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08 Maggio 2023


La Cassazione sul discrimen tra stalking aggravato dalla relazione affettiva e maltrattamenti contro conviventi: decisiva la cessazione o meno della convivenza

Cass. pen., Sez. VI, ud. 15 settembre 2022 (dep. 3 marzo 2023), n. 9187, Pres. Fidelbo, Rel. Paola Di Nicola Travaglini



*Contributo pubblicato nel fascicolo n. 5/2023.

 

1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Corte di cassazione, tornando su una strada già largamente battuta dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, traccia con maggior rigore la linea di demarcazione tra i delitti di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, affrontando la problematica ipotesi in cui le condotte vessatorie di soggetti precedentemente legati da una relazione affettiva siano realizzate dopo la cessazione della loro coabitazione e conferendo rilievo dirimente alla sussistenza – o meno – di una effettiva situazione di convivenza.

 

2. Preliminarmente, per meglio contestualizzare la questione affrontata dal giudice di legittimità, pare necessario ripercorrere sommariamente i tristi avvenimenti che ne sono sfondo e premessa.

La vicenda giudiziaria trae origine dagli atteggiamenti maltrattanti posti in essere da un partner nei confronti della compagna convivente. A partire dal marzo 2017, infatti, l’imputato si dimostra violento, copre di insulti la donna, la minaccia, la colpisce con schiaffi e pugni ed in un’occasione tenta addirittura di strangolarla, non curandosi né della presenza del figlio minorenne, costretto ad assistere alle angherie, né dello stato interessato della compagna, incinta di due gemelli.  

Il quadro di soggiogazione in cui è confinata la vittima non termina nemmeno al cessare della convivenza con il proprio carnefice: nel maggio 2019, quando la donna si trasferisce a vivere altrove con i figli – prima dalla madre, quindi da sola –, l’uomo inizia a controllarla, si presenta reiteratamente sul suo luogo di lavoro e le invia messaggi minatori ed ingiuriosi, usandole violenza fisica in tre occasioni. Da ultimo, nella tarda serata del 7 febbraio 2020, l’imputato si reca presso l’abitazione della – ormai – ex compagna e, dopo averla percossa, tenta di defenestrarla, non riuscendo nel proprio intento solo a causa dell’intervento della propria nuova partner, che lo aveva seguito in questa ultima spedizione punitiva.

Chiamati a pronunciarsi sui fatti, i giudici di merito di primo e di secondo grado concludono configurando in capo all’imputato una responsabilità per il delitto di cui all’art. 572 c.p. (maltrattamenti contro familiari o conviventi), aggravato ai sensi del secondo comma del citato articolo, poiché commesso in presenza dei figli minorenni ed in danno di una donna in stato di gravidanza.

Più nel dettaglio, il Tribunale di Reggio Emilia e la Corte d’appello di Bologna qualificano come maltrattamenti sia le condotte tenute dall’imputato durante il periodo di convivenza con la vittima, sia i comportamenti adottati dallo stesso dopo il maggio 2019, a convivenza cessata, valorizzando il permanere, anche a fronte di dinamiche di coppia non più realizzate in una casa comune, di una situazione di condivisa genitorialità tra i soggetti[1].

 

3. La sentenza pronunciata dalla Corte d’appello di Bologna è impugnata dall’imputato, che deduce, quali motivi di ricorso, vizio di motivazione, per contraddittorietà e manifesta illogicità della pronuncia in relazione al rigetto della richiesta di escussione della nuova compagna dell’imputato, presente ai fatti del 7 febbraio 2020[2], e vizio di omessa motivazione, con riferimento al mancato esame della richiesta di escludere o circostanziare temporalmente sino al maggio 2019 l’aggravante della presenza dei figli minorenni[3].

La Corte di Cassazione, rigettati entrambi i motivi, il primo perché manifestamente infondato[4], il secondo perché reiterativo e tardivo[5], solleva d’ufficio una questione di diritto, altra ed ulteriore rispetto a quanto dedotto dalla difesa nel ricorso, e si domanda: qual è la corretta qualificazione giuridica del fatto-reato commesso dall’imputato nel segmento temporale successivo alla cessazione della relazione con la persona offesa? E, in un’ottica di più ampio respiro, qual è il discrimine tra il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. ed il delitto di atti persecutori aggravati ex art. 612-bis co. 2 c.p., se, in costanza di una situazione di condivisa genitorialità, due soggetti smettono di convivere?

