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  Scheda  
09 Luglio 2025


Prima il guadagno poi il paziente: quando il medico, a scopo di lucro, non informa correttamente


1. Come l’autore di un delitto di sangue.

Prima il paziente e poi il guadagno. È un vecchio aforisma. Purtroppo, i termini di questo vecchio aforisma vengono talvolta capovolti e quindi prima il guadagno e poi (eventualmente) il paziente.

Qual è il destino giudiziario che attende il medico che capovolge i termini di questo vecchio aforisma?

Prendiamo in considerazione l’ipotesi del medico che pratica un trattamento:

  • dando intenzionalmente al paziente una scorretta informazione, cioè tacendo dati significativi o comunicando dati falsi
  • a scopo di lucro
  • senza finalità terapeutica.

 

Quale destino giudiziario?

La risposta è semplice: lo stesso destino giudiziario che attende l’autore di un delitto di sangue. Proprio così: è come se il medico avesse commesso un delitto di sangue. Si ricorre talvolta oralmente anche all’immagine del medico che non ha in mano un bisturi, ma un pugnale.

In un noto caso è stato giudizialmente accertato che ai pazienti erano state date informazioni lacunose e fuorvianti, che gli interventi erano stati eseguiti per lucrare i rimborsi del servizio sanitario e non avevano indicazione chirurgica. La Cassazione ha affermato che «l’intervento chirurgico, se non è posto in essere con finalità terapeutica, non costituisce più un atto medico e la condotta operatoria non si differenzia, perciò, in tal caso, da quella di chiunque leda in modo consapevole e volontario l'integrità fisica di una persona; la finalità terapeutica connota la stessa oggettività dell'atto, prima ancora della sua soggettività»[1]. C’è stata quindi condanna per il reato di lesioni personali dolose. E con riguardo ai pazienti che sono morti in conseguenza degli interventi c’è stata condanna per omicidio preterintenzionale.

 

Tuttavia, ad analizzare ancora più a fondo la giurisprudenza ci si rende conto che non è l’assenza di finalità terapeutica ciò che mette in mano al medico il pugnale, ma è la presenza di un’informazione intenzionalmente scorretta, che ha sullo sfondo lo scopo di lucro. Può anche esserci la finalità terapeutica, ma questo scenario la cancella. La brucia. La riduce in cenere. Può anche esserci l’indicazione chirurgica, ma non basta per rimettere in mano il bisturi al medico.

Al riguardo è emblematico un caso, spesso citato in letteratura, d’intervento di correzione di miopia. Un paziente chiede un intervento tipo lasik (cheratectomia intrastromale) e il medico si dichiara disposto a eseguire questo intervento, sapendo però che non può eseguirlo per l’assenza dei necessari strumenti nella struttura privata dove opera. Sia per la visita pre-operatoria che per l’intervento viene pattuito un compenso. Il medico esegue quindi un intervento tipo prk (cheratectomia fotorefrattiva), disponibile nella struttura, ma diverso da quello voluto dal paziente. Dall’intervento deriva l’indebolimento permanente del senso della vista, per le alterazioni corneali centrali cicatriziali. La Cassazione ha ritenuto configurabile il delitto di lesioni personali dolose[2]. E questo anche a prescindere dalla finalità terapeutica, che era comunque perseguita dal medico.

 

2. Come un truffatore.

Ma non basta. Riflettiamo solo un attimo. Che cosa fa in fondo il medico quando a scopo di lucro dà al paziente un’informazione scorretta?

Certamente: usa la menzogna per procurarsi un profitto a danno del paziente.

Quale altro destino giudiziario quindi lo attende? È chiaro: anche quello di essere trattato come un truffatore, perché sta commettendo una vera e propria truffa.

Un caso emblematico è quello del “metodo stamina”. Secondo questo metodo le cellule staminali mesenchimali si sarebbero potute convertire in neuroni e quindi utilizzare per la cura di malattie neurodegenerative. Il g.i.p. di Brescia applica la misura gli arresti domiciliari agli indagati per truffa a danno di alcuni pazienti, che avevano aderito al metodo proposto e che avevano pagato migliaia o anche decine di migliaia di euro. Il tribunale del riesame invece revoca la misura, motivando che ai pazienti era stata data un’informazione vera, perché realmente il materiale acquisito era inviato al centro di trattamento delle cellule e perché ai pazienti era chiaro che le proposte di nuovi metodi si presentavano pur sempre come possibili alternative sperimentali e dall’esito assolutamente incerto. L’ordinanza del tribunale del riesame viene annullata su ricorso del procuratore della Repubblica. La Cassazione afferma che a nulla vale informare i pazienti correttamente sul metodo, se poi non si informano correttamente anche sull’efficacia e che in assenza di evidenze di efficacia, ai pazienti erano state quantomeno prospettate chances di guarigione o di miglioramento, altrimenti non avrebbero versato quelle somme[3].

Ma quale destino giudiziario se, in assenza di evidenze di efficacia, il medico si dice comunque convinto dell’efficacia e quindi protesta la sua buona fede?

