Note critiche a margine di Cass. Sez. VI, 7 marzo 2024 (dep. 19 aprile 2024), n. 16659, Pres. De Amicis, Rel. Di Giovine, ric. D.
*Contributo pubblicato nel fascicolo n. 6/2024.
1. Mentre alla Camera, in seconda lettura, sta per essere approvata su iniziativa del Governo una legge che abroga l’art. 323 c.p. (d.d.l. n. 1718), la Corte di cassazione, con una sentenza della Sezione VI segnalata dal servizio novità e dal Massimario (Rv 286303), ha ritenuto (già) sussistente una (parziale) abolitio criminis per effetto della modifica della disciplina extrapenale relativa agli appalti c.d. sotto soglia, realizzata nel 2023 dal nuovo Codice degli appalti. La sentenza presenta interesse per almeno due profili.
Per un verso, perché dimostra – se mai ve ne fosse bisogno – che i procedimenti per abuso d’ufficio non si concludono sempre con delle archiviazioni e che esistono ancora condanne che giungono fino in Cassazione, nel caso di specie dopo una doppia conforme. L’abuso d’ufficio è, insomma, ancora vivo: moribondo per volontà legislativa, ma vivo. Sta al Parlamento la responsabilità politica di staccare la spina, determinando vuoti di tutela penale in rapporto a fatti come quello oggetto della sentenza qui annotata.
Per altro verso, la sentenza della VI Sezione affronta un interessante caso di c.d. modificazioni mediate della fattispecie penale (o successione di norme “integratrici”), risolvendolo – a nostro avviso non correttamente – nel senso dell’intervenuta abolitio criminis: una scelta politico-criminale che il Parlamento sta compiendo e che non vi è ragione di anticipare per via giurisprudenziale.
2. Questo il fatto. L’amministratore di una società di capitali interamente partecipata dalla ASL di Bari, alla quale fornisce personale per il 118 e per le pulizie, viene condannato in primo e in secondo grado per abuso d’ufficio. Gli si contesta, in quanto pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, di avere intenzionalmente procurato ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale, con correlato danno per la p.a., stipulando con un avvocato un contratto per l’affidamento di servizi legali (recupero crediti e altro) senza ricorrere a una procedura ad evidenza pubblica. L’abuso è stato in particolare realizzato violando l’art. 36 del d.gs. 18 aprile 2016, n. 50 (vecchio codice degli appalti) che all’epoca del fatto, nel 2017, imponeva di ricorrere alla procedura ad evidenza pubblica, anziché all’affidamento diretto, in caso di appalto di servizi di valore superiore a 40.000 euro. Il valore del contratto, nel caso di specie, è infatti pari a 112.000 euro. La configurabilità dell’abuso d’ufficio, ritenuta nei due precedenti gradi di giudizio, viene confermata anche dalla Cassazione, finanche alla stregua della più circoscritta (ri)formulazione dell’art. 323 c.p. risultante dal d.l. n. 76/2020. Senonché lo ius superveniens avrebbe fatto venir meno la rilevanza penale del fatto.
3. Ecco il problema di diritto: dopo la commissione del fatto sono intervenute modifiche normative che hanno alzato la soglia al di sotto della quale le amministrazioni pubbliche possono affidare appalti di servizi senza ricorrere a procedure ad evidenza pubblica. Dapprima, durante l’emergenza pandemica, il c.d. Decreto semplificazioni (d.l. 16 luglio 2020, n. 76), con una disciplina temporanea aveva consentito l’affidamento diretto per i servizi e le forniture entro l’importo di 139.000 euro. Ora, il nuovo Codice degli appalti (art. 50 d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36) ha recepito l’innalzamento della soglia a regime portandola a 140.000 euro.
La Cassazione si domanda se queste modifiche normative, relative a disposizioni extrapenali, possano comportare una parziale abolitio criminis in rapporto ai fatti di abuso d’ufficio antecedentemente commessi e relativi ad appalti che risultano oggi sotto soglia.
4. Il problema è correttamente rilevato e impostato dalla sentenza annotata, che ribadisce un principio ormai consolidato in giurisprudenza, dopo plurimi interventi delle Sezioni Unite della Cassazione: in ipotesi di successione di norme extrapenali, occorre distinguere tra norme integratrici e non integratrici, potendo l’abolitio criminis essere affermata solo a fronte della modifica di norme realmente integratrici della fattispecie legale. Richiamando la sentenza Magera del 2007 (Cass. S.U. 27 settembre 2007, n. 2451, Magera, Rv 238197, rel. Lattanzi), la Cassazione ricorda come l’indagine sugli effetti penali della successione di leggi extrapenali vada operata facendo riferimento non al fatto concreto ma alla fattispecie astratta (c.d. criterio strutturale), considerando se la modifica della norma extrapenale abbia mutato la fisionomia della fattispecie descritta dalla norma incriminatrice (nel nostro caso, quella di cui all’art. 323 c.p.) che, formalmente è rimasta immutata. Tale verifica, condotta al metro di un criterio formale, non è peraltro insensibile a una correlata valutazione sostanziale, dovendo il giudice valutare se la modifica normativa si riflette sull’offensività del reato, facendo venir meno il giudizio di disvalore penale del tipo di fatto commesso.