 

4. Procedere ad una lineare perimetrazione dell’ambito di operatività delle due disposizioni citate è operazione assai complessa.

Se da un lato, infatti, è obiettivo che «l'oggettività giuridica delle due fattispecie di cui agli artt. 572 e 612-bis c.p. è diversa e differenti sono i soggetti attivi e passivi delle due condotte illecite»[6], d’altro canto, prendendo le distanze dal profilo puramente formale e volgendo lo sguardo alla prassi, i contorni delle due fattispecie tracciati e modificati nel tempo dal legislatore paiono sfocarsi ed i contenuti e la struttura dei reati avvicinarsi progressivamente, sino a sovrapporsi, determinando l’inevitabile disorientamento[7] dell’interprete.

Nel panorama descritto assume, pertanto, preminente rilevanza l’attività nomofilattica della Corte di Cassazione, che guida l’esercizio ermeneutico del giudice, indica il modus agendi che costui deve adottare in sede di accertamento e consente – finalmente ed idealmente – di addivenire al corretto inquadramento giuridico della situazione di fatto, problematicamente collocata al confine tra le due fattispecie delittuose.

 

4.1. Prima di dedicarsi all’analitica disamina di quanto oggetto degli articoli 572 e 612-bis co. 2 c.p., il Supremo Collegio si sofferma sui criteri cardine che devono presidiare l’esegesi dei testi di legge in materia penale, richiamando i passaggi argomentativi della sentenza 14 maggio 2021, n. 98[8], con cui la Corte costituzionale, misurandosi con una doglianza di diritto processuale[9], ha affermato il ruolo fondamentale che il divieto di analogia in malam partem e la natura tassativa delle fattispecie incriminatrici ricoprono nel nostro ordinamento.

I fatti da cui la pronuncia del Giudice delle Leggi prende le mosse non sono del tutto dissimili dalla vicenda a sfondo della sentenza qui in commento: nelle dinamiche di una coppia legata sentimentalmente da qualche mese, il partner si dimostra abusivo nei confronti della propria compagna, non convivente ma adusa a frequentare la casa e la famiglia di lui nei fine settimana.

Il giudice a quo procede con rito immediato nei confronti dell’imputato per il reato di atti persecutori ex art. 612-bis c.p., aggravato ai sensi del secondo comma, contestando al soggetto di aver determinato, con reiterate condotte di minaccia, di molestia e di violenza fisica, l’insorgere nella compagna di «un perdurante e grave stato di ansia e paura», «ingenerandole un fondato motivo [recte: timore] per la propria incolumità al punto di costringerla, altresì, ad alterare le abitudini di vita»[10]. Al termine dell’istruttoria dibattimentale e prima di ritirarsi in camera di consiglio, però, il rimettente riqualifica il fatto, riconducendo l’agire criminoso dell’uomo nell’alveo della diversa e più grave fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti verso familiari o conviventi, configurata dall’art. 572 c.p.[11].

È in questa sede che il Tribunale ordinario di Torre Annunziata ravvisa l’illegittimità costituzionale dell’art. 521 c.p.p., rilevando che la mancata previsione della facoltà dell’imputato di chiedere al giudice del dibattimento di procedere nelle forme del rito abbreviato a seguito della riqualificazione giuridica in peius del fatto contestato costituisce potenziale violazione del diritto di difesa e dei principi del giusto processo, di cui agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione[12].    

La Consulta respinge la questione così prospettata sul piano dell’ammissibilità, constatando gravi lacune motivazionali nell’ordinanza di rimessione ed evidenziando, in particolare, il mancato confronto, in sede di modifica peggiorativa del capo di imputazione, del rimettente «con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo», corollario del principio di legalità penale, espressamente sancito a livello di fonti primarie dall’art. 14 delle Preleggi ed implicitamente riconosciuto dall’art. 1 c.p. e dall’art. 25 co. 2 della Costituzione[13].

È questo il punto cruciale della pronuncia della Corte costituzionale: il divieto di applicazione analogica «non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali, e costituisce, così, un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo». Insomma, la norma incriminatrice non può applicarsi a casi concreti che esulino dai possibili significati linguistici della previsione legale: in virtù del principio di legalità in materia penale, difatti, «è il testo della legge – non già la sua successiva interpretazione ad opera della giurisprudenza – che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore»[14].

