale o di convivenza perda il connotato dell’esclusività è una circostanza che può assumere rilievo nella valutazione della deposizione della persona maltrattata ma non regge regole di giudizio o massime di esperienza in un senso o nell’altro.
Più in generale, la Suprema Corte mostra di comprendere bene che l’“ermeneutica” dei maltrattamenti non può prescindere dalla considerazione del contesto. I ruoli di vittima e carnefice talvolta sono intercambiabili e richiede grande prudenza l’apprezzamento dell’avvicendarsi di condotte che – proprio come nel caso della decisione torinese – possono corrispondere ai quadri di vita del diritto penale e altre che esulano dalle qualificazioni penalistiche ma non sono meno impattanti sotto il profilo emotivo, affettivo, relazionale.
Sono di difficile valutazione, soprattutto i comportamenti rabbiosi, gli atteggiamenti aggressivi, le liti furiose, che non trascendono il piano verbale[11]. Modulazioni casistiche a parte, è costante l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità che la reazione della vittima o un contesto di reciproca conflittualità non escludono la condotta di maltrattamenti[12]: il delitto dell’art. 572 c.p. è configurabile anche nel caso in cui violenze e vessazioni siano poste in essere dai conviventi in danno reciproco gli uni degli altri, poiché la legge penale non prevede «spazi di impunità in relazione ad improprie forme di autotutela» e «non consente alcuna “compensazione” fra condotte penalmente rilevanti poste in essere vicendevolmente»[13]. L’atteggiamento reattivo della persona offesa di per sé non esclude la configurabilità del reato. È pero usuale una qualche asimmetria tra la gravità delle condotte dell’autore e quelle della vittima. Ove «le violenze, le offese e le umiliazioni siano reciproche, con un grado di gravità ed intensità sostanzialmente equivalente, il giudice sarà chiamato a vagliare con attenzione la possibilità di individuare nella fattispecie concreta un maltrattante, intenzionato a imporre un regime di vita persecutorio ed umiliante, e un maltrattato, che quel regime subisce»[14].
In queste circostanze, la Suprema Corte prende anche in considerazione la legittimità di una valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa riferibili a una molteplicità di episodi succedutesi nel tempo, soprattutto se con cadenze cronologiche non recenti, in quanto un eventuale giudizio di inattendibilità su alcune circostanze non necessariamente inficia la credibilità degli altri segmenti del racconto, non essendo sempre e necessariamente ravvisabile, in tale ipotesi, «un’interferenza fattuale e logica tra le parti del discorso»[15].
3. La decisione sulle lesioni.
Se per i maltrattamenti il punto di partenza dell’argomentazione sono le modalità comunicative della “liquidazione” unilaterale dell’esperienza coniugale e il sospetto che il tradimento fosse precedente alla rottura del rapporto, il capo della decisione relativo all’art. 582 c.p. muove dalla considerazione che «il malessere e l'insofferenza dell’imputato aumentarono dopo che il nuovo compagno della parte civile ebbe preso il suo posto (“La signora ha riferito che i problemi sono iniziati quando lei ha iniziato a frequentare il nuovo compagno in modo più assiduo”): sapere che un estraneo trascorreva del tempo nella casa che per quasi vent’anni era stata la sua dimora familiare, e si sostituiva a lui nel rapporto con i figli, fece sì che l’autore si sentisse vittima di un torto. È in questo sentimento, molto umano e comprensibile per chiunque, che va cercata una delle due chiavi di lettura di quel che accadde» la sera in cui si consumò l’episodio delle lesioni. La causa scatenante, sottaciuta nella deposizione della persona offesa (che, ad avviso del Collegio, «ha parlato a lungo dei prodromi … concentrandosi su dettagli senza importanza e omettendo di spiegare le ragioni dell’accaduto») emergerebbe con chiarezza nella «ben diversa, e molto più lineare» deposizione dell’imputato: «Qualche giorno prima mio figlio mi dà delle notizie che rimango senza parole: atti osceni in casa, che