Nell’applicare il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, la sentenza annotata riconosce – a ragione – come sia difficile distinguere le norme extrapenali integratrici da quelle che “incidono solo su presupposti fattuali, senza attingere al disvalore del fatto”. Il criterio recepito dalla sentenza Magera e, prima ancora, proposto da una parte della dottrina[1], individua quali norme realmente integratrici le norme definitorie e le norme che riempiono il precetto di norme penali in tutto o in parte in bianco. La modifica di tali norme muta la fisionomia e la descrizione legale della fattispecie penale, comportando l’applicabilità dell’art. 2 c.p. Non altrettanto deve dirsi, sempre secondo la sentenza Magera, quando la modifica interessi norme extrapenali richiamate da elementi normativi della fattispecie penale[2], cioè da concetti/parole che, pur facendo riferimento a norme giuridiche (es., cosa mobile ‘altrui’) o extragiuridiche (es., ‘comune sentimento del pudore’), conservano una propria autonomia di significato (ad es., cosa altrui = cosa di proprietà di altri, sulla base delle norme sui modi di acquisto della proprietà, quali che siano).
La sentenza annotata richiama un passaggio della sentenza Magera che “in un obiter dictum…esclude esemplificativamente il fenomeno della successione proprio in relazione all’art. 323 c.p., sebbene in un caso inverso a quello in oggetto, e cioè quando il fatto fosse stato commesso in vigenza di leggi extrapenali alla cui stregua era in origine lecito, e successivamente mutate”.
5. Pur avendo individuato nella giurisprudenza delle Sezioni Unite il criterio per risolvere proprio il caso sottoposto al suo esame – escludendo l’applicabilità dell’art. 2 c.p.: del primo come anche, coerentemente, del secondo comma – la sentenza annotata giunge a una soluzione diversa ed opposta, ravvisando un’intervenuta abolitio criminis. Lo fa dopo aver qualificato l’abuso d’ufficio come una “norma penale prevalentemente in bianco”, nella quale “la condotta può essere identificata soltanto mediante il riferimento alla violazione di leggi concernenti il comparto della pubblica amministrazione, sicché la legge extrapenale finisce con il riempire di senso il precetto penale. Ne consegue” – conclude la sentenza annotata - “che la modificazione della legge la cui violazione è richiesta dal tipo legale dell’abuso d’ufficio reagisce immediatamente sul giudizio di disvalore espresso mediante la posizione della fattispecie: nella vicenda concreta, facendolo venire meno”. Di qui l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna impugnata “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”, con revoca delle statuizioni civili.
Secondo la sentenza annotata, in particolare, sarebbe decisiva la recente modifica del Codice degli appalti, non anche l’innalzamento della soglia per gli affidamenti diretti realizzata durante l’emergenza pandemica del Decreto semplificazioni. In quel caso la modifica della norma extrapenale (ritenuta) integratrice sarebbe infatti riconducibile alla disciplina dell’art. 2, co. 5 c.p. (in quante legge eccezionale/temporanea) e non avrebbe dunque effetto retroattivo.
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6. Il presupposto della soluzione accolta dalla sentenza annotata è, dunque, la qualificazione dell’abuso d’ufficio come norma penale (parzialmente) in bianco.
Si tratta, a nostro avviso, di una qualificazione non corretta perché confonde le norme di riempimento di norme penali in bianco – esse sì vere e proprie norme integratrici della fattispecie – con le norme richiamate da elementi/concetti normativi – che, invece, non sono norme integratrici. L’espressione “norme di legge o di regolamento” – come anche, dopo il 2020, l’espressione “specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” – costituisce infatti un elemento normativo della fattispecie di abuso d’ufficio.