 

4.2. Ripresi e ribaditi i principi di diritto che fungono da argine all’attività ermeneutica della giurisprudenza ordinaria, e ricusato, conseguentemente, ogni possibile esito creativo che stravolga la littera legis, vanificando qualsivoglia garanzia per il singolo cittadino[15], la Corte di Cassazione si dedica all’analisi contenutistica del reato di maltrattamenti e del delitto di atti persecutori aggravati, nel tentativo di delimitarne, con esattezza, la portata.

Muovendo dall’art. 572 c.p., la fattispecie attualmente rubricata “Maltrattamenti contro familiari o conviventi” è il frutto di una progressiva espansione – inizialmente realizzata solo a livello interpretativo[16], quindi anche sotto il profilo legislativo[17] – della salvaguardia offerta dall’ordinamento alla persona offesa da sistematiche condotte vessatorie che, abusando della sua posizione di soggezione, generino in lei «una condizione di vita intollerabile, umiliante o degradante»[18]. La disposizione, difatti, a recepimento dei graduali ma imponenti mutamenti sociali e culturali che hanno investito, nel tempo, il concetto e l’istituzione familiare, affianca ed equipara alla «persona della famiglia», già potenziale soggetto attivo o passivo del reato nell’originaria previsione normativa, colui che sia «comunque convivente». Si configura, così, una ampia tutela dei rapporti affettivi interpersonali, consentita dall’assimilazione alla “famiglia legittima fondata sul matrimonio” della “famiglia di fatto”, intesa quale «consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo»[19].

Punto focale della fattispecie incriminatrice è da individuarsi – come evidenzia il giudice di legittimità – nel sintagma «persona (…) comunque convivente», il cui significato non trova precisa delineazione né nel codice penale né nel codice di procedura penale, ma può farsi utilmente discendere dalla giurisprudenza costituzionale e dalle disposizioni di legge che, ovunque collocate nel nostro ordinamento, lo richiamano. Se già il Giudice delle Leggi riconosce il rapporto di convivenza come meritevole di protezione giuridica, in quanto collocabile nella platea di formazioni sociali ove si svolge la personalità del consociato ex art. 2 Cost.[20], il concetto assume tangibile pregnanza per opera dell’art. 1, co. 36, della L. 20 maggio 2016, n. 76 (Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze), che descrive quali «conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile»[21]. Ulteriore e definitiva conferma alla definizione or ora tratteggiata si rinviene, infine, nell’art. 1, co. 18, lett. b) della legge delega 27 settembre 2021, n. 134, ove il convivente è qualificato come «la persona che convive con la vittima in una relazione intima, nello stesso nucleo familiare in modo stabile e continuo».

Insomma, si configura un rapporto di convivenza ove due soggetti, sulla base di intime e personalissime scelte, stringano un legame affettivo di coppia, idoneo a proiettarsi in una dimensione futura di impegno e di progetto di comunione materiale e spirituale di vita, anche senza l’adesione a vincoli giuridici quali il matrimonio o l’unione civile[22]. Tali caratteristiche donano flessibilità a questa peculiare dimensione affettiva, che, non ostacolata da legami formali, muta e si adatta al contesto sociale in cui si realizza, conformandosi alle esigenze lavorative e alle scelte intime della coppia: in costanza degli elementi materiali e spirituali sintomatici della già menzionata «comunione di vita e volontà di condivisione»[23], il rapporto di convivenza continuerà a sussistere, anche ove frammentato nel suo decorso da intervalli o sospensioni.

Dal momento che l’accertamento della prospettiva di stabilità e dell’attesa di reciproca solidarietà di una coppia, nucleo del rapporto di convivenza, è un’indagine di difficile svolgimento, spiegandosi integralmente nel solo foro interno dei partner, la giurisprudenza civile e penale ha elaborato, nel corso di decenni, una serie di indicatori sintomatici di convivenza, la cui valutazione – complessiva e non atomistica – può coadiuvare l’operato dell’interprete. Nominativamente, consentono di rimarcare la volontaria e reciproca partecipazione di un individuo alla vita dell’altro:

  • la stabile condivisione di una abitazione[24];
  • la condivisione di un’intimità, espressiva di un legame sentimentale stabile;
  • la riconoscibilità come coppia in contesti sociali e familiari;
  • la scelta di avere figli e la situazione di condivisa genitorialità[25];
  • la reciproca assistenza economica, realizzata mettendo a disposizione un patrimonio comune, beni o servizi;
  • l’esercizio di un’attività lavorativa comune.         