lui ha visto con questa persona non convivente in casa»; atti osceni – puntualizza l’uomo incalzato dal Presidente – tra la signora e «il suo nuovo compagno, tanto che mio figlio piangendo mi chiama dicendo che mi deve parlare, e io vado lo stesso pomeriggio per sentire che cosa aveva da dirmi. Mi ha raccontato che in più di un’occasione ha visto sua mamma in vesti nude con questa persona nell'alloggio, precisamente in camera da letto, soprattutto una notte, che lui si alza per dare la buonanotte alla madre e la trova in flagranza di....... Io ho poi successivamente chiesto alla signora un colloquio insieme ai ragazzi e alla madre e al padre. Perché la madre e il padre? Perché la madre e il padre avevano comunque una certa importanza a livello familiare, erano presenti sempre, e di bocca loro avevano detto che assolutamente in quell’alloggio non sarebbe entrato più nessuno, se non io, perché non volevano che i ragazzi comunque avessero problematiche con altri conviventi». La plateale trasgressione di questo “impegno”, culminata negli atti «sessuali della madre con il nuovo compagno» – secondo l’opinione dell’estensore – è una «cosa che in termini oggettivi al di là e a prescindere dal soggettivo fastidio che poteva aver dato all'imputato era educativamente inaccettabile». «Queste considerazioni hanno grande importanza ai fini di una corretta valutazione: infatti, se si descrive l’accesso d’ira dell’imputato in data 28 luglio 2022 come un qualcosa di immotivato e inspiegabile (ciò che la parte civile ha fatto nel corso del suo esame), ecco che l’uomo finirà per apparire come un pericoloso squilibrato, capace di ripetere indefinitamente e imprevedibilmente gesti violenti. Ma se al contrario lo sfogo d’ira dell’imputato viene correttamente inserito nel suo contesto, un contesto che tenga conto delle cause (segnatamente di comportamenti non ineccepibili della stessa vittima), ecco che quello sfogo potrà essere ricondotto alla logica delle relazioni umane, e si potrà ragionevolmente concludere che esso costituisce un unicum legato alle contingenze sopra descritte: tutto questo ha diretta influenza sulla valutazione della capacità a delinquere, sul riconoscimento delle attenuanti generiche, sulla quantificazione della pena e sulla concessione della sospensione condizionale».
Il brano è densissimo di spunti di riflessione che rischiano di essere letti in modo fuorviante – com’è accaduto alla gran parte dei web-commentatori di fede forcaiola – se non si precisa che il Tribunale chiarisce con vigore e nettezza che il pugno fu un «gesto volontario» e, quindi, non possono trovare applicazione gli artt. 52 e 54, né un’altra causa di giustificazione.
L’ampia digressione sui motivi del delitto in questo caso (diversamente da quanto emerge per l’accusa di maltrattamenti) non resta in sospeso né pencola tra categorie diverse della responsabilità penale ma è – in termini espliciti – funzionale alle conclusioni sul rapporto tra capacità a delinquere e trattamento sanzionatorio: misura della pena, giudizio di comparazione delle circostanze, sospensione condizionale (che viene comunque condizionata al compimento di un percorso ex art. 165 c.p. e al pagamento della provvisionale di ventimila euro).
Se ne deve dedurre che il Collegio ha colto con chiarezza la gravità dell’aggressione perpetrata ai danni della donna ma – questa sembra essere la prevalente preoccupazione espositiva che emerge dalla motivazione – ritiene che l’episodio non rifletta un modo di essere violento e prevaricatore dell’uomo, visceralmente scosso dalla reazione del figlio dinanzi all’attività sessuale della madre con il nuovo compagno (di conseguenza non esiste un pericolo di reiterazione del reato e, quindi, un ostacolo insuperabile alla concessione della sospensione condizionale).
Si tratta di valutazioni di merito che solo nell’eventuale prosecuzione del processo dinanzi al giudice di appello potranno essere sindacate. È solo quella la sede per verificare la tenuta delle prognosi sullo spessore criminale dell’uomo e il corrispondente fondamento “in punto di fatto”.