Ci sia consentito richiamare qui quanto, in un lavoro monografico del 2008 sulla successione di norme integratrici[3], scrivevamo a proposito della differenza tra norme penali in bianco e norme penali descritte attraverso elementi normativi, prendendo ad esempio proprio l’abuso d’ufficio: “la norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio è…ben lungi dall’essere anche solo ‘parzialmente in bianco’. La figura astratta del reato è compiutamente descritta in tutti i suoi elementi: anche in quello della violazione di «norme di legge o di regolamento». Con questa espressione, che costituisce un elemento normativo, il legislatore ha limitato la rilevanza penale delle condotte di abuso d’ufficio a quelle che siano state poste in essere violando una qualsiasi norma di legge o una qualsiasi norma di regolamento. I concetti di «legge» e di «regolamento» hanno un significato autonomo dal contenuto di questa legge o di quel regolamento che, pertanto, non concorrono a descrivere la figura astratta del reato. Quei concetti normativi sono del tutto equivalenti, dal punto di vista strutturale, al concetto normativo di «reato», che figura, ad esempio, nella norma incriminatrice della calunnia: una norma che nessuno ci sembra che ritenga parzialmente ‘in bianco’”. E da sempre giurisprudenza e dottrina concordano nel ritenere che la sopravvenuta abolizione del delitto oggetto di falsa incolpazione non comporta una abolitio del delitto di calunnia[4].
La soluzione contraria all’abolitio criminis è d’altra parte a nostro avviso argomentabile non solo attraverso un criterio strutturale, ma anche sul piano sostanziale. L’offesa ai beni tutelati dall’art. 323 c.p. si realizza nel momento consumativo del reato e non viene posta nel nulla da questa o quella modifica delle innumerevoli disposizioni del diritto amministrativo la cui violazione può integrare un abuso da parte del pubblico funzionario. L’innalzamento della soglia per gli affidamenti diretti nei contratti pubblici non esprime un mutato giudizio relativo al disvalore penale dell’abuso commesso prima dell’innalzamento della soglia stessa.
7. La giurisprudenza della Cassazione è d’altra parte costante nel ritenere che la modifica delle disposizioni di diritto amministrativo che regolano l’attività della p.a. non comporti una abolitio criminis in relazione ai fatti abuso d’ufficio antecedentemente commessi violando quelle disposizioni.
Chiarissima è la seguente massima di una sentenza della Sezione VI del 2003[5]: “nell'abuso di ufficio connesso a una violazione di legge, questa si pone come mero presupposto di fatto per l'integrazione del delitto, e lo specifico contenuto della regola violata non si incorpora nella norma penale e non va ad integrare la relativa fattispecie. Ne consegue che la sussistenza di tale requisito di fatto deve essere ricercata nel momento stesso del reato e la valutazione del giudice non può che essere rapportata al contenuto che quella regola possedeva al tempo in cui il reato fu commesso, con l'effetto ulteriore che, in caso di modificazione successiva di tale regola, non trova applicazione l'art. 2 c.p., in quanto la nuova legge di riferimento non introduce alcuna differente valutazione in relazione alla fattispecie legale astratta disegnata dalla norma incriminatrice e al suo significato di disvalore (rimanendo immutato il presupposto della "violazione di legge"), ma modifica una disposizione extrapenale che si limita ad influire, nel caso singolo, sulla concreta applicazione futura della stessa norma incriminatrice, nel senso che la sussistenza del requisito della "violazione di legge" va verificata alla luce della nuova regola”.
Analogo principio di diritto fu d’altra parte applicato dalla Sesta Sezione della Cassazione, nel 2005[6], per risolvere un caso molto simile a quello oggetto della sentenza annotata: il direttore generale e il direttore amministrativo di una U.S.L. erano chiamati a rispondere del delitto di abuso d’ufficio per avere adottato delibere di conferimento di incarichi esterni in violazione di norme di legge statali e regionali, procurando così al soggetto incaricato un ingiusto vantaggio patrimoniale. Ricorrendo per cassazione, la difesa deduceva da un lato l’insussistenza o comunque l’irrilevanza delle violazioni delle norme di legge statale e, dall’altro, per quanto qui interessa, la sopravvenuta abrogazione delle norme di legge regionale. Una successiva legge regionale, infatti, abrogando le precedenti disposizioni, aveva assoggettato l’attività contrattuale dell’amministrazione sanitaria, per importi, come nel caso di specie, non superiori a una certa entità, al regime delle spese in economia, sottraendola quindi ai requisiti e presupposti, sostanziali e procedurali, precedentemente richiesti e non ottemperati dagli imputati. Orbene, la Sesta Sezione escluse l’abolitio criminis affermando che ‘‘è irrilevante il mutamento delle norme violate in epoca successiva alla condotta e all’attribuzione del vantaggio ingiusto; e ciò in quanto l’esistenza della legge violata viene in considerazione ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 c.p. come semplice presupposto di fatto, su cui non influisce pertanto l’abrogazione sopravvenuta, e non già come elemento strutturale della norma incriminatrice, soggetto all’applicazione dell’art. 2 co. 2 c.p.”.