Alla luce delle considerazioni sino a qui svolte, di certo non sfugge che la conformazione del rapporto di convivenza, nelle sue multiformi sembianze, tutte ispirate all’idea di una vita condivisa a livello materiale ed affettivo, agevola la perpetrazione di condotte maltrattanti. La consuetudine di vita comune ed i vincoli di intimità, fiducia ed affidamento che legano gli individui conviventi, difatti, sono la precondizione che consente al soggetto agente di instaurare un rapporto gerarchico nella coppia, di sopraffare la persona offesa, di condizionarla psicologicamente e manipolarla, con ricatti affettivi e psicologici, privandola, da ultimo, di qualsivoglia spazio di autodeterminazione.

 

4.3. Una matrice di ordine relazionale similare a quella sopra descritta si rinviene anche nell’art. 612-bis c.p., a fronte del delitto di “Atti persecutori”.

La fattispecie penale, in origine nettamente distinta dal reato di maltrattamenti, oltreché per i propri contenuti anche per il requisito della cessazione del vincolo di coniugio o affettivo[26], è stata oggetto di numerose modifiche ed adeguamenti, tutti teleologicamente orientati ad un ampliamento della sfera di tutela della persona offesa da violenze commesse nell’ambito di relazioni affettive di qualsivoglia natura, che ne hanno determinato un progressivo avvicinamento e, finanche, una sovrapposizione con l’art. 572 c.p. In particolare, per quanto qui di interesse, la portata applicativa soggettiva dell’aggravante di cui al secondo comma dell’art. 612-bis c.p., nella sua primigenia formulazione limitata alle ipotesi in cui il soggetto agente fosse il coniuge legalmente separato o divorziato o persona non più legata da relazione affettiva alla persona offesa, è stata estesa, prima per opera del decreto legge n. 93 del 2013, quindi, ulteriormente, dalla legge di conversione n. 119 del 2013, ad ogni rapporto affettivo, cessato o attuale, formalizzato o meno dal coniugio[27].

È proprio in quest’ultima espressione che, però, si rinviene il nucleo costitutivo della fattispecie incriminatrice di atti persecutori aggravati, e si consente una prima distinzione dalla similare fattispecie di maltrattamenti: l’aumento di pena discende, infatti, dalla sussistenza (presente o pregressa) di una «relazione affettiva», precondizione che agevola la commissione del reato e che deve intendersi quale legame sentimentale derivante da un rapporto di reciproco affidamento, non necessariamente connotato dalla componente della stabile condivisione di vita[28].

 

5. Le considerazioni sino a qui svolte conducono, allora, all’individuazione della linea di demarcazione tra il reato di maltrattamenti di cui all’art 572 c.p. ed il delitto di atti persecutori aggravati ex art. 612-bis co. 2 c.p. nella cessazione effettiva del rapporto di convivenza.

Se, da un lato, la distinzione è netta a fronte di ipotesi di scioglimento del vincolo matrimoniale, in cui si esclude per se il permanere tra i soggetti di una comunione materiale e spirituale di vita proiettata nel futuro e si ritiene sicuramente integrata la sola fattispecie di cui all’art. 612-bis co. 2 c.p., d’altro canto residuano come problematiche le contingenze in cui le condotte vessatorie intervengono nell’ambito di relazioni – ormai terminate – prive ab origine di un legame formale.

In tutti questi casi “difficili” la vexata questio della distinzione tra maltrattamenti ed atti persecutori aggravati può trovare soluzione – come specifica la Corte di Cassazione – solo a fronte di un fattuale accertamento del perdurare o meno, tra l’autore del reato e la persona offesa, di una consuetudine di vita, esplicitata da modalità relazionali che si pongono in continuità o discontinuità con la precedente fase di convivenza.