4. L’ambiguità delle massime di esperienza tra id quod plerumque accidit e senso comune
Senza simulare l’appello, possiamo svolgere, invece, qualche considerazione su due passaggi della sentenza.
Il primo riguarda la considerazione sia dell’“impegno” che i genitori della vittima avrebbero concordato con il marito che «assolutamente in quell’alloggio non sarebbe entrato più nessuno» sia delle modalità – gli atti «sessuali della madre con il nuovo compagno» – con la quale questo “vincolo” sarebbe stato trasgredito: «cosa che – ad avviso dell’estensore – in termini oggettivi, al di là e a prescindere dal soggettivo fastidio che poteva aver dato all'imputato, era educativamente inaccettabile».
L’altro riguarda l’affermazione della possibilità di ricondurre alla luce della logica delle relazioni umane lo sfogo d’ira leggendolo alla luce delle cause (segnatamente i comportamenti non ineccepibili della vittima).
In sintesi: secondo un accordo tra il marito e i suoceri, in quella che era stata la casa coniugale non sarebbe entrato più nessuno (uomo/maschio), la donna aveva violato l’“intesa” intrattenendo relazioni sessuali con il nuovo compagno nella camera da letto (ma senza l’accortezza di impedire che i figli comunque assistessero ai rapporti), questo comportamento della vittima non ineccepibile era in termini oggettivi educativamente inaccettabile e nella logica delle relazioni umane “assocerebbe” all’ira dell’uomo, altrimenti incomprensibile, una giustificazione o perlomeno una spiegazione che attenua il giudizio sulla capacità a delinquere.
What’s wrong?
La motivazione sembra evocare massime di esperienza ma in realtà non impiega «giudizi ipotetici a contenuto generale, indipendenti dal caso concreto, fondati su ripetute esperienze». Più che «regole desunte dall’id quod plerumque accidit, consolidate e affidabili, riconosciute come tali da chiunque e generalmente accettate» (secondo la definizione ricorrente nella giurisprudenza di legittimità)[16] la sentenza utilizza (pretese o meno) astrazioni del senso comune, dell’opinione corrente.
Bisognerebbe chiedere agli esperti (per. es. di statistica, sociologia e psicologia sociale) se le “credenze” assunte dalla decisione torinese rispecchino i valori della comunità di riferimento. In mancanza di questi dati, è difficile, se non impossibile, stabilire se il giudice abbia espresso nella sentenza il riflesso del senso comune, oppure abbia proiettato sul senso comune sue convinzioni personali.
In tanta incertezza, una considerazione però è sicura. A prescindere dalle questioni – che in altre sedi sono state già ampiamente sviluppate – sui limiti della nozione e della possibilità di utilizzo nel sistema penale[17], le massime di esperienza sono caratterizzate da una «statuto epistemico … per definizione incerto, debole»[18], anche sfuggente. Queste caratteristiche impongono nel loro utilizzo di adottare un’opera quanto mai rigorosa «di investigazione e verifica»[19], che – si può chiosare – deve esprimersi anche con un linguaggio puntuale, sobrio, sorvegliato. È «un’impresa ardua» che richiede tra l’altro «la messa al bando di inutili divagazioni … di argomentazioni estranee alle ragioni della decisione, di giudizi morali»[20].
[1] S.Satta, Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994, p. 24.
[2] S.Satta, Il mistero del processo, cit., p. 34.
[3] V. Manes, Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, il Mulino, Bologna, 2022, pp. 22-23.
[4] G.Losappio, Dal diritto penale rimozionale alla rimozione del diritto penale, in Il diritto penale nel guado tra libertà, sicurezza e populismo, a cura di G. Losappio – G. Manca – A. Vichinkeski Teixeira, Pacini Giuridica, Roma, 2022, p. 13.