Lo stesso destino giudiziario: la responsabilità per truffa. Questa è stata, ad es., configurata a carico di un medico di medicina generale che, dietro corrispettivo, praticava ai pazienti cure alternative per diverse patologie, quali dermatosi, tumori e depressione. Cure di tipo nutraceutico, che è termine ottenuto dalla combinazione dei termini nutritivo e farmaceutico. Quindi essenzialmente una dieta, integratori e qualche farmaco, che il medico prescriveva a sé stesso per ottenerlo gratuitamente dal Servizio Sanitario. Al medico viene applicata la misura degli arresti domiciliari. Cerca di liberarsi dalla misura sostenendo appunto la sua buona fede, la sua personale convinzione circa l’efficacia della cura alternativa che praticava. Ma non ci riesce, perché la Cassazione afferma che ciò che è determinante è che i pazienti abbiano aderito non per una loro libera scelta, ma a seguito di azione induttiva del medico e di un altro indagato, che hanno approfittato della particolare debolezza psicologica di persone affette da patologie anche gravi per suscitare speranze, sicuramente illusorie[4].

In termini generali viene da chiedersi: come fa un medico che deontologicamente dovrebbe servirsi del metodo scientifico a essere convinto dell’efficacia di un trattamento se mancano evidenze scientifiche? Quantomeno ha qualche dubbio sull’efficacia e quindi, anche se non in malafede, non può comunque dirsi convinto. 

Si è anche affermata la sussistenza del delitto di frode in commercio (515 c.p.) per avere pubblicizzato per un centro estetico prodotti cosmetici diversi da quelli poi effettivamente utilizzati. Si è al riguardo sostenuto che la situazione non è diversa da quella del ristoratore che dichiari nella lista dei piatti proposti pietanze diverse da quelle poi utilizzate per la preparazione dei piatti (ad es. carne o pesce congelato invece che fresco).[5]

 

3. Come un commerciante a caccia di clienti.

La non corretta informazione può essere data anche prima che si sia instaurata la relazione terapeutica. Può essere data quindi a pazienti potenziali. Questo può succedere quando si fa pubblicità non corretta per attrarre a usufruire di prestazioni sanitarie.

Quale destino quando la pubblicità è scorretta?

Un destino disciplinare, in quanto si tratta di condotta che viola il codice di deontologia medica.

Il discorso è di sicuro interesse, già in termini generali, anche per i penalisti. Il pubblico ministero è infatti titolare, ex art. 38 d.p.r. 5 aprile 1950 n. 221, dell’azione disciplinare davanti all’Ordine dei Medici e il cui esercizio è discrezionale. Gli avvocati possono essere coinvolti durante il procedimento disciplinare in quanto difensori. I giudici possono segnalare al pubblico ministero fatti loro risultanti e ipotizzanti un illecito disciplinare. O anche possono disporre l’invio di atti all’Ordine, che può poi promuovere d’ufficio l’azione disciplinare. I casi sono frequenti, basti solo pensare, ad es., oltre ai casi d’informazione non corretta al paziente (art. 33 c.d.m.) a quelli di carente compilazione della cartella clinica (art. 26 c.d.m.).

Con riguardo alla pubblicità sanitaria, la stessa è corretta quando passa indenne attraverso le forche caudine dell’art. 56 c.d.m. L’attuale testo dell’articolo è uno specchio riassuntivo di quanto esigono le leggi in materia: art. 2 l. 248/06 (c.d. decreto Bersani), art. 4 dpr. 137/12 (regolamento sugli ordinamenti professionali), art.1 co. 525 l. 148/18 (legge di bilancio 2019) e artt. 3 e 4 d. lgs. 145/07 sulla pubblicità ingannevole.

L’art. 56 qualifica, sia nella rubrica che nel testo, la pubblicità sanitaria come informativa. Individua chiaramente l’obiettivo della pubblicità: una scelta libera e consapevole dei destinatari. Indica poi quali caratteri deve avere la pubblicità e cioè veritiera, corretta e funzionale all’oggetto dell’informazione, mai equivoca, ingannevole e denigratoria. Consente la pubblicità comparativa con altri medici, se però contiene indicatori clinici misurabili, certi e condivisi dalla comunità scientifica e che ne consentano un confronto non ingannevole.

Qual è con riguardo alla pubblicità l’illecito disciplinare più frequente?

È necessario al riguardo analizzare il massimario delle decisioni della Commissione Centrale per gli esercenti le professioni sanitarie (CCEPS), la c.d. Corte d’Appello delle decisioni degli Ordini dei Medici emesse all’esito del procedimento disciplinare.

Dall’analisi ci rendiamo conto che la casistica più frequente è quella della pubblicità promozionale, non informativa. La distinzione è così posta dalla CCEPS: la pubblicità informativa – l’unica consentita ai professionisti in materia sanitaria – si limita ad illustrare le caratteristiche dell’attività professionale, risultando scevra dall’obiettivo di attrarre i consumatori attraverso tecniche di comunicazione commerciale, mentre quella promozionale è tesa a fidelizzare la clientela attraverso tecniche persuasive[6].