Insomma, al fine di acclarare quale sia la corretta qualificazione giuridica delle condotte violente perpetrate dal partner, si richiede al giudice di merito di procedere ad un doppio vaglio della situazione di fatto esistente al momento della consumazione delle angherie: un preliminare accertamento deve essere rivolto alla possibilità di ricondurre il rapporto di coppia nel perimetro della “convivenza” e non della “relazione affettiva”[29]; una seconda valutazione, appurata la sussistenza di una convivenza, deve verificare se la stessa è effettivamente cessata, ovvero se permangono, al di là di quanto affermino le parti, meccanismi di controllo, oggettivo e soggettivo, e la persona offesa continui ad essere totalmente privata, in ragione dell’ingombrante presenza dell’ex partner maltrattante, di spazi di autonomia materiale e psicologica.

Solo in questo secondo caso, continuando a sussistere un effettivo rapporto di convivenza, potrà dirsi integrato il reato di cui all’art. 572 c.p. e non l’ipotesi aggravata del delitto di cui all’art. 612-bis c.p.

Così conclude il giudice di legittimità, e annulla la sentenza impugnata nella parte relativa alla qualificazione giuridica della condotta illecita realizzata dall’imputato dopo il maggio 2019, rinviando ad altra sezione della Corte di appello di Bologna ai fini dell’instaurazione di un nuovo giudizio.   

 

 

 

[1] L’impostazione così adottata dai giudici di merito è conforme all’orientamento della giurisprudenza di legittimità che prospetta come “configurabile il reato di maltrattamenti in situazione di condivisa genitorialità, anche in assenza di convivenza, a condizione che la filiazione non sia stata un evento meramente occasionale ma si sia quantomeno instaurata una relazione sentimentale, ancorché non più attuale, tale da ingenerare l'aspettativa di un vincolo di solidarietà personale, autonomo rispetto ai doveri connessi alla filiazione” (Così Cass., Sez. VI, 25.06.2019 (dep. 11.09.2019), n. 37628, Rv. 276697-01).

[2] Più specificamente, con il primo motivo di ricorso si lamentava che la Corte d’appello di Bologna aveva rigettato con argomenti “apodittici” la richiesta di escussione della nuova compagna dell’imputato quale teste dei fatti del 7 febbraio 2020, testimonianza non assunta né in fase investigativa né in primo grado, ove era stata richiesta come condizione cui subordinare il rito abbreviato. Sosteneva la difesa che l’assunzione di detta testimonianza fosse di preminente rilievo, potendo la teste comprovare l’assenza dell’amica della persona offesa, le cui dichiarazioni avevano confermato il fatto.     

[3] In maniera più analitica, con il secondo motivo di ricorso si lamentava che la Corte d’appello di Bologna non aveva esaminato la richiesta di escludere l’aggravante della presenza dei figli minorenni o di limitarne l’ambito temporale sino al maggio 2019, prima che entrassero in vigore gli inasprimenti sanzionatori operati dalla L. 19 luglio 2019, n. 69 e fosse introdotta l’aggravante di cui all’art. 572 co. 2 c.p., precludendo, conseguentemente, l’accesso dell’imputato al beneficio della sospensione condizionale della pena e della sospensione dell’esecuzione ex art. 656 co. 9 c.p.p.  

[4] Nella sentenza qui in esame il giudice di legittimità rileva la manifesta infondatezza del primo motivo di ricorso formulato dall’imputato, constatando che, in sede di udienza preliminare, la difesa aveva presentato istanza di rito abbreviato condizionato all’escussione del soggetto sopra indicato e, in subordine, rito abbreviato secco, e che il giudice di prime cure aveva ammesso il rito speciale in questa seconda modalità procedurale. La Corte ricorda, inoltre, che il giudice di appello riteneva il materiale probatorio completo, non provvedendo, pertanto, all’integrazione mediante assunzione di prove, potendo decidere allo stato degli atti.

[5] Nella decisione in commento la Corte di Cassazione indica il secondo motivo di ricorso formulato dall’imputato come tardivo e reiterativo, osservando come il ricorso abbia proposto, negli stessi termini ed in modo generico, l’assenza di prova dell’aggravante dei maltrattamenti commessi in presenza dei figli minorenni, senza misurarsi con quanto già pronunciato dai giudici di merito e senza considerare la sostanziale inefficacia giuridica dei suoi contenuti, stante la pacifica sussistenza dell’aggravante dell’aver commesso i fatti ai danni di donna in stato di gravidanza. 