[5] La criticità non sussisterebbe (o sarebbe molto più blanda) se la locuzione fosse stata utilizzata per spiegare l’applicazione dell’attenuante dell’art. 62, n. 5 c.p., il risultato del giudizio di comparazione delle circostanze o manifestare la sempre auspicabile regressione del giudice verso il “pre-giudizio” in vista del suo superamento (se necessario). Su quest’ultimo punto cfr. Bifulco, Prefazione, in A. Garapon, Bien juger. Essai sur le rituel judiciarie, trad, it., Cortina editore, Milano, 2007, XXXIV. «Beliefs can survive potent logical or empirical challenges. They can survive and even be bolstered by evidence that most uncommitted observers would agree logically demands some weakening of such beliefs. They can even survive the total destruction of their original evidential bases»: L.Ross – C.A.Anderson, Shortcomings in the attribution process: On the origins and maintenance of erroneous social assessments, in Judgment under Uncertainty: Heuristics and Biases, a cura a D.Kahneman – P.Slovic – A.Tversky, Cambridge University press, I ed., 1982, p. 149. Per una decisa affermazione del ruolo della ragione il fondamento logico degli atteggiamenti istintivi A.Sen, The Idea of Justice, trad. it di L.Vanni, Oscar Mondadori, Milano, 2011, p. 64. L’A. (ivi) significativamente aggiunge: la «via della ragione non esclude la considerazione delle reazioni istintive, né ignora il valore di conoscenza che spesso ci offrono le nostre reazioni psicologiche. E tutto questo va nella direzione di evitare che i nostri istinti abbiano, in assenza di verifiche, la parola ultima e incondizionata».
[6] Cass. pen., sez. III, 20/06/2023, (ud. 20/06/2023, dep. 23/11/2023), n.47020; Cass. pen. sez. I, 26/01/2022, (ud. 26/01/2022, dep. 17/02/2022), n.5582; Cass. pen. sez. VI, 14/12/2021, (ud. 14/12/2021, dep. 24/01/2022), n.2627
[7] Cass. pen. sez. III, 04/05/2021, (ud. 04/05/2021, dep. 10/06/2021), n.22833.
[8] Cass. pen. sez. III, 18/04/2025, (ud. 18/04/2025, dep. 10/06/2025), n.21858.
[9] Cass. pen. sez. VI, 24/01/2023, (ud. 24/01/2023, dep. 28/02/2023), n.8719.
[10] Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 11/07/2025) 29/07/2025, n. 27728.
[11] Cass. pen. sez. III, 08/01/2025, (ud. 08/01/2025, dep. 04/03/2025), n.8881.
[12] Cfr. Cass. Pen., 24.01.2020, n. 12026; Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 24/01/2020) 14/04/2020, n. 12026.
[13] Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 26/02/2025) 12/09/2025, n. 30579. In termini: Cass. Pen., Sez. III, 20.03.2018, n. 46043; Cass. Pen., 24.01.2020, n. 12026.
[14] Cfr. Cass. Pen., 24.01.2020, n. 12026; Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 24/01/2020) 14/04/2020, n. 12026.
[15] Cass. pen., Sez. III, Sent., (data ud. 18/04/2025) 10/06/2025, n. 21858).
[16] Cass. pen., Sez. IV, 19 novembre 2015 (dep. 2016), n. 12478, in CED Cass. n. 267811-15.
[17] Cfr. R. Palavera, Scienza e senso comune nel diritto penale. Il ricorso problematico a massime di esperienza circa la costruzione della fattispecie tipica, Edizioni ETS, Pisa, 2017 (con amplia ricognizione bibliografica cui si rinvia per l’ulteriore approfondimento del tema)
[18] G. Canzio, Le massime di esperienza e il ragionamento probatorio, in Discrimen, 1 luglio 2019, p. 7.
[19] G. Canzio, Le massime di esperienza e il ragionamento probatorio, cit., p. 7.
[20] R. Bricchetti, Il modello di motivazione della sentenza di merito e il più rigoroso regime della specificità e della inammissibilità dell’atto di impugnazione, in questa Rivista, 16 dicembre 2019, p. 3.