In materia è l’odontoiatria che ruba la scena. Per fare qualche esempio, è stata ritenuta promozionale la pubblicità contenente messaggi quali: “Sconto del valore di 400 euro. Radiografia panoramica e preventivo non ti costano niente[7]. O anche “GRATIS, offerta valida per il primo appuntamento. Visita + Preventivo + Panoramica Digitale, protesi mobile su impianti da € 3.500, impianto + corona in ceramica da € 950[8]. Promozionale anche la promessa di “vincere un buono cure del valore di € 5.000[9]”.

 

Gli sconti sono ammessi, ma solo se parametrati a un prezzo base[10]. E l’offerta di prestazioni gratuite solo se sempre attuabile. È stato infatti ritenuto che il messaggio pubblicitario “Prima visita, diagnosi, radiografia e preventivo gratuiti” non corrispondesse a ciò che accade realmente e quindi non fosse veridica. Non sempre, infatti, è sufficiente un esame obiettivo e una radiografia, vi sono casi nei quali sono necessari rilievo di impronte, analisi dei modelli, setup diagnostici, tac delle mascellari, sondaggi, schede parodontali ecc.[11]

La scure della CCEPS cade anche sulla pubblicità comparativa, che è ritenuta ingannevole se non c’è avallo di dati scientifici e oggettivi e va a discapito di altri centri operanti nel territorio, ad es., “Il Centro odontostomatologico …. è l’unico nel territorio …. a effettuare in poche ore impianti dentali anche di complete arcate[12]. O quando è denigratoria ed evocante un’immagine della categoria non corrispondente al vero, ad es., porre a confronto l’immagine del dentista che ama la Porsche e lo studio che invece investe i propri guadagni per l’acquisto di una tac 3 d[13].

 

Che fare nel dubbio che un messaggio pubblicitario non sia corretto?

La risposta della CCEPS è: astenersi[14]. È una risposta in linea con quanto esige la giurisprudenza penale in materia di errore di diritto. Nulla vieta tuttavia a chi è nel dubbio di chiedere un parere preventivo al Consiglio dell’Ordine, così da non rischiare l’illecito[15].

Contro le decisioni della CCEPS si può ricorrere per Cassazione. Ecco un caso. Una pubblicità per uno studio odontoiatrico contiene il riferimento a una tariffa minima nazionale, che era stata abrogata. L’Ordine dei Medici irroga al direttore sanitario dello studio la sanzione della sospensione di un mese dall’esercizio della professione. La CCEPS conferma la decisione, asserendo la mancanza di trasparenza del messaggio, attesa l’abrogazione di quella tariffa minima. La Cassazione annulla la decisione della CCEPS, sostenendo che il richiamo a quella tariffa ha carattere puramente orientativo e in quanto tale non confligge con la trasparenza e veridicità della pubblicità[16].

 

4. Come un medico di significato profondo.

Si possono quindi applicare sanzioni penali e disciplinari.

Ma la sanzione esprime sempre un fallimento: quello di non avere saputo trasmettere prima all’autore dell’illecito l’importanza del valore, che ha invece leso commettendo l’illecito.

E allora chiediamoci: il codice di deontologia medica va usato come un contenitore di doveri ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge?

Se viene usato così può creare resistenza o addirittura rifiuto. E quindi non andrebbe essere usato così, soprattutto da chi è all’alba della professione.

Se ne può proporre un altro uso: quello di contenitore di utensili per scolpire l’integrità del medico a valori immortali della professione. È come se sulla prima pagina non ci fosse scritto “Codice di deontologia medica” ma “Scalpelli e martelli dell’integrità del medico”. E all’integrità segue l’autostima, come il giorno segue alla notte. L’autostima del medico che sa di non avere nulla da temere e nulla da nascondere, perché dà il meglio di sé, comunque vadano le cose.

Quell’autostima che è propria del medico e che avvertono anche i pazienti. Quell’autostima che dà un significato profondo all’esistenza di un medico.

 

 

[1] Cass. Sez. I, 14776-18, est. Sandrini

[2] Cass. Sez. IV, 21799-10, est. Massafra

[3] Cass. Sez. II, 46118-15, est. Pellegrino

[4] Cass. Sez. II, 5053-21, est. Agostinacchio

[5] Cass. Sez. III, 21732-03, est. Franco

[6] CCEPS, 67, 2 ott. 19 mass. 131

[7] CCEPS, ult. cit.

[8] Id, 66, 16 mar. 18 mass. 69

[9] Id., 103, 27 nov. 2019 mass. 150

[10] Id., 10, 22 gen 20 mass. 80

[11] Id., 49, 16 mar. 18 mass. 79

[12] Id., 4, 30 gen 19 mass. 121

[13] Id., 64 e 65, 16 mar. 18 mass. 68

[14] Id., 67, 2 ott. 19 mass. 136

[15] Id., 105, 27 nov. 19 mass. 137

[16] Cass. Civ. Sez. VI, 11816-12, ric. Rigamonti