[6] Così Cass. pen., Sez. VI, 24 novembre 2011 (dep. 20 giugno 2012), n. 24575, Pres. Serpico, Rel. Paoloni, con nota di C. Minnella, La Cassazione traccia la linea di confine tra il reato di maltrattamenti in famiglia e quello di stalking, in Dir. pen. cont., 20 luglio 2012.

[7] Il concetto di “disorientamento giurisprudenziale” cui si fa qui riferimento vuole far rinvio ad A. Roiati, La fattispecie dei maltrattamenti contro familiari e conviventi tra interventi di riforma, incertezze interpretative e prospettive de iure condendo, in questa Rivista, 30 marzo 2023. 

[8] Corte cost., sent. 14 maggio 2021, n. 98, Pres. Coraggio, red. Viganò, che può consultarsi in Una declaratoria di inammissibilità della Corte costituzionale con importanti affermazioni su principio di legalità e divieto di analogia in materia penale (a proposito del confine tra maltrattamenti e stalking), in questa Rivista, 14 maggio 2021. A commento della decisione della Corte costituzionale si vedano altresì C. Cupelli, Divieto di analogia in malam partem e limiti dell’interpretazione in materia penale: spunti dalla sentenza 98 del 2021, in Giurisprudenza costituzionale, fasc. 4/2021, pp. 1797 ss.; L. Risicato, Argini e derive della tassatività. Una riflessione a margine della sentenza costituzionale n. 98/2021, in Discrimen, 16 luglio 2021; M. Scoletta, Verso la giustiziabilità della violazione del divieto di analogia a sfavore del reo, in Osservatorio AIC, fasc. 5/2021, 5 ottobre 2021, pp. 196 ss.   

[9] Con ordinanza del 9 giugno 2020, il Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione monocratica, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 521 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, «nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato, allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento ad instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del fatto, di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al fatto diversamente qualificato dal giudice in esito al giudizio». A commento di suddetta ordinanza si veda V. Tondi, Riqualificazione giuridica del fatto e accesso ai riti alternativi: una nuova questione di legittimità costituzionale dell’art. 521 c.p.p., in questa Rivista, 3 luglio 2020.

[10] Corte cost., sent. 14 maggio 2021, n. 98, cit.

[11] Il giudice a quo procede ad una riqualificazione del fatto ai sensi dell’art. 572 c.p. sulla scorta di un orientamento della Cassazione che ritiene integrato il delitto di maltrattamenti in presenza di condotte maltrattanti compiute in un «contesto affettivo protetto», caratterizzato da «legami forti e stabili tra i partner» e dalla «condivisione di progetti di vita», ritenendo, sostanzialmente, obliterabile il requisito della coabitazione ai fini della configurazione del reato. Ex plurimis Cass., Sez. III, 3 luglio 1997, n. 8953; Cass., Sez. V, 17 marzo 2010, n. 24688; Cass., Sez. VI, 7 maggio 2013, n. 22915; Cass., Sez. VI, 7 febbraio 2019, n. 19922; Cass., Sez. VI, 6 novembre 2019, n. 5457.

[12] Per l’esatta formulazione della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Torre Annunziata si veda supra, nota n. 9.

[13] Il passaggio è espressamente richiamato anche da Cass. pen., Sez. VI, ud. 15 settembre 2022 (dep. 3 marzo 2023), n. 9187, qui in commento.

[14] Così Corte cost., sent. 14 maggio 2021, n. 98, cit.

[16] Come ben delineato anche in A. Roiati, La fattispecie dei maltrattamenti contro familiari e conviventi tra interventi di riforma, incertezze interpretative e prospettive de iure condendo, cit., l’estensione dell’ambito di tutela offerto dall’art. 572 c.p. può rilevarsi già nella giurisprudenza degli anni ’50, ove il concetto di famiglia è dilatato oltre i confini propri dell’istituzione, a ricomprendere qualsiasi «unione di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione». 

[17] Viene in considerazione la modifica dell’articolo operata dalla L. 1° ottobre 2012, n. 172, di ratifica della Convenzione di Lanzarote. Sul punto pare utile rinviare a G. Pavich, Luci e ombre nel “nuovo volto” del delitto di maltrattamenti. Riflessioni critiche sulle novità apportate dalla legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote, in Dir. Pen. Cont., 9 novembre 2012.