Sulla scia del consolidato orientamento di legittimità si è di recente posta, d’altra parte, una condivisibile pronuncia della Sezione VII della Cassazione[7], anch’essa relativa alla sopravvenuta modifica del Codice degli appalti. La pronuncia è così massimata: “nell'abuso di ufficio la violazione di legge rappresenta un presupposto di fatto che non integra il delitto, con la conseguenza che tale requisito deve essere valutato con riferimento al tempo in cui il fatto è stato commesso, ed è irrilevante ex art. 2 c.p. la modifica sopravvenuta della disposizione di legge. (Fattispecie in cui l'imputato nella qualità di segretario comunale ha violato la procedura di affidamento diretto di un servizio pubblico mediante l'artificioso frazionamento del valore delle prestazioni di servizi in importi inferiori alla somma di 40.000 euro, successivamente elevata a 150.000 euro ex art. 50, comma 1, d.lgs. 31 marzo 2023, n. 36)”.
È vero che la qualifica dell’abuso d’ufficio quale norma penale (parzialmente) in bianco non è inedita, nella giurisprudenza di legittimità, essendo stata in particolare prospettata in tema di errore di diritto per qualificare come inescusabile (se colpevole) errore sulla legge penale quello che ha ad oggetto le norme che regolano l’azione amministrativa[8]. Questo rilievo non giustifica, tuttavia, la soluzione adottata dalla sentenza annotata sul parallelo terreno della successione di leggi extrapenali: evidenzia bensì – a ben vedere – l’incoerenza interna agli orientamenti della Cassazione sui terreni dell’art. 2 e dell’art. 5 c.p. Terreni che sono indubbiamente diversi, ma che pongono lo stesso problema: quello di distinguere tra norme extrapenali integratrici (cui si applicano, rispettivamente, gli artt. 2 e 5 c.p.) e norme extrapenali non integratrici (cui non si applica l’art. 2 c.p. e può applicarsi l’art. 47, co. 3 c.p.). Coerenza vuole che la stessa norma non possa essere considerata integratrice quando si discute di errore e non integratrice quando si parla di successione di leggi.
8. Se e quando sarà approvato il disegno di legge che abroga l’art. 323 c.p., attualmente all’esame del Parlamento, il problema trattato dalla sentenza annotata e da questa nota sarà superato: fuori dai casi di abrogatio sine abolitione (cioè di perdurante rilevanza penale del fatto alla luce di un’altra fattispecie in rapporto di specialità, già vigente nell’ordinamento), l’abolitio criminis sarà l’esito di una scelta politico-criminale del legislatore, che modificherà il suo giudizio di disvalore penale in rapporto all’abuso d’ufficio. Non resta che attendere e, come è molto probabile, in caso di abrogazione dell'art. 323 c.p. consegnare la sentenza annotata all’archivio del materiale di studio del complesso problema delle modifiche mediate della fattispecie penale.
[1] Cfr., per tutti, D. Pulitanò, L’errore di diritto nella teoria del reato, Giuffrè, Milano, 1976; G.L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, Giuffrè, Milano, 2008; M. Romano, Commentario sistematico del codice penale, I, 3a ed., Giuffrè, 2004, art. 2, p. 57 s.; G. Marinucci, E. Dolcini, G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, 11a ed., Giuffrè Francis Lefebvre, 2023, p. 152 s.
[2] Cfr. per tutti, anche con riferimento al problema della successione di norme richiamate da elementi normativi, L. Risicato, Gli elementi normativi della fattispecie penale: profili generali e problemi applicativi, Milano, Giuffrè, 2004. Nella letteratura italiana, tra le opere monografiche, v. anche D. Micheletti, Legge penale e successione di norme integratrici, Giappichelli, Torino, 2006.
[3] G.L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”: teoria e prassi, Milano, Giuffrè, 2008, p. 82.
[4] Cfr., volendo, G.L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”, cit., p. 403 s.
[5] Cass. Sez. VI, 15 gennaio 2003, n. 10656, Villani, Rv. 244017. V. anche, sempre in tema di abuso d’ufficio, Cass. Sez. II, 2 dicembre 2003, n. 4296, Stellaccio, Rv. 228152; Cass. Sez. II, 16 aprile 2004, n. 20647, Amenta, Rv. 229530; Cass. Sez. VI, 13 febbraio 2006, Guglielmi, in Guida dir. 2006, n. 33, p. 78.
[6] Cass. Sez. VI, 7 aprile 2005, n. 18149, Fabbri, Rv. 231342.
[7] Cass. Sez. VII, ord. 7 dicembre 2023, n. 3544, C., Rv. 285864.
[8] Sul tema sia consentito rinviare a G.L. Gatta, Abolitio criminis e successione di norme “integratrici”, cit., p. 608 s.