[18] Tra le altre, Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 8396 del 1996; Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 1857 del 1990; Cass. pen., Sez. VI, ord. n. 1003 del 1977. Con riferimento alla condotta di maltrattamento penalmente rilevante ai fini dell’integrazione della fattispecie qui in esame, è necessario richiamare Cass., SS.UU., 29 gennaio 2016 (dep. 16 marzo 2016), n. 10959, Rv. 265893-01.

[19] Relazione illustrativa all’A.S. n. 1969-B, Ufficio Studi del Senato, gennaio 2011, n. 269, pag. 32.

[20] In questo senso la giurisprudenza costituzionale a partire da Corte Cost., 18 novembre 1986, n. 237, secondo un orientamento condiviso anche dalla giurisprudenza di legittimità e, da ultimo, Cass., SS.UU., 26 novembre 2020 (dep. 17 marzo 2021), n. 10381, Rv. 280574-01.

[21] A proposito della citata definizione di convivente, la Corte di Cassazione si interroga, nella pronuncia qui in esame, sull’utilizzabilità della nozione legale di cui all’art. 1, co. 36, L. n. 76/2016, che per espressa previsione legislativa è enucleata ai soli fini «delle disposizioni di cui ai commi da 36 a 67», ma conclude in senso affermativo, alla luce dei criteri ermeneutici delineati dalla Corte Costituzionale nelle menzionate sentenze, nonché in virtù del diritto vivente formatosi in materia di “convivenze di fatto”, recepito tanto dalla L. n. 76/2016 quanto dalla L. n. 172/2012.

[22] In questo senso Cass. pen., Sez. VI, 11 febbraio 2021 (dep. 7 maggio 2021), n. 17888, Rv. 281092-01, che ritiene «configurabile il reato di maltrattamenti in famiglia anche in presenza di un rapporto di convivenza di breve durata, instabile e anomalo, purché sia sorta una prospettiva di stabilità e un'attesa di reciproca solidarietà». Sul punto si vedano altresì Cass. pen., Sez. VI, 15 gennaio 2020 (dep. 28 febbraio 2020), n. 8145, Rv. 278358-01 e Cass., SS.UU., 26 novembre 2020 (dep. 17 marzo 2021), n. 10381, Rv. 280574-01.

[23] Cass. pen., Sez. VI, ud. 15 settembre 2022 (dep. 3 marzo 2023), n. 9187, cit.

[24] Cass. pen., Sez. VI, 16 febbraio 2022 (dep. 21 marzo 2022), n. 9663, Rv. 283120-01. Peraltro, con riferimento al requisito della coabitazione la Corte di cassazione precisa che, sebbene lo stesso possa essere un indice importante ai fini dell’individuazione di una convivenza affettiva stabile, nondimeno non è elemento che la connota, potendo la stessa mancare per condizioni obiettive o scelte individuali. In questo senso anche Corte EDU, Vallianatos e altri contro Grecia, 7 novembre 2013, p. 73.

[25] Cass. pen., Sez. VI, 25 giugno 2019 (dep. 11 settembre 2019), n. 37628, Tv. 276697-01.

[26] Come dettagliatamente riportato nella sentenza qui in esame, l’originaria distinzione tra maltrattamenti ed atti persecutori ruotava intorno all’attualità – o meno – del vincolo matrimoniale o della convivenza dei soggetti: «era configurabile l’art. 572 c.p. per le condotte consumate con relazione in atto, mentre era configurabile l’art. 612-bis, co. 2, c.p. per le condotte consumate dopo la cessazione del vincolo o a conclusione della convivenza».

[28] In questo senso Cass. pen., Sez. III, 6 febbraio 2018 (dep. 27 settembre 2018), n. 42424, Rv. 274518-01 e, in particolare, Cass. pen., Sez. III, 9 gennaio 2018 (dep. 15 marzo 2018), n. 11920, Rv. 272383-01, che indica con chiarezza che «in tema di atti persecutori, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante di cui all'art. 612-bis, comma secondo, cod. pen. per "relazione affettiva" non s'intende necessariamente la sola stabile condivisione della vita comune, ma anche il legame connotato da un reciproco rapporto di fiducia, tale da ingenerare nella vittima aspettative di tutela e protezione».

[29] Difatti, come già affermato sopra, la caratterizzazione del rapporto come “relazione affettiva” determina l’automatica integrazione della fattispecie di atti persecutori aggravati, potendosi escludere l’elemento della comunione spirituale e materiale